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Full text of "Opere di Vincenzo Monti Iliade. 4"

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OPERE 

DI 

VINCENZO  MONTI 

Tomo  IV. 


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ILIADE 


DI 

OMERO 


TRADUZIONE 

D I 

VINCENZO  MONTI 


MILANO 

PRESSO  GIOVANNI  RESNATl 
E GIUS.  BERNARDONt  DI  GIO. 
MDCCCXL 


A SUA  ALTEZZA  IMPERIALE 


EUGENIO  NAPOLEONE 

DI  FRANCU 

VICERÉ  d’  ITRLIA 

AUICAHGEUIUE  DI  (TATO  DELI.*  IMFEIO  rlAMCEtE,  rRUICIFB  DI  TEESZIA,  IC. 


Altbeza  Imperiale  * 


La  Diade  fu  sempre  il  poema  de’  valorosi.  Sono  ancor 
celebri  le  generose  lagrime  d’Alessandro  sulla  tomba  di 
Achille;  ed  è pure  Ira  gli  uomini  divulgato  che  quel 
grande  conquistatore  solca  chiamare  l’ Iliade  il  viatico 
delle  sue  spedizioni. 

A voi  dunque,  magnanimo  principe,  giustamente  se 
ne  intitola  la  traduzione  nella  lingua  del  bel  paese , di 
cui  siete  l’amore , a voi  figlio  ed  alunno  del  maggior  de’ 
guerrieri,  e guerriero  egregio  voi  stesso,  coronato  l’ an- 
cor giovine  fronte  di  quel  medesimo  alloro  che  cinse 
un  dì  sulla  Raab,  ma  non  così  bello,  le  tempie  canute 
del  Montecuccoli. 


* Questa  lettera  dedicatoria  precedeva  le  prime  due  edìxioni  della 
Iliade  fatte  dal  Monti. 


6 


Se  il  cielo,  invidiandoTÌ  ai  nostri  giorni,  vi  avesse  con- 
cesso agli  eroici,  Omero  vi  avrebbe  collocato  vicino  ad 
Achille  fra  Patroclo  e Diomede.  Noi,  testimoni  delle  al- 
tre vostre  virtù,  vi  collochiamo  in  un  grado  più  d’  assai 
eminente  : tra  Minerva  ed  Astrea  vicino  al  massimo  vo- 
stro padre. 

Milano  , 6 marzo  1 8 1 o. 


Dell'  Altezza  Vostra  Imperiale 


UmilìiHino,  D«ToUuimo,  UUiidiealisumo  Scrrtlor^ 

VINCENZO  MONTI 


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AL  LETTORE 


«VVE«Tm»lITO  ruEMESSO  DAlt'illITOIIE  All*  (Er.ONDA  lOIZIONE 


Molti  e di  non  lirve  importanza  sono  i cangiamenti  co’ 
quali  in  questa  seconda  edizione*  mi  sono  adoperato  di 
migliorare  la  mia  versione.  Altri  risguardano  la  rigorosa 
fedeltà  de’  concetti , altri  la  più  lodevole  interpretazione  del 
testo , altri  finalmente  lo  stile.  L’ illustre  signor  cavaliere 
Luigi  Lamberti,  le  cui  peregrine  osservazioni  sopra  l’Iliade 
vedranno  in  breve  la  luce , e I’  esimio  corcirese  signor  Mu- 
stoxidi , e più  altri , mi  sono  stati  in  ciò  liberali  di  utili 
scbiarimenti.  Ma  sopra  tutti  mi  ha  soccorso  il  maggior  lu- 
minare dell’  italiana  dottrina,  il  signor  cavaliere  Ennio  Qui- 
rino Visconti,  nomo  di  quel  sovrano  sapere  che  a tutti  è 
palese  nella  cognizione  de’  classici  antichi.  Le  severe  e co- 
piose sue  annotazioni  cortesemente  a mia  richiesta  invia- 
temi da  Parigi,  son  quelle  che  mi  hanno  messo  in  istato 
di  dare  al  mio  lavoro  una  quasi  novella  vita. 

Per  ciò  che  appartiene  allo  stile , ho  seguito  principal- 
mente la  propria  mia  coscienza. 

Parrà  forse  a taluno  che  per  soverchio  desiderio  del 
meglio , mi  sia  talvolta  accaduto  di  andar  nel  peggio  : e , 
per  vero,  la  lima,  se  troppo  si  calca,  morde  spesso  sul 
vivo,  e con  la  parte  viziosa  si  porta  via  pure  la  sana.  Tal 

• Milano,  dalla  stamperia  reale,  iSia,  tol.  q in  8%  od  in  i8“. 


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8 

altro  per  lo  contrario  stimerà  che  per  variare  le  cadenze 
del  verso  , o per  dargli  un  andamento  libero , disinvolto , 
c tale  che  per  nulla  si  risenta  dei  vincoli  che  di  continuo 
inceppano  il  traduttore,  stimerà,  dico , eh’  io  tolga  non  rade 
volte  nobiltà  e decoro  alla  dizione,  lasciandola  andare 
troppoVmplice  e disadorna.  Alla  quale  accusa  io  nuli’  altro 
opporrò  che  l’ esempio  d’ Annibai  Caro , col  seguente  pre> 
cetlo  lasciatone  * da  uno  de’  più  rigidi  legislatori  dell’  i- 
dioma  italiano: 

Gli  ornamenti  nella  favella  non  istanno  bene  ad 
ogni  ora;  e talvolta  il  mostrar  negligenza  in  alcuna 
lederà  cosa,  e il  non  dir  sempre  nel  miglior  modo 
tutto  ciò  che  nel  miglior  modo  forse  sempre  dir  si  po- 
trebbe , per  rendere  il  parlar  vario,  o per  altro  cotal 
riguardo,  spesse  fiale  merita  commendazione. 


* Lionanlo  Salviati»  ÀTTertimenli  della  lìngua  sopra  il  Decarac* 
rone,  lih.  II,  cap.  9. 


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AVVERTIMENTO 


bell'  editore  cloyjxyi  resi/^ti. 


Questa  mia  ristampa  è condotta  su  quella  del  iSi5  pei 
torchi  delia  milanese  Società  tipografica  de’  Classici  Italiani, 
che  fra  le  rivedute  dall  autore , è la  quarta  ed  ultima , e 
va  corredata  di  un  copioso  Indice  delle  cose  più  notabili  che 
si  contengono  nelt  Iliade.  Per  cura  di  quella  medesima  So- 
cietà era  uscita  nel  1820  per  la  ter^a  volta  la  versione  del 
Monti  da  lui  ricorretta  j e qui  mi  giova  ripetere  alcuni 
brani  coi  quali  dagli  editori  rcndevasi  conto  della  loro  pub- 
blicazione. 

n Nel  riprodurre  co' nostri  torchi  (dicevano  essi)  questa 
classica  traduzione  che,  ora  sono  dieci  anni(i),  riempì  un 
vóto  che  rimaneva  nelt  italiana  letteratura , abbiamo  la  com- 
piacenza di  darla  con  varie  correzioni  dell  autore , le  quali 
rendono  la  nostra  edizione  più  perfetta  delle  antecedenti , e 
sempre  maggiormente  preziosa  la  fatica  del  signor  cavaliere 
Monti  ». 

E toccato  di  quello  che  il  Monti  dice  sugli  schiarimenti 
avuti  dal  f'isconti  e dal  Mustoxidi,  soggiungevano;  -Ora 
le  osservazioni  del  Fìsconti  furono  date  in  luce  nel  giornale 
letterario  che  puhblicavasi  tra  noi  col  titolo  di  Ape. italiana; 
quelle  del  signor  Mustoxidi  compariranno  in  breve  tra’  suoi 
Opuscoli  (2)».  Conchiudevano  finalmente: 

(i)  La  prima  a<iiiioafl  fa  fatta  io  BrcKÌa  dal  Bettoni  nel  i8l0- 

(s)  Forooo  pobUicalì  in  fatto  qiiciti  Opuacoli  od  l8ai  col  titolo  diProaa  varit  dèi 
eopalUrt  Àndrm  Mustoxidi  corcirtst , con  aggiunte  cfi  alcuni  versi.  Milano , in»8^. 
La  maggior  parte  però  delle  ouemstoni  dei  due  cetefari  dlmùti  rimase  tultaria  ine» 
dita;  gìaccbò  tanto  di  quelle  dei  Vùcooti  nell'vdpe , quanto  di  qudle  dd  Maitoxidi 
negli  Opuacoli , neo  venne  pohUiralo  ebe  uo  maggio. 


IO 

K Per  quanto  fu  da  noi , nuda  trascurammo  perchè  nitida 
ed  accurata  riuscisse  la  stampa  di  una  versione  che  dal  Ri- 
sconti fu  giustamente  paragonata  a quella  delt  Eneide  per 
Annibai  Caro  s alla  quale  è però  nella  fedeltà  superiore , 
come  [agguaglia  nella  maestria  dello  stile,  e che  il  Mu- 
stoxidi  riguarda  qual  prctioso  anello  che  unisce  la  lellera- 
tura  italiana  alia  greca.  Per  comodo  poi  dei  leggitori  aggiu- 
gnemmo  a ciascun  libro  gli  argomenti  scritti  espressamente 
da  un  nostro  concittadino  ». 

Altrettanto  si  è ora  fatto  da  me:  ed  il  compilatore  degli 
argomenti  si  è compiaciuto  di  correggere  in  questa  ristampa 
un  abbaglio  nel  quale  si  avvide  di  essere  incorso  nel  i8ao 
scrivendo,  in  fronte  al  Libro  XXI J,  che  Achille  strascinasse 
il  cadavere  di  Ettore  intorno  alle  mura  di  Troia;  circostanxa 
quest"  ultima  che  in  Omero  non  trovasi , e che  nelle  prece- 
denti edizioni  passò  inosservata. 


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ILIADE 


LIBRO  PRIMO 

ARGOMENTO 

Cm0  sacerdote  d’ApoUo  , emndo  Tenute  alle  ostì  da'  Cruci  per  riscaiure  Crùeide  soa  fi 
glia  t fa  viOanameote  discacciato  da  Agamennone.  Nel  ritemare  a Crùa^  ^li  supplica  Apodo 
di  Tendicarlo  del  rìceruto  oltraggio.  11  Dio  manda  la  peste  nd  campo  dei  Gtitì.  Achille 
chiama  i dud  a parlaanente  ; e Calcante  indovino»  raasicnrate  da  Ini,  palesa  la  cagione  dell’ira 
del  Nome,  coi  dice  non  potersi  placare,  che  col  restituire  Crisetde.  Risentimento  d' Aga- 
mennone, a cni  fa  acerbamente  risposte  da  Achille.  Agameooone  rnonta  nelle  farie,  e minar - 
ria  di  rapite  ad  Achille  Briseide  in  compenso  della  schiara  , eh*  egli  acccmcnte  di  rendere  al 
padre.  Achille  adirate  protesta , che  più  non  combatterfa  pei  Greci.  Il  parlamento  fa  disciolte. 
Briseide  fa  consegnata  agli  araldi  d'AganieiiooQe.  Lamenti  d’Achille.  Tctide  sua  madre  lo 
consola.  Crùeide  fa  resUtnita  al  padre,  e la  peste  eesta  dal  lare  strage  de*  Greci.  Tetide, 
■alila  al  cielo , prega  Gsora  di  coooedera  Tittoria  ai  Trojani  finché  i Greci  non  abbiano  rio- 
taralo  1’  onore  del  suo  figlio.  Giore  accooieote  col  cenno  del  capo.  Gionone  Tiene  per  que- 
ste a contesa  con  lui;  ma  Vulcano  eoo  accorte  parole  compone  l' ire  de’ coniugi  ; e TÒtando 
da  bere  io  giro  agli  Dei,  ne  cnscsta  U riso.  Al  fine  deUa  gio|;Data  tutti  gli  Dei  ritirann  ne* 
loro  palagi  a prender  riposo. 

Cantaoii,  o Diva,  del  Pclide  Achille 
L' ira  funesta , che  infiniti  addasse 
Lutti  agli  Achei,  molte  anzi  tempo  all’Orco 
Generose  travolse  alme  d’eroi, 

E di  cani  e d’augelli  orrido  pasto 
Lor  salme  abbandonò  (co.sì  di  Giove 
L’alto  consiglio  s’adempia),  da  quando 
Primamente  disgiunse  aspra  contesa 
Il  re  de’  prodi , Atride , e il  divo  Achille. 

E qual  de’  numi  inimicolli  ? Il  figlio 
Di  Latona  e di  Giove.  Irato  al  Sire 
Destò  quel  Dio  nel  campo  un  feral  morbo, 

E la  gente  pena:  colpa  d’ Atride, 

Che  fece  a Crise  sacerdote  oltraggio. 

Degli  Achivi  era  Crise  alle  veloci 
Prore  venuto  a riscattar  la  figlia 
Con  molto  prezzo.  In  man  le  bende  avea, 

E l’aureo  scettro  dell’ arciere  Apollo; 

E agli  Achei  tutti  supplicando,  e in  prima 
Ai  due  supremi  condottieri  Atridi: 


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ILIADE 


ai-6(j 


O Àtridi , ei  disse , o coturnati  Achei , 

Gl'  inunortali  del  ciclo  abitatori 
Goncedanvi  espugnar  la  Priameja 
Cittade,  e salvi  al  patrio  suol  tornarvi. 

Deh!  mi  sciogliete  la  diletta  figlia j 
Ricevetene  il  prezzo  , c il  saettante 
Figlio  di  Giove  rispettate.  — Al  prego 
Tutti  acclamar  : doversi  il  sacerdote 
Riverire,  e accettar  le  ricche  offerte. 

Ma  la  proposta  al  cor  d' Agamennone 
Non  talentando,  in  guise  aspre  il  superbo 
Accommiatollo , e minaccioso  aggiunse: 

Vecchio,  non  far,  che  presso  a queste  navi 
Ned  or,  nè  poscia  più  ti  colga  io  mai; 

Chè  forse  nulla  ti  varrà  lo  scettro. 

Nè  l’infula  del  Dio.  Franca  non  fia 
Costei , se  lungi  dalla  patria , in  Argo , 

Nella  nostra  magion  pria  non  la  sfiori 
Vecchiezza,  all’opra  delle  spole  intenta, 

E a parte  assunta  del  rcgal  mio  letto. 

Or  va,  nè  m’irritar,  se  salvo  ir  brami. 

Impaurissi  il  vecchio,  ed  al  comando 
Obbedì.  Taciturno  incamminossi 
Del  risonante  mar  lungo  la  riva; 

E in  disparte  venuto , al  santo  Apollo , 

Di  Latona  figliuol , fc  questo  prego  : 

Dio  dall’  arco  d’  argento , o tu  che  Crisa 
Proteggi  e l’alma  Cilla,  c sei  di  Ténedo 
Possente  imperador,  Smintéo,  deh!  m’odi  : 

Se  di  serti  devoti  unqua  il  leggiadro 
Tuo  delubro  adomai,  se  di  giovenchi 
E di  caprette  io  t’arsi  i fianchi  opimi, 

Questo  voto  m’ adempì  : il  pianto  mio 
Paghino  i Greci  per  le  tue  saette. 

Si  disse,  orando.  L’udi  Febo,  e scese 
Dalle  cime  d’Olimpo  in  gran  disdegno 
Coll’  arco  su  le  spalle , e la  faretra 
Tutta  chiusa.  Mettcan  le  frecce  orrendo 
Su  gli  òmeri  all’ irato  un  tintinnio 
Al  mutar  de’  gran  passi;  ed  ci,  simile 


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t\  6i*ioo 


LIBRO  I 


3 


A fosca  notte , giù  venia.  Piantossi 
Delle  navi  al  cospetto^  indi  uno  strale 
Libero  dalla  corda,  ed  un  ronzio 
Terribile  mandò  1’  arco  d’  argento. 

Prima  i giumenti  e i presti  veltri  assalse^ 
Poi  le  schiere  a ferir  prese , vibrando 
Le  mortifere  punte  : onde  per  tutto 
Degli  esanimi  corpi  ardean  le  pire. 

Nove  giorni  volàr  pel  campo  acheo 
Le  divine  quadrella.  A parlamento 
Nel  decimo  chiamò  le  turbe  Achille  ; 

Chè  gli  pose  nel  cor  questo  consiglio 
Giuno,  la  diva  dalle  bianche  braccia, 

De’  moribondi  Achei  fatta  pietosa. 

Come  fiir  giunti  e in  un  raccolti,  in  mezzo 
Levossi  Achille  piè-veloce , e disse: 

Atride , or  sì , cred’  io , volta  daremo 
Nuovamente  errabondi  al  patrio  lido, 

Se  pur  morte  fuggir  ne  fia  concesso^ 

Chè  guerra  e peste  ad  un  medesmo  tempo 
Ne  struggono.  Ma  via;  qualche  indovino 
Interroghiamo  , o sacerdote,  o pure 
Interprete  di  sogni  (chè  da  Giove 
Anche  il  sogno  procede  ) , onde  ne  dica 
Perchè  tanta  con  noi  d’ Apollo  è l’ira: 

Se  di  preci  o di  vittime  neglette 

Il  Dio  n’incolpa;  e se,  d’agnelli  e scelte 

Capre  accettando  1’  odoroso  fumo, 

Il  crudel  morbo  allontanar  gli  piaccia. 

Cosi  detto,  s’ assise.  In  piedi  allora 
Di  Testore  il  fìgliuol , Calcante , alzossi , 
De’  veggenti  il  più  saggio,  a cui  ie  cose 
Eran  conte,  che  ftir,  sono  e saranno; 

E per  quella , che  dono  era  d’ Apollo  , 
Profetica  virtù,  de’  Greci  a Troja 
Avea  scorte  le  navi.  Ei  dunque  in  mezzo 
Pien  di  senno  parlò  queste  parole: 

Amor  di  Giove,  generoso  Achille, 

Vuoi  tu , che  dell’  arder  sovrano  Apollo 
Ti  riveli  lo  sdegno?  Io  t’obbedisco. 


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>4 


ILIADR 


101-140 


Ma  (lui  braccio  l'aita  e della  voce 
À me  tu  pria,  signor,  prometti  e giura 4 
Perchè  tal , che  qui  grande  ha  su  gli  Argivi 
Tutti  possanza,  e a cui  l'Àcheo  s’inchina, 
N’andrà,  per  mio  pensar,  molto  sdegnoso. 
Quando  il  potente  col  minor  s’adira. 
Reprime  ei , si , del  suo  rancor  la  vampa 
Per  alcun  tempo , ma  nel  cor  la  cova , 
Finché  prorompa  alla  vendetta.  Or  dinne , 
Se  salvo  mi  farai.  — Parla  securo , 

Rispose  Achille,  e del  tuo  cor  l’arcano, 
Qual  ch’ei  si  sia,  di’  franco.  Per  Apollo, 
Che  pregato  da  te  ti  sipiarcia  il  velo 
De’  fati , e aperto  tu  li  mostri  a noi , 

Per  questo  Apollo,  a Giove  caro,  io  giuro: 
Nessun,  finch’ io  m’avrò  spirto  e pupilla. 
Con  empia  mano  innanzi  a queste  navi 
Oserà  violar  la  tua  persona. 

Nessuno  degli  Achei 4 no,  s’anco  parli 
D’Agamcnnòn , che  sé  medesmo  or  vanta 
Dell’  esercito  tutto  il  più  possente. 

Allor  fe  core  il  buon  profeta,  e disse: 

Nè  d’obbhati  sacriCci  il  Dio, 

Nè  di  voti  si  duol,  ma  dell’oltraggio. 

Che  al  sacerdote  fe  poc’anzi  Atride, 

Che  fimicargli  la  figlia,  ed  accettarne 
11  riscatto  negò.  La  colpa  è (piesta. 

Onde  cotante  ne  dié  strette , ed  altre 
L’  arcier  divino  ne  darà4  nè  pria 
Ritrarrà  dal  castigo  la  man  grave. 

Che  si  rimandi  la  fatai  donzella 

Non  redenta  nè  compra  al  padre  amato, 

E si  spedisca  un’ecatombe  a Crisa. 

Così  forse  avverrà,  che  il  Dio  si  plachi. 

Tac(pie,  e $’ assise.  Allor  l’ Atride  eroe  , 

U re  supremo  Agamenn(5n,  levossi 
Corniccioso.  Ofiiiscavagli  la  grande 
Ira  il  cor  gonfio,  c come  bragia  rossi 
Fiammeggiavano  gli  occhi.  E tale  ei  prima 
Squadrò  torvo  Calcante 4 indi  proruppe: 


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LIBRO  I 


I 5 

Profeta  di  sciagure,  unqua  un  acrentn 
Non  uscì  di  tua  bocca  a me  gradito. 

Ai  maligno  tuo  cor  sempre  fu  dolce 
Predir  disastri , e d’ onor  vote  e nude 
Son  l’opre  tue  del  par  che  le  parole. 

E fra  gli  Argivi  profetando  or  cianci , 

Che  delle  frecce  sue  Febo  gl’  impiaga. 

Sol  perch’io  ricusai  della  fanciulla 
Criseidc  il  riscatto.  Ed  io  bramava 
Certo  tenerla  in  signoria,  tal  sendu. 

Che  a Clitennestra  pur,  da  me  condutta 
Vergine  sposa  , io  la  prepongo , a cui 
Di  persona  costei  punto  non  cede. 

Nè  di  care  sembianze  , né  d’ ingegno 
Ne’  bei  lavori  di  Minerva  istrutto. 

Ma  libera  sia  pnr,  se  questo  è il  meglio; 

Chè  la  salvezza  io  cerco,  e non  la  morte 
Del  popol  mio.  Ma  voi  mi  preparate 
Tosto  il  compenso;  chè  de’  Greci  io  solo 
Restarmi  senza  guiderdon  non  deggio; 

Ed  ingiusto  ciò  fora,  or  che  una  tanta 
Preda,  il  vedete,  dalle  man  mi  fugge. 

O d’  avarizia,  al  par  che  di  grandezza, 

Famoso  Atride,  gli  rispose  Achille, 

Qual  premio  ti  daranno , e per  che  modo 
1 magnanimi  Achei?  Che  molta  in  serbo 
Vi  sia  ricchezza  non  partita,  ignoro: 

Delle  vinte  città  tutte  divise 

Ne  fur  le  spoglie,  nè  diritto  or  toma 

A nuove  parti  congregarle  in  una. 

Ma  tu  la  prigioniera  al  Dio  rimanda; 

Chè  più  larga  n’avrai  tre  volte  e quattro 
Ricompensa  da  noi,  se  Giove  un  giorno 
L’  eccelsa  Troja  saccheggiar  ne  dia. 

E a lui  l’ Atride:  Non  tentar,  quantunque 
Nc’  detti  accorto,  d’ ingannarmi:  in  questo 
Nè  gabbo  tu  mi  fai , divino  Achille , 

Nè  persuaso  al  tuo  voler  mi  rechi. 

Dunque  terrai  tu  la  tua  preda , ed  io 
Della  mia  privo  rimarrommi  l E imponi 


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6 


TLUDE 


*•.  i8i*aao 


Che  costei  sia  renduta?  Il  sia.  Ma  giusti 
Conccdanmi  gli  Àchivi  altra  captiva, 

Clic  questa  adegui,  e al  mio  desir  risponda. 
Se  non  daranla , rapiroUa  io  stesso  , 

Sia  d’Ajacc  la  schiava,  o sia  d'Ulisse, 

O ben  anco  la  tua:  e quegli  indarno 
Fremerà  d'ira,  alle  cui  tende  io  vegna. 

Ma  di  ciò  poscia  parlerem.  D'  esperti 
Rematori  fornita  or  si  sospinga 
Nel  pelago  una  nave  , e vi  s'  imbarchi 
Coll'  ecatombe  la  rosata  guancia 
Della  figlia  di  Crise^  e ne  sia  duce 
Alcun  de' primi,  o Ajace , o Idomenéo, 

O il  divo  Ulisse , 0 tu  medesmo  pure. 
Tremendissimo  Achille^  onde  di  tanto 
Sacrificante  il  grato  ministero 
Il  Dio  ne  plachi,  che  da  lunge  impiaga. 

Lo  guatò  bieco  Achille,  e gli  rispose: 
Anima  invereconda , anima  avara  , 

Chi  fia  tra  i figli  degli  Achei  sì  vile. 

Che  obbedisca  al  tuo  cenno  , o trar  la  spada 
In  agguati  convegna,  o in  ria  battaglia? 

Per  odio  de'  Trojani  io  qua  non  venni 
A portar  l'armi,  io,  no;  chè  meco  ci  sono 
D'ogni  colpa  innocenti.  Essi  nè  mandrc , 

Nè  destrier  mi  rapirò  ; essi  le  biade 
Della  feconda  popolosa  Ftia 
Non  saccheggiar;  chè  molti  gioghi  ombrosi 
Ne  son  frapposti  e il  pelago  sonoro. 

Ma  sol  per  tuo  profitto , o svergognato , 

E per  l' onor  di  Menelao , pel  tuo , 

Pel  tuo  medesmo,  o brutal  ceflb,  a Troja 
Ti  seguitammo  alla  vendetta.  Ed  oggi 
Tu  ne  disprezzi  ingrato,  e ne  calpesti, 

E a me  medesmo  di  rapir  minacci 
De'  miei  sudori  bellicosi  il  frutto , 

L'unico  premio,  che  l'Acheo  mi  diede. 

Nè  pari  al  tuo  d’ averlo  io  già  mi  spero 
Quel  di,  che  i Greci  l'opulenta  Troja 
Conquistcran;  chè  mio  dell'  aspra  guerra 


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aai>26o 


LIBRO 


7 


Certo  i il  carco  maggior^  jiia  quando  in  mezzo 
SI  dividon  le  spoglie,  è tua  la  prima, 

Ed  ultima  la  mia,  di  cui  ri’ è forza 
Tornar  contento  alla  mia  nave,  e stanco 
Di  battaglia  e di  sangue.  Or  dunque  a Ftia , 

A Ftia  si  rieda^  che  d’  assai  fia  meglio 
Al  paterno  terrcn  volger  la  prora. 

Che  vilipeso  adunator  qui  starmi 
Di  ricchezze  e d’onori  a chi  m’offende. 

Fuggi  dunque,  riprese  Agamennónc^ 

Fuggi  pur,  se  t’  aggrada.  Io  non  ti  prego 
Di  rimanerti.  Al  fianco  mio  si  stanno 
Ben  altri  croi,  che  a mia  rcgal  persona 
Gnor  daranno,  e il  giuste  Giove  in  prima. 

Di  quanti  ei  nudre  regnatori  , abborro 
Te  più  ch’altri^  si,  te,  eie  le  contese 
Sempre  agogni  e le  zuffe  : le  battaglie. 

Se  fortissimo  sei,  d’un  E io  fu  dono 
La  tua  fortezza.  Or  va,  sciogli  le  navi^ 

Fa  co’  tuoi  prodi  al  patrio  suol  ritorno^ 

Ai  Mirmidoni  impera  ^ io  non  ti  curo  , 

E l'ire  tue  derido.  Anzi  m’ascolta: 

Poiché  Apollo  Criséide  mi  toglie , 

Parta:  d’un  mio  naviglio,  c da’  mici  fidi 
Io  la  rimando  accompagnata,  c cedo. 

Ma  nel  tuo  padiglione  ad  involarti 
Verrò  la  figlia  di  Briséo,  la  bella 
Tua  prigioniera,  io  stesso;  onde  t’avvegga 
Quant’ io  t’avanzo  di  possanza,  e quindi 
Altri  meco  uguagliarsi  e cozzar  tema. 

Di  furore  infiammar  1’  alma  d’Achille 
Queste  parole.  Due  pcnsier  gli  fòro 
Terribile  tenzon  nell’  irto  petto: 

Se  dal  fianco  tirando  il  ferro  acuto  , 

La  via  s’aprisse  tra  la  calca,  e in  seno 
L’ immergesse  all’Atridc , o se  domasse 
L’ira,  c chetasse  il  tempestoso  core. 

Fra  lo  sdegno  ondeggiando  e la  ragione 
L’agitato  pensicr,  corse  la  mano 
Sovra  la  spada,  c dalla  gran  vagina 
Mosti.  Ilinde.  2 


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ii.iAui: 


atìi-loo 


Traemlo  la  venia:  quando  veloce 
Dal  cicl  Minerva  accorse  , a lui  spedita 
Dalla  diva  Giunon,  che  d’ambo  i duci 
tigual  cura  cd  amor  uudria  nel  petto. 

Gli  venne  a tcrgoii  e per  la  bionda  chionia 
Prese  il  fiero  Pelide,  a tutti  occulta, 

A lui  sol  manifesta.  Stupefatto 
Si  scosse  Achille,  si  rivolse,  e tosto 
Riconobbe  la  Diva , a cui  dagli  occhi 
Usci’an  due  fiamme  di  terribil  luce; 

E la  chiamò  per  nome,  e in  ratti  accenti: 
Figlia,  disse,  di  Giove,  a che  ne  vieni? 

Forse  d'Atride  a veder  P onte?  Aperto 
Io  tei  protesto , e avran  miei  detti  effetto  : 

F,i  col  suo  superbir  cerca  la  morte , 

E la  morte  si  avrà.  — Frena  lo  sdegno, 

La  Dea  rispose  dalle  luci  azzuiTe: 

Io  qui  dal  cicl  discesi  ad  acchetarti , 

Se  obbedirmi  vorrai.  Giuno  spedimmi, 

Giuno,  ch’entrambi  vi  difende  cd  ama. 

Or  via,  ti  calma,  nè  trar  brando,  c solo 
Di  parole  contendi.  Io  tei  predico, 

E andrà  pieno  il  mio  detto:  verrà  tempo. 
Che  tre  volte  maggior,  per  doni  eletti , 

Avrai  riparo  dell’  ingiusta  offesa. 

Tu  reprimi  la  furia,  cd  obbedisci. 

E Achille  a lei;  Seguir  m’è  forza,  o Diva, 
Benché  d’ira  il  cor  arda,  il  tuo  consiglio. 
Questo  fia  lo  miglior.  Ai  numi  è caro 
Chi  de’  numi  al  voler  piega  la  fronte. 

Disse^  e rattenne  su  l’argenteo  pomo 
La  poderosa  mano,  e il  grande  acciaro 
Nel  fodero  re.spinse,  alle  parole 
Docile  di  .Minerva.  Ed  ella  intanto 
All’  auree  sedi  dell’  Egioco  padri; 

Sul  cielo  risalì  fra  gli  altri  Eterni. 

Achille  allora , con  acerbi  detti 
Rinfrescando  la  lite,  assalse  Atride: 

Ebbro!  cane  agli  sguardi  e cervo  al  core! 
Tu  non  osi  giammai  nelle  battaglie 


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LIBRO  I 


9 


. 301*340 

Dar  dentro  colla  turba,  o negli  agguati 
Perigliarti  co’  primi  infra  gli  Achei  ; 

Che  ogni  rischio  t’è  morte.  Assai  per  certo 
Meglio  ti  torna  di  ciascun  , che  franca 
Nella  grand’  oste  achea  contro  ti  dica , 

Gli  avuti  doni  in  securtà  rapire. 

Ma  se  questa  non  fosse,  a cui  comandi. 
Spregiata  gente  e vii,  tu  non  saresti 
Del  popol  tuo  divorator  tiranno, 

E l’ultimo  de’  torti  avresti  or  fatto. 

Ma  ben  t’ annunzio,  ed  altamente  il  giuro 
Per  questo  scettro  (che  diviso  un  giorno 
Dal  montano  suo  tronco  unqua  nò  ramo 
Nè  fronda  metterà , nè  mai  virgulto 
Germoglierà,  poiché  gli  tolse  il  ferro 
Con  la  scorza  le  chiome,  ed  ora  in  pugno 
Sei  portano  gli  Achei,  che  posti  sono 
Del  giusto  a guardia  e delle  sante  leggi 
Ricevute  dal  ciel)^  per  questo  io  giuro, 

E inviolato  sacramento  il  tieni  : 

Stagion  verrà , che  negli  Achei  si  svegli 
Desiderio  d’Achille;  e tu  salvarli  , 

Misero!  non  potrai,  quando  la  spada 
Dell’  omicida  Ettór  farà  vermigli 
Di  larga  strage  i campi;  e allor  di  rabbia 
Il  cor  ti  roderai;  chè  si  villana 
Al  più  forte  de’  Greci  onta  facesti. 

Disse;  e gittò  lo  scettro  a terra,  adorno 
D’  aurei  cbiovi,  c s’ assise.  Ardea  l’Atride 
Di  novello  furor;  quando  nel  mezzo 
Sorse  de’  Pilj  l’ orator , Nestorrc  , 

Facondo  si,  che  di  sua  bocca  usciéiio 
Più  che  mel  dolci  d’eloquenza  i rivi. 

Di  parlanti  con  lui  nati  c cresciuti 
Nell’  alma  Pilo  ei  già  trascorse  avea 
Due  vite,  e nella  terza  allor  regnava. 

Con  prudenti  parole  il  santo  veglio 
Cosi  loro  a dir  prese  : Eterni  Dei  ! 

Quanto  lutto  alla  Grecia,  e quanta  a Priamo 
Gioja  s’appresta  ed  a’ suoi  figli  e a tutta 


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ILIAOK 


34i-38« 


2U 

La  dardania  città , quando  fra  loro 
Di  voi  s'  intenda  la  fatai  contesa , 

Di  voi,  che  tutti  di  valor  vincete 
E di  senno  gli  Achei!  Deh!  m'ascoltate  : 

Che  minor  d’anni  di  me  siete  entrambi^ 

Ed  io  pur  con  eroi  son  visso  un  tempo 
Di  voi  più  prodi , c non  fui  loro  a vile  : 

Ned  altri  tali  io  vidi  unqua,  nè  spero 
Di  riveder  più  mai , quale  un  Dri'ante, 
Moderator  di  genti,  e Piritóo, 

Ccneo  ed  Essadio  c Polifcmo , uom  divo  , 

E 1’  Egide  Teseo , pari  ad  un  nume. 

Alme  più  forti  non  nudi'ia  la  terra  ^ 

E forti  essendo  , coinbattcan  co’  forti , 

Co’ montani  Centauri,  e strage  orrenda 
Ne  fean.  Con  questi , a lor  preghiera , io  spesso , 
Partendomi  da  Pilo  e dal  lontano 
Ap  io  confine , a conversar  venia  ; 

E,  secondo  mie  forze,  anch’io  pugnava. 

Ma  di  quanti  mortali  or  crea  la  terra, 

Niun  potria  pareggiarli.  E nondimeno 
Da  quei  prestanti  orecchio  il  mio  consiglio 
Ed  il  mio  detto  obbedienza  ottenne. 

E voi  pur  anco  m’  obbedite  adunque^ 

Chè  l’obbedirmi  or  giova.  Inclito  Atride, 

Deh!  non  voler,  sebben  si  gi'ande,  a questi 
Tor  la  fanciulla^  ma  eh’ ci  s’abbia  in  pace 
Da’  Greci  il  dato  guiderdon  consenti. 

Nè  tu  cozzar  con  inimico  petto 

Contra  il  rege , o Pelide.  Un  re  supremo , 

Cui  d’  alta  maestà  Giove  circonda , 

Uguaglianza  d’  onore  iniqua  non  solfre. 

Se  generato  d’una  diva  madre 

Tu  lui  vinci  di  forza  , ei  vince  , o figlio , 

Te  di  poter,  perchè  a più  genti  impera. 

Deh!  pon  giù  l’ira,  .Atride,  e placherassi 
Pure  Achille  al  mio  prego,  ei,  che  de’ Greci 
In  sì  ria  guerra  è principal  sostegno. 

Tu  rcttissimo  parli,  o saggio  antico. 

Pronto  riprese  il  regnatore  Atride; 


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LIBRO  I 


J8i*4ao 


Ma  costui  tutti  soverchiar  presume, 

Tutti  a schiavi  tener,  dar  legge  a tutti, 

Tutti  gravar  del  suo  comando.  Ed  io 
Potrei  patirlo?  Io,  no.  Se  il  fi^ro  i numi 
Un  invitto  gucrrier,  forse  pur  anco 
Di  tanto  insolentir  gli  dicco  il  dritto? 

Tagliò  quel  dire  Achille,  e gli  rispose: 

Un  pauroso , un  vii  certo  sarei , 

Se  d’  ogni  cenno  tuo  ligio  foss’  io. 

Altrui  comanda,  a me  non  già^  ch’io  teco 
Sciolto  di  tutta  obbedienza  or  sono. 

Questo  solo  vo’  dirti , c tu  nel  mezzo 
Lo  rinserra  del  cor:  per  la  fanciulla 
Un  dì  donata,  ingiustamente  or  tolta. 

Nò  con  te,  nè  con  altri  il  brando  mio 
Combatterà.  Ma  di  quant’ altre  spoglie 
Nella  nave  mi  serbo,  nè  pur  una, 

S’io  la  niego,  t’avrai.  Vien,  se  noi  credi, 
Vieni  alla  prova  •,  e il  sangue  tuo , scorrente 
Dalla  mia  lancia,  farà  saggio  altrui. 

Con  questa  di  parole  aspra  tenzone 
Levarsi^  e sciolto  fu  1’  acheo  consesso. 

Con  Patroclo  il  Pclidc,  c co’ suol  prodi 
Riede  a sue  navi  nelle  tende  ^ e Àtride 
Varar  fa  tosto  a venti  remi  eletti 
Una  celere  prora  colla  sacra 
Ecatombe.  Di  Crisc  egli  medesmo 
Vi  guida  e posa  l’ avvenente  figlia  ^ 

Duee  v’ascende  il  saggio  Ulisse,  e tutti 
Già  montati  corrcan  l’ umide  vie. 

Ciò  fatto,  indisse  al  campo  Agamennone 
Una  sacra  lavanda  : e ognun  devoto 
Purificarsi,  c via  gittar  nell’ onde 
Le  sozzure,  e del  mar  lungo  la  riva 
Ofirir  di  capri  e di  torelli  intere 
Ecatombi  ad  Apollo.  Al  ciel  salia 
Volubile  col  fumo  il  pingue  odore. 

Seguian  nel  campo  questi  riti.  E fermo 
Nel  suo  dispetto  e nella  dianzi  fatta 
Ria  minaccia  ad  Achille,  intanto  Atridc, 


a I 


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ILIADE 


t'. 


Euribate  e Taltibio  a sè  chiamando  , 

Fidi  araldi  e sergenti:  Ite,  lor  disse, 

Del  Pelidc  alla  tenda,  c m’adducete 
La  bella  figlia  di  Briséo.  Se  il  nicga, 
lo  ne  verrò  con  molta  mano,  io  stesso 
A gliela  tórre:  c ciò  gli  fia  più  duro. 

Disse ^ e,  il  cenno  aggravando,  in  via  li  pose. 
Del  mar  lunghesso  l’ infecondo  lido 
Givan  quelli  a mal  cuore;  e pervenuti 
De’ Mirmidòni  alla  campai  marina, 

Trovar  l’ eroe  seduto  appo  le  navi 
Davanti  al  padiglion  : nè  del  vederli 
Certo  Achille  fu  lieto.  Ambo  al  cospetto 
Regai  fermarsi  trepidanti  e chini. 

Nè  far  motto  fur  osi  nè  dimando; 

Ma  tutto  ei  vide  in  .suo  pensiero,  c disse: 

Messaggieri  di  Giove  c delle  genti  , 

Salvete,  araldi,  e v’ appressate.  In  voi 
Ninna  è colpa  con  meco.  Il  solo  Atride, 

Ei  solo  è reo,  che  voi  per  la  fanciulla 
Brisèide  qui  manda.  Or  va,  fuor  mena. 
Generoso  Patroclo,  la  donzella, 

E in  man  di  questi  guidator  l’affida. 

Ma  voi  medesmi  innanzi  ai  santi  numi. 

Ed  innanzi  ai  mortali  e al  re  crudele 
Siatemi  testimon,  quando  il  dì  splenda, 

Che  a scampar  gli  altri  di  rovina  il  mio 
Braccio  abbisogni;  perocché  delira 
In  suo  danno  costui,  ned  il  présente 
Vede,  nè  il  poi,  nè  il  come  a sua  difesa 
Salvi  alle  navi  pugneran  gli  Achei. 

Disse;  e Patroclo  del  diletto  amico 
Al  comando  obbedì.  Fuor  della  teiida 
Brisèide  menò,  guancia  gentile. 

Ed  agli  araldi  condotticr  la  cesse. 

Mentre  ci  fanno  alle  navi  aehee  ritorno, 

E ritrosa  con  lor  pai-tia  la  donna, 

Proruppe  Achille  in  un  subito  pianto; 

E da’ suoi  scompagnato,  in  su  la  riva 

Del  grigio  mar  s’  assise,  c il  mar  guardando , 


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LIBRO 


Le  man  stese,  c dolente  alla  diletta 
Madre  pregando:  Oh  madre!  è questo,  disse, 
Questo  è l’onor,  che  darmi  il  gran  Tonante 
A conforto  dovea  del  viver  hreve, 

A cui  mi  partoristi?  Ecco,  ei  mi  lascia 
Spregiato  in  tutto  : il  re  superbo  Atride 
Agamennòn  mi  disonora^  il  meglio 
De’ miei  preinj  rapisce,  e sei  possiede. 

Si,  piangendo,  dieea.  La  veneranda 
Genitrice  l’udi,  che  ne’ profondi 
Gorghi  del  mare  si  sedea  dappresso 
Al  vecchio  padre^  udillo,  e tosto  emerse. 

Come  nebbia,  dall’onda:  accanto  al  figlio, 

Che  lagi'ime  spargea,  dolce  s’ assise, 

E colla  mano  accarczzollo , e disse  : 

Figlio,  a che  piangi?  e qual  t’ opprime  aflanno? 
Di’,  non  celarlo  in  cor:  meco  il  dividi. 

Madre,  tu  il  sai,  rispose,  alto  gemendo, 

11  piè-veloce  eroe.  Ridir  che  giova 
Tutto  il  già  conto?  Nella  sacra  sede 
D’Eézi'on  ne  gimmo  ^ la  cittade 
Ponemmo  a sacco,  e tutta  a questo  campo 
Fu  condotta  la  preda.  In  giuste  parti 
La  diviscr  gli  Achivi,  c la  leggiadra 
Criscide  fu  scelta  al  primo  Atride. 

Crise,  d’ Apollo  sacerdote,  allora 
Con  r infoia  del  nume  e 1’  aureo  scettro 
Venne  alle  navi  a riscattar  la  Gglia. 

Molti  doni  offerì , molte  agli  Achivi 
Porse  preghiere,  ed  agli  Atridi  in  prima. 

Invan^  chè  preghi  e doni  c sacerdote 
E degli  Achei  l’assenso  ebbe  in  dispregio 
Agamennòn,  che  minaccioso  e duro 
Quel  misero  cacciò  dal  suo  cospetto. 

Parti  sdegnato  il  veglio;  e Apollo,  a cui 
Diletto  capo  egli  era , il  suo  lamento 
Esaudì  dall’Olimpo,  e contea  i Greci 
Pestiferi  vibrò  dai'di  mortali. 

Pena  la  gente  a torme,  e d’ogni  parte 
Sibilanti  del  Dio  pel  rampo  tutto 


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ILIADE 


V.  5oi*5^o 


Volavano  gli  strali.  Alfine  un  saggio 
Indovin  ne  fe  chiaro  in  assemblea 
L’oracolo  d’ Apollo.  Io  tosto  il  primo 
Esortai  di  placar  l’ire  divine. 

Sdegnossene  l’Atride^  e,  in  piè  levato, 

Una  minaccia  mi  fe  tal,  che  pieno 
Compimento  sorti.  Gli  Achivi  a Crisa 
Sovr’agil  nave  già  la  schiava  adducono 
Non  senza  doni  a Febo;  e dalla  tenda 
A me  pur  dianzi  tolsero  gli  araldi, 

E menàr  seco  di  "Briséo  la  figlia, 

La  fanciulla  da’  Greci  a me  donata. 

Ma  tu,  che  il  puoi,  tu  al  figlio  tuo  soccorri; 
Vanne  all’Olimpo,  e porgi  preghi  a Giove. 
S’  un(jua  Giove  per  te  fu  nel  bisogno 
O d’opera  aitato  o di  parole. 

Nel  patrio  tetto,  io  ben  lo  mi  ricordo. 
Spesso  t’intesi  gloriarti,  e dire. 

Che  sola  fra  gli  Dei  da  ria  sciagura 
Giove  campasti  adunator  di  nembi 
11  giorno  che  tentar  Giuno  e Ncttunno 
E Palladc  Minerva,  in  un  con  gli  altri 
Congiurati  del  ciel , porlo  in  catene  ; 

Ma  tu  nell’uopo  sopraggiunta,  o Dea, 
L’involasti  al  periglio,  all’alto  Olimpo 
Prestamente  chiamando  il  gran  Ccntimano, 
Che  dagli  Dei  nomato  è Briaréo, 

Da’ mortali  Egedne,  e di  fortezza 
Lo  stesso  genitor  vincca  d’assai. 

Fiero  di  tanto  onore,  alto  ei  .s’ assise 
Di  Giove  al  fianco,  c n’cbbcr  tema  i numi. 
Che  poscr  di  legarlo  ogni  pensiero. 

Or  tu  questo  rammentagli,  e al  suo  lato 
Siedi,  c gli  abbraccia  le  ginocchia,  e il  prega 
Di  dar  soccorso  ai  Teucri,  c far,  che  tutte 
Fino  alle  navi  le  falangi  achee 
Sien  spinte  c rotte  e trucidate.  Ognuno 
Lo  si  goda  così  questo  tiranno; 

Senta  egli  stesso  il  gran  regnante  Atridc 
Qual  commise  follia,  quando  superbo 


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i-58o 


LIBRO  I 


2!) 


Fc  de’ Greci  al  più  forte  un  tanto  oltragj^io. 

E,  lagrimando,  a lui  Teti  rispose: 

Ah  figlio  mio!  se  con  sì  reo  destino 
Ti  pai'torìi,  perchè  allevarti,  ahi  lassa? 

Oh  potessi  OZIOSO  a questa  riva 
Senza  pianto  restarti  e senza  offese, 
Ingannando  la  Parca,  che  t’incalza, 

Ed  ornai  t’ha  raggiunto!  Ora  i tuoi  giorni 
Brevi  sono  ad  un  tempo  ed  infelici; 

Chè  iniqua  stella  il  dì,  ch’io  ti  produssi, 

I talami  paterni  illuminava. 

E nondimcn  d’Olimpo  alle  nevose 
Vette  n’andrò;  ragionerò  con  Giove, 

Del  fulmine  signore,  e al  tuo  desire 
Piegarlo  tenterò.  Tu  statti  intanto 
Alle  navi;  e nell’ozio  del  tuo  brando 
Senta  l’Achivo  de’ tuoi  sdegni  il  peso; 
Perocché  jeri  in  grembo  all’Oceano 
Fra  gl’innocenti  Etiopi  discese 
Giove  a convito,  e il  seguir  tutti  i numi. 
Dopo  la  luec  dodicesma  al  eielo 
Tornerà.  Rccherommi  allor  di  Giove 
Agli  eterni  palagi;  al  suo  ginocchio 
Mi  gitterò , supplicherò  : nè  vana 
D’ espugnarne  il  voler  speranza  io  porto. 

Partì,  ciò  detto;  e lui  quivi  di  bile 
Macerato  lasciò  per  la  fanciulla. 

Suo  mal  grado  rapita.  Intanto  a Crisa 
Colla  sacra  ecatombe  Ulisse  approda. 

Nel  seno  entrati  del  profondo  porto. 

Le  vele  ammainar,  le  collocaro 
Dentro  il  bruno  naviglio,  e prestamente 
Dechinàr  colle  gomone  l’antenna, 

E l’ adagiar  nella  corsia.  Co’ remi 

II  naviglio  accostar  quindi  alla  riva; 

E l’ àncore  gittate,  e della  poppa 
Annodati  i ritegni,  ecco  sul  lido 
Tutta  smontar  la  gente;  ecco  schierarsi 
L’ecatombe  d’ Apollo,  e dalla  nave, 

Dell’  onde  vìatricc , ultima  uscire 


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,jg  ILIADE  W 

Criseidc.  All’ aitar  l’ accompagnava 
L’ accorto  Ulisse , ed  alla  man  del  caro 
Genitor  la  ponca  con  questi  accenti  : 

Crise,  il  re  sommo  Agaraennón  mi  manda 
A ti  render  la  figlia,  c offrir  solenne 
Un’ecatombe  a Febo,  onde  gli  sdegni 
Placar  del  nume,  che  gli  Achei  percosse 
D’acerbissima  piaga.  — In  questo  dire 
L’amata  figlia  in  man  gli  cesse;  e il  vccehio 
La  si  raceolse,  giubilando  , al  petto. 

Tosto  d’ intorno  al  ben  costrutto  altare 
In  ordinanza  statuir  la  bella 
Ecatombe  del  Dio  ; lavar  le  palme , 

Presero  il  sacro  fan-o;  e Crise,  alzando 
Colla  voce  la  man,  fe  questo  prego: 

Dio , che  godi  trattar  1’  arco  d’ argento , 
Tu,  che  Crisa  proteggi  e la  divina 
Cilla,  signor  di  Ténedo  possente. 

M’odi:  se  dianzi  a mia  preghiera  il  campo 
Acheo  gravasti  di  gran  danno,  c onore 
Mi  désti,  or  fammi  di  quest’ altro  voto 
Contento  appieno  : la  terribil  lue. 

Che  i Danai  strugge,  allontanar  ti  piaccia. 

SI  disse,  orando;  ed  csaudillo  il  nume. 
Quindi  fin  posto  alle  preghiere,  e sparso 
Il  salso  farro,  alzar  fér  suso  in  prima 
Alle  vittime  il  collo,  e le  sgozzavo. 

Tratto  il  cuojo,  fasciar  le  incise  cosce 
Di  doppio  omento,  c le  coprir  di  crudi 
Brani.  Il  buon  vecchio  su  l’accese  schegge 
Le  abbrustolava,  e di  purpureo  vino 
Spruzzando  le  venia.  Scelti  garzoni 
Al  suo  fianco  tcncan  gli  spiedi  in  pugno 
Di  cinque  punte  armati:  e come  furo 
Rosolate  le  coste,  e fatto  il  saggio 
Delle  viscere  sacre,  il  resto  in  pezzi 
Negli  schidoni  infissero  ; con  molto 
Avvedimento  l’ arrostivo , c poscia  ^ 

Tolscr  tutto  alle  fiamme.  Al  fin  dell  opra 
Poste  le  mense,  a banchettar  si  diero. 


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LiBBO  I 


1-j 

E del  cibo  egualmente  ripartito 
Sbramàrsi  tutti.  Del  cibarsi  estinto 
E del  bere  il  desio,  d’almo  h'eo 
Coronando  il  cratere,  a tutti  in  giro 
Ne  porsero  i donr.elH,  c fe  ciascuno 
Libagion  colle  tazze.  E così,  tutto 
Cantando  il  di,  la  gioventude  argiva, 

E un  allegro  peana  alto  intonando. 

Laudi  a Febo  dicean,  che  ncll’udirli- 
Sentiasi  tocco  di  dolcezza  il  core. 

Fugato  il  sole  dalla  notte,  ci  diersi 
Presso  i poppesi  della  nave  al  sonno. 

Poi  come  il  cielo  colle  rosee  dita 
La  bella  6glia  del  mattino  aperse. 

Conversero  la  prora  al  campo  argivo, 

E mandò  loro  in  poppa  il  vento  Apollo. 

Rizzar  l’antenna,  e delle  bianche  vele 
Il  seno  dispiegar.  L’aura  seconda 
Le  gonhava  per  mezzo,  c strepitoso. 

Nel  passar  della  nave,  il  flutto  azzurro 
Mormorava  d’intorno  alla  carena. 

Giunti  agli  argivi  accampamenti , in  secco 
Trasser  la  nave  su  la  colma  arena. 

E lunghe  vi  spiegar  travi  di  sotto 
Acconciamente.  Per  le  tende  poi 
Si  dispersero  tutti  e pe’navili. 

Appo  i suoi  legni  intanto  il  generoso 
Pelide  Achille  nel  segreto  petto 
Di  sdegno  si  pascea;  nè  al  parlamento, 

Scuola  illustre  d’eroi,  nè  alle  battaglie 
Più  comparia  ^ ma  il  cor  struggea  di  doglia 
Lungi  dall’ armi,  e sol  dell’ armi  il  snono. 

E delle  pugne  il  grido  egli  sospira. 

Rifulse  alfin  la  dodicesma  aurora  ^ 

E tutti  di  conserva  al  ciel  gli  Eterni 
Fean  ritorno,  cd  avanti  iva  il  re  Giove. 

Memore  allor  del  figlio  e del  suo  prego, 

Teti  emerse  dal  mare,  e mattutina 
In  cielo  al  sommo  dell’Olimpo  alzossi. 

Sul  più  sublime  de’ suoi  molti  giughi 


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ILIADE 


In  disparte  trovò  sedato  e solo 
L’onniveggente  Giove.  Innanzi  a lui 
La  Dea  g’ assise;  colla  manca  strinse 
Le  divine  ginocchia;  c,  colla  destra 
Molccndo  il  mento,  c supplicando,  disse; 

Giove  padre,  se  d’opre  e di  parole 
Giovevole  fra’ numi  unqua  ti  fui, 

Un  mio  voto  adempisci.  Il  figlio  mio, 

Cui  volge  il  fato  la  più  corta  vita. 

Deh  ! m’  onora  il  mio  figlio  a torto  ofleso 
Dal  re  supremo  Agamennón,  che  a forza 
Gli  rapì  la  sua  donna , c la  si  tiene. 
Onoralo,  ti  prego,  olimpio  Giove, 
Sapientissimo  Iddio;  fa,  che  vittrici 
Sien  le  spade  trojane,  infin  che  tutto, 

R doppio  ancora  dagli  Achei  pentiti 
Al  mio  figlio  si  renda  il  tolto  onore. 

Disse  ; c nessuna  le  facea  risposta 
Il  procelloso  Iddio;  ma  lunga  pezza 
Muto  stette,  e sedea.  Teti  il  ginocchio 
Teneagli  stretto  tuttavolta,  c i preghi 
Iterando  venia  ; Deh  ! parla  alfine  ; 

Dimmi  aperto  se  nieghi,  o se  concedi  : 

Nulla  hai  tu  che  temer;  fa,  ch’io  mi  sappia  , 
Se  fra  le  Dee  son  io  la  più  spregiata. 

Profondamente  allora  sospirando, 
L’adunator  de’ nembi  le  rispose; 

Opra  chiedi  odiosa,  che  nemico 
Farammi  a Giuno,  c degli  ontosi  suoi 
Motti  bersaglio.  Ardita  ella  mal  sempre 
Pur  dinanzi  agli  Dei  vien  meco  a lite, 

E de’ Trojani  ajutator  m’accusa. 

Ma  tu  sgombra  di  qua;  chò  non  ti  vegga 
La  sospettosa.  Mio  pcnsier  fia  poscia, 

Che  il  desir  tuo  si  compia:  c a tuo  conforto 
Abbine  il  cenno  del  mio  capo  in  pegno. 
Questo  fra’ numi  è il  massimo  mio  giuro; 

Nè  revocarsi,  nè  fallir,  nè  vana 

Esser  può  cosa,  che  il  mio  capo  accenna. 

Disse;  c il  gran  figlio  di  Saturno  i neri 


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7oi-74'>  libro  ( a() 

Sopraccigli  inchinò.  Su  l’ immortale 
Capo  «lei  Sire  le  divine  chiome 
Oiideggiaro,  e tremonne  il  vasto  Olimpo. 

Così  fermo  l’aiTar,  si  dipartirò. 

Tcti  dai  ciel  spiccò  nel  mare  un  salto  ^ 

Giove  alla  reggia  s’avviò.  Rizzàrsi 
Tutti  ad  un  tempo  da’  lor  troni  i numi 
Verso  il  gran  padre^  nè  veruno  ardissi 
.\spettame  il  venir  fermo  al  suo  seggio, 

Ma  mosser  tutti  ad  incontrarlo.  Ei  grave 
Si  compose  sul  trono.  E già  sapea 
Giano  il  fatto  del  Dio;  eh’  ella  veduto 
In  segreti  consigli  avea  con  esso 
La  figlia  di  ^^créo,  Teti,  la  diva 
Dal  bianco  piede.  Con  parole  acerbe 
Così  dunque  l’assalsei  E qual  de’ numi 
Tenne  or  teco  consulta,  o ingannatore  ? 

Sempre  t’è  caro  da  me  scevro  ordire 
Tenebrosi  disegni , nè  ti  piacque 
Mai  farmi  manifesto  un  tuo  pensiero. 

E degli  uomini  il  padre  e degli  Dei 
Le  rispose:  Giunon,  tutto,  che  penso, 

Non  sperar  di  saperlo.  Ardua  ten  fora 
L’intelligenza,  benché  moglie  a Giove. 

Ben  qualunque  dir  cosa  si  convegna. 

Nullo,  prima  di  te,  mortale  o Dio, 

La  si  saprà.  Ma  quel,  che  lungi  io  voglio 
Dai  Celesti  ordinar  nel  mio  segreto, 

Non  dimandarlo,  nè  scrutarlo^  e cessa. 

Acerbissimo  Giove,  c che  dicesti? 

Riprese  allor  la  maestosa  il  guardo 
Veneranda  Giunon;  gran  tempo  è pure, 

Che  da  te  nulla  cerco,  c nulla  chieggo, 

E tu  tranquillo  adempi  ogni  tuo  senno. 

Or  grave  un  dubbio  mi  molesta  il  core , 

Che  Teti,  del  marin  vecchio  la  figlia, 

Non  ti  seduca^  ch’io  la  vidi , io  stessa, 

Sul  mattino  arrivar , sederli  accanto , 

Abbracciarti  i ginocchi  : c certo  a lei 
Di  molti  Achivi  tu  giurasti  il  danno 


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ILIAUL 


7ì‘-;Ro 


;<() 

Appo  le  navi,  per  onov  d’Achille. 

F.  a rincontro  il  signor  delle  tempeste: 
Sempre  sospètti,  nè  celarmi  io  posso. 

Spirto  maligno,  agli  occhi  tuoi.  Ma  indarno 
La  tua  cura  uscirà;  eh’ anzi  più  sempre 
Tu  mi  costringi  a disamarti;  e questo 
A peggio  ti  verrà.  S’al  ver  t’apponi, 

Che  al  ver  t’apponga  ho  earo.  Or  siedi,  e taci, 
E m’obbedisci;  che  giovai-ti  invano 
Potrian  quanti  in  Olimpo  a tua  difesa 
Accorrcsser  Celesti,  allor  che  poste 
Le  invitte  mani  nelle  chiome  io  t'abbia. 

Disse;  e chinò  la  veneranda  Giulio 
I suoi  grand’ occhi  paurosa  e muta; 

E,  in  cor  premendo  il  suo  livor,  s’ assise. 

Di  Giove  in  tutta  la  magion  le  fronti 
Si  contristar  de’numi;  c in  mezzo  a loro, 
Gratificando  alla  diletta  madre, 

Vulcan,  l’inclito  fabbro,  a dir  sì  prese: 

Una  malvagia  intolleranda  cosa 
Questa  al  certo  sarà,  se  voi  cotanto, 

De’ mortali  a cagiou , piato  movete, 

E suscitate  fra  gli  Dei  tumulto. 

De’  banchetti  la  gioja  ecco  sbandita , 

.Se  la  vince  il  peggior.  Madre,  t’esorto, 

Benché  saggia  per  te:  vinci  di  Giove, 

Vinci  del  padre  coll’ossequio  l’ira; 

Onde  a lite  non  torni , c del  convito 
Ne  contm-bi  il  piacer;  ch’egli  ne  puote, 

Del  fulmine  signore  e dell’Olimpo, 

Dai  nostri  seggi  rovesciar,  se  il  voglia; 
Perocché  sua  possanza  a tutte  é sopra. 

Or  tu  con  care  parolette  il  moiri, 

E tosto  il  placherai.  — Sursc,  ciò  detto. 

Ed  all’amata  genitrice  un  tondo 
Gemino  nappo  fra  le  mani  ci  pose , 
Bisbigliando  all' orecchio:  O madre  mia, 
Benché  mesta  a ragion,  sopporta  in  pace; 

Onde  te  con  quest’occhi  io  qui  non  vegga, 
le,  che  cara  mi  .sei,  forte  battuta: 


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Si-Bi.l 


LIBRO  I 


3 


Ckè  ailur  nessuna  con  dolor  mio  sommo 
Darti  aita  io  potrei.  Duro  egli  è troppo 
Cozzar  con  Giove.  Altra  fiata,  il  sai, 

Volli  in  tuo  scampo  venturarmi;  il  crudo 
AfTcrrommi  d’un  piede,  c mi  scagliò 
Dalle  soglie  celesti.  Un  giorno  intero 
Rovinai  per  l’immenso,  e rifinito 
In  Lenno  caddi  col  cader  del  sole. 

Dalli  Sinzj  raccolto  a me  pietosi. 

Disse  ^ c la  Diva  dalle  bianche  braccia 
Risc^  e,  in  quel  riso,  dalla  man  del  figlio 
Prese  il  nappo.  Ed  ci  poscia  agli  altri  Eterni, 
Incominciando  a destra , c dal  cratere 
Il  nettare  attignendo , a tutti  in  giro 
Lo  mcscea.  Suscitossi  infra’  Beati 
Immenso  riso  nel  veder  Vulcano 
Per  la  sala  aggirarsi  affaccendato 
In  quell’opra.  Cosi,  fino  al  tramonto. 

Tutto  il  di  convitossi,  ed  egualmente 
Del  banchetto  ogni  Dio  partecipava. 

Nè  l’aurata  mancò  lira  d’  Apollo, 

Nè  il  dolce  delle  muse  alterno  canto. 

Ratto,  poi  che  del  Sol  la  luminosa 
Lampa  si  spense,  a’ suoi  riposi  ognuno 
Ne’ palagi  n’andò,  che  fabbricati 
A ciascheduno  avea  con  ammirando 
Artifizio  Vulcan,  l’inclito  zoppo. 

E a’ suoi  talami  anch’esso,  ove  qual  volta 
Soave  l’ assalta  fona  di  sonno, 

Corcar  solea  le  membra,  il  fulminante 
Olimpio  s’avvio.  Quivi  salito, 

Addormcntossi  il  nume^  ed  al  suo  fianco 
Giacipie  l’alma  Giunon  , che  d’  oro  ha  il  trono. 


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FJBRO  SECONDO 


ARGOMENTO 


Giove,  |>eiuaiKloi  durante  L notte,  rame  compiere  U promeua  vendetta  d’Acbille,  invw 
ad  Agaawnnooe  un  fogno  nuleReo,  per  meoo  del  quale  grim|>oue  di  coodorre  a battaglia  Ir 
squadre  de’Greri}  aoauociaodogli  eiaere  dagli  Dei  roneordrtneale  deliberata  la  roviaa  di 
Troja.  Agameimooe  cbiuna  i duci  a parlamento  nella  Icttda  di  Nestore,  e consulta  con  esso 
il  inodu  di  porre  in  armi  i Greci}  ma  dubitando  dei  sentimenti  del  {nspnlo,  Tuole  spiarli  csmi 
una  fintìone.  Il  consesso  è raduoato.  Agamennone  procione  la  fuga.  I>a  moltitudine,  male  in* 
teqiretaodo  le  inteniiuni  del  rapilanu,  si  dispone  precipitosamente  alla  parlenta.  Ulisse,  esor> 
lato  da  Minerva,  trattiene  i fuggitivi;  persuadendo  con  blande  pan>te  i dvici,  e r«ml>rottajido  il 
volgo  do’guerricri.  L’assemblea  è raccolta  di  nuovo.  Tersile,  avendo  osato  di  alzar  la  voce  con- 
tro Agamennone  , è da  Ulisse  boUuto  cullo  scettro  c ndulto  al  siltruzìo.  Ulivse  e Nestore 
esortano  i Greci  a proseguire  la  guerra.  Agamennone  , do{»  di  avere  disposti  gL  animi  alla 
Itattaglia,  sagrifica  a Giove,  e convita  i principali  dell' esercito.  Rassegna  dei  Greci  e catalogo 
delle  navi.  Iride  scende  nel  come  sio  de'Trojani  ad  annunciare  l'avvuinarsi  degli  inimici.  Et- 
tore per  consiglio  della  Dea  mette  le  sue  schiere  in  ordinanza  Ro-i'SCgna  de*  Trejani  e de'loru 
atiitlian. 


Tutti  ancora  dormi'an  per  1’  alta  notte 

I guerrieri  e gli  Dcij  ma  il  dolce  sonno 
Già  le  pupille  abbandonato  avea 

Di  Giove,  che  pensoso  in  suo  segreto 
Divisando  venia  come  d’Achille, 

Con  molta  strage  delle  vite  argive, 
Illustrar  la  vendetta.  Alla  divina 
Mente  alfin  parve  lo  miglior  consiglio 
Inviar  all’Atride  Agamennone 

II  malefico  Sogno.  A sè  lo  chiama, 

E con  presto  parlar  : Scendi , gli  dice  : 
Scendi,  Sogno  fallace,  alle  veloci 
Prore  de’ Greci  5 c,  nella  tenda  cnti-ato 
D’Agamennón,  quant’ io  t’impongo  esponi 
Esatto  ambasciato!-.  Digli,  che  tutte 
In  armi  ei  ponga  degli  Achei  le  sfjuailic; 
Che  dell'  iliaco  muro  oggi  è decreta 
Su  nel  ciel  la  caduta;  che  discordi 
Degli  eterni  d’  Olimpo  abitatori 
PIÙ  non  sono  le  menti:  che  di  Giuno 


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ai-6o 


ILIADE,  LIBRO  II  ^{3 

Cessero  tutti  al  supplicar^  clic,  in  somma,' 
L’estremo  giorno  de'Trojani  è giunto. 

Disse  ^ ed  il  Sogno,  il  divin  cenno  udito, 
Avv'iossi , e calossi  in  un  baleno 
Su  l’ argoliche  navi.  Entra  d’Atridc 
Nel  queto  padiglione,  e immerso  il  trova 
Nella  dolcezza  di  nettareo  sonno. 

Di  Nestore  Nelide  il  volto  assume. 

Di  Nestore,  cui  sovra  ogni  altro  duce 
Agamenndne  riveriva;  e in  queste 
Forme  sul  capo  del  gran  re  sospesa  , 

Così  la  diva  vis'ion  gli  disse: 

Tu  dormi,  o figlio  del  guerriero  Atréo  ? 

Tutta  dormir  la  notte  ad  uom  sconvieiisi 
Di  supremo  consiglio,  a cui  son  tante 
Genti  commesse  e tante  cure.  Attento 
Dunque  m’  ascolta.  A te  vengh’  io  celeste 
Nunzio  di  Giove , che  lontano  ancora 
Su  te  veglia  pietoso.  Egli  precetto 
Ti  fa  di  porre  tutti  quanti  in  arme 
Prontamente  gli  Achei.  Tempo  è venuto, 

Che  l’ampia  Troja  in  tua  man  cada;  i numi 
Scesero  tutti,  intercedente  Giulio, 

In  un  solo  volere , e alla  trojana 
Gente  sovrasta  l’ infortunio  estremo 
Preparato  da  Giove.  Or  tu  ben  figgi 
Questo  avviso  nell’  alma;  c fa  , che  seco 
Non  lo  si  porti,  col  partirsi,  il  sonno. 

Sparve,  ciò  detto;  e delle  udite  cose, 

Di  che  contrario  uscir  dovea  1’  effetto , 

Pensoso  lo  lasciò.  Prender  di  Troja 
Quel  dì  stesso  le  mura  egli  sperossi; 

Nè  di  Giove  sapea,  stolto!  i disegni. 

Nè  qual  aspro  pugnar,  nè  quanta  il  Dio 
Di  lagrime  cagione  e di  sospiri 
Ai  Trojani  e agli  Achivi  apparecchiava. 

Si  riscuote  dal  sonno,  e la  divina 
Voce  d’ intorno  gli  susurra  ancora. 

Sorge;  e del  letto  sulla  sponda  assiso, 

Una  molle  s’  avvolge  alla  persona 
Mosti.  Iliade.  5 


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34 


ILUDE 


f.  6i-ioo 


Tunica  intatta,  immacolata^  gittasi 
Il  regai  manto  indosso^  il  piè  costringe 
Ne’ bei  calzari;  il  brando,  aspro  c lucente 
D’argentee  borchie,  all’ òmero  sospende; 

L’ inviolato  avito  scettro  impugna , 

Cd  alle  navi  degli  Achei  cammina. 

Già  sul  balzo  d’  Olimpo  alta  ascendea 
Di  Titon  la  consorte,  annunziatrice 
Dell’  alma  luce  a Giove  e agli  altri  Eterni  ; 
Quando  con  chiara  voce  i banditori 
Per  comando  d’Alride  a parlamento 
Convocaro  gli  Achei,  che  frettolosi 
Accorsero  e frequenti.  Ma  raccolse 
De’  magnanimi  duci  Agamennone 
Prima  il  senato  alla  nestorea  nave  ; 

C raccolti  che  furo  , in  questi  accenti 
Il  suo  prudente  consultar  propose: 

M’udite,  amici.  Nella  queta  notte 
Una  divina  vision  m’apparve, 

Che  te,  Nestore  padre,  alla  statura. 

Agli  atti,  al  volto  somigliava  In  tutto. 

Sul  mio  capo  librossi , e cosi  disse  : 

Figlio  d'Atreo,  tu  dormi?  A sommo  duce. 
Cui  di  tanti  guerrieri  e tante  cure 
Commesso  è il  pondo,  non  s’addice  il  sonno. 
M’  odi  adunque  : mandato  a te  son  io 
Da  Giove,  che  dal  ciel  di  te  pensiero 
Prende  e pictade.  Ei  tutte  ti  comanda 
Armar  le  truppe  de’  chiomati  Achei  ; 

Chè  di  Troja  il  conquisto  oggi  è maturo; 
Poiché  di  Giuno  il  supplicar  compose 
La  discordia  de’  numi,  e grave  ai  Teucri 
Danno  sovrasta  per  voler  di  Giove. 

Tu  di  Giove  il  comando  in  cor  riponi. 
Sparve,  ciò  detto  ; e quel  mio  dolce  sonno 
M’  abbandonò.  La  guisa  or  noi  di  porre 
Gli  Achivi  In  arme  esaminiam.  Ma  pria 
Giovi  con  finto  favellar  tentarne , 

Fin  dove  lice,  i sentimenti.  Io  dunque 
Comanderò , che  su  le  navi  ognuno 


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LIBRO  11 


35 


. lOY- 

Si  disponga  alla  fugai  e,  sparsi  ad  arie, 
Voi  l' impedite  con  opposti  accenti. 

Cosi  detto,  s'  assise.  In  piè  rizzossi 
Dell’  arenosa  Pilo  il  regnatore 
Mestoli;  e,  saggio  ragionando,  disse: 

O amici,  o degli  Achei  principi  c duci, 

S’  altro  qualunque  Àrgivo  un  colai  sogno 
Detto  n’avesse,  un  menzogner  l’avremmo, 
E spregeremmo  j ma  lo  vide  il  sommo 
Capo  del  campo.  À risvegliar  si  corra 
Dunque  1’  acheo  valore.  — E,  sì  dicendo. 
Usciva  il  vecchio  dal  consiglio  ^ c tulli 
Surti  in  piò  lo  seguian  gli  altri  scettrati , 
Del  re  supi^mo  ossequiosi.  Intanto 
11  popolo  accorrea.  Quale  dai  fori 
Di  cava  pietra  numeroso  sbuca 
Lo  sciame  delle  pecchie,  e succedendo 
Sempre  alle  prime  le  seconde , volano 
Sui  fior  di  aprile  a gara , c vi  fan  grappolo 
Altre  di  qua  affollate,  altre  di  là^ 

Così  fuor  delle  navi  e delle  tende 
Correan  per  1’  ampio  lido  a parlamento 
Affollate  le  turbe , e le  spronava 
L’ignea  Fama,  di  Giove  ambasciatrice. 

Si  congregare  alfin.  Tumultuoso 
Brulicava  il  consesso  ^ ed  al  sedersi 
Di  tante  genti,  il  suol  gemea  di  sotto. 

Ben  nove  araldi  d’  acchetar  fean  prova 
Quell’  immenso  frastuono , alto  gridando  : 
Date  fine  ai  clamori , udite  i regi  ^ 

Udite,  Achivi,  del  gran  Dio  gli  alunni. 
Sostarsi  alfine  ^ ne’  suoi  seggi  ognuno 
Si  compose,  e cessò  1’  alto  fragore. 

Allor  rizzossi  Agamennòn,  stringendo 
Lo  scettro,  esimia  di  Vulcan  fatica. 

Diè  pria  Vulcano  quello  scettro  a Giove , 

E Giove  all’  uccisor  d’Argo  Mercurio  \ 
Questi  a Pelopc  auriga  ^ esso  ad  Atreo  ^ 
Atreo,  morendo,  al  possessor  di  pingui 
Greggi , Ticste  j e da  Ticste  alfine 


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36 


ILIADE 


I*.  i4i*iSo 


Nella  destra  passò  d'Agameiinòne, 

Che  poi  sovr'Argo  lo  distese,  e sopra 
Isole  molte.  A questo  il  grande  Atridr 
Appoggiato,  si  disse:  Amici  eroi, 

Danai,  di  Marte  bellicosi  Ggli, 

In  una  dura  e perigliosa  impresa 
Giove  m’avvolse,  Iddio  crudel,  che  prima 
Mi  promise  e giurò  delle  superbe 
Iliache  mora  la  conquista,  e in  Argo 
Glorioso  il  ritorno.  Or  mi  delude 
Indegnamente,  c dopo  tante  in  guerra 
Vite  perdute , di  tornar  m’  impone 
Inonorato  alle  paterne  rive. 

Del  prepotente  Iddio  questo  è il  talento. 

Di  lui,  che  nell'  immensa  sua  possanza 
Già  di  molte  città  1’  eccelse  ròcche 
Distrusse,  c molte  struggeranne  ancora. 

Ma  qual  onta  per  noi  appo  i futuri. 

Che  contra  minor  oste  un  tale  e tanto 
Esercito  di  forti  una  sì  lunga 
Guerra  gueireggi , e non  la  compia  ancora  ì 
Certo  se  tutti  convocati  insieme  ' 

Salda  pace  a giurar  Teucri  ed  Achivi , 

E di  questi  e di  quei  levato  il  conto. 

Ad  ogni  dieci  Achivi  un  Teucro  solo 
Mescer  dovesse  di  lieo  la  spuma. 

Molte  decurie  si  vedrian  chiedenti 
Con  labbro  asciutto  il  mescitor:  cotanto 
Maggior  de’  teucri  cittadini  estimo 
H numero  de’  nostri.  Ma  li  molti 
Da  diverse  città  raccolti  c scesi 
In  lor  sussidio  bellicosi  amici 
Duro  intoppo  mi  fanno,  c a mio  dispetto 
Mi  vietano  espugnar  d’ilio  le  mura. 

Già  del  gran  Giove  il  nono  anno  si  volge 
Da  che  giungemmo , e già  marciti  i fianchi 
Son  delle  navi , e logore  le  sarte  ^ 

E le  nostre  consorti  e i cari  figli 
Desiando  ne  stanno  c richiamando 
Nelle  vedove  case.  E noi  l’ impresa. 


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•*.  i8i-230  libro  II  3^ 

Che  a queste  sponde  ne  condusse,  ancora 
Consumar  non  sapemmo.  Ài  vento  adunque, 

Diamo  al  vento  le  vele,  io  vel  consiglio; 

Alla  dolce  fuggiam  terra  natia 
Di  concorde  voler;  cliè  disperata 
Delle  mura  ti'ojané  è la  conquista. 

Mosse  quel  dire  delle  turbe  i petti; 

E fremca  l'adunanza  a quella  guisa 
Che  dell'  icario  mare  i vasti  flutti 
Si  confondono  allor  che  Noto  ed  Euro, 

Della  nube  di  Giove  il  fianco  aprendo, 

A sollevar  li  vanno  impetuosi. 

E come  quando  di  Favonio  il  soffio 
Denso  campo  di  biade  urta,  e,  passando, 

11  capo  inchina  delle  bionde  spiche  ; 

Tal  si  commosse  il  parlamento,  e tutti 
Alle  navi  correan  precipitosi 
Con  fremito  guerrier.  Sotto  i lor  piedi 
S'  alza  la  polve , e al  ciel  si  volve  oscura. 

1 navigli  allestir,  lanciarli  in  mare, 

Espurgarne  le  fosse,  ed  i puntelli 
Sottrarre  alle  carene,  era  di  tutti 
La  faccenda  e la  gara.  Ài-de  ogni  petto 
Del  sacro  amore  delle  patrie  mura, 

E tutto  di  clamori  il  cielo  eccheggia. 

E degli  Achei  quel  di  sana  seguito. 

Contro  il  voler  de'fati,  il  dipartire, 

Se  con  questo  parlar  non  si  volgea 
Giuno  a Minerva:  O dell'  Egioco  Padre 
Invincibile  figlia,  cosi  dunque, 

Q mar  coprendo  di  fuggenti  vele. 

Al  patrio  lido  rediran  gli  Àchivi  ? 

Ed  a Priamo  1'  onore,  ai  Teucri  il  vanto 
Lasceran  tutto  dell'  argiva  Eléna 
Dopo  tante  per  lei,  lungi  dal  caro 
Nido  natio,  qui  spente  anime  greche  1 
Deh!  scendi  al  campo  acheo;  scendi  ed  adopra 
Lusinghiero  parlar;  moki  i soldati  ; 

Frena  la  fuga;  nè  patir,  che  un  solo 
De’  remiganti  pini  in  mar  sia  tratto. 


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ILIADE 


Obbediente  la  cerulea  Diva 
Dalle  cime  d’  Olimpo  dispiccossi 
Velocissima;  e tosto  fu  sul  lido. 

Ivi  Ulisse  trovò,  senno  di  Giove, 

Occupato  non  già  del  suo  naviglio. 

Ma  del  dolor  che  il  preme,  c immoto  in  piedi. 
Gli  si  fece  davanti  la  divina 
Glaucopide,  dicendo:  O di  Laerte 
Generoso  figliuol,  prudente  Ulisse, 

Gosì  dunque  n'  andrete  ? E al  patrio  suolo 
Navigherete,  e lasccrctc  a Priamo 
Di  vostra  fuga  il  vanto,  ed  ai  Trojaiii 
D’Argo  la  donna,  e invendicato'  il  sangue 
Di  tanti,  che  per  lei  qui  lo  versare. 

Bellicosi  compagni  ? A che  ti  stai  ? 

T”  appresenta  agli  Achei;  rompi  gl’indugi; 
Dolci  adopra  parole , e li  trattieni  ; 

Nè  consentir,  che  antenna  in  mar  si  spinga. 

Cosi  disse  la  Dea.  Ne  riconobbe 
L’  eroe  la  voce  ; e , via  gittate  il  manto , 

Che  dopo  lui  raccobe  il  banditore 
Euribate  itacense,  a correr  diessi; 

E , incontrato  l’Atride  Agamennone , 

Ratto  ne  prende  il  regai  scettro,  e vola 
Con  questo  in  pugno  tra  le  navi  achee; 

E quanti  ei  trova,  o duci  o re,  li  ferma 
Con  parlar  lusinghiero,  e:  Che  fai,  dice, 
Valoroso  campione  ? A te  de’  vili 
Disconvicn  la  paura.  Or  via,  ti  resta. 

Pregoti,  e gli  altri  fa  restar.  La  mente 
Ben  palese  non  t’è  d’Agamcnnonc  : 

Egli  tenta  gli  Achei,  pronto  a punirli. 

Non  tutti  han  chiaro  ciò,  che  dianzi  in  chiuso 
Consesso  ei  disse.  Deh  ! badiam , che  irato 
Non  ne  percuota  d’improvvisa  offesa. 

Di  re  supremo  acerba  è 1’  ira;  c Giove, 

Che  al  trono  1’  educò,  l’onora  ed  ama. 

S’  uom  poi  vedea  del  vulgo , e In  cogliea 
Vociferante,  collo  scettro  il  dosso 
Battcagli,  e:  Taci,  gli  garria  severo; 


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LIBRO  II 


^9 


, 36i*3oo 

Taci  tu,  tristo^  e i più  prestanti  ascolta, 

Tu,  codardo,  tu,  imbelle,  e nei  consigli 
Nullo  e ^ell'  armi.  La  vogliam  noi  forse 
Far  qui  tutti  da  re?  Pano  fu  sempre 
De' molti  il  regno.  Un  sol  comandi^  e quegli, 
Cui  scettro  e leggi  affida  il  Dio,  quei  solo 
Ne  sia  di  tutti  correttor  supremo. 

Cosi  l’impero  adoperando  Ulisse, 

Frena  le  turbe  ^ c queste  a parlamento 
Dalle  navi  di  nuovo  e dalle  tende 
Con  fragore  accorrean,  pari  a marina 
Onda  che  mugge  e sferza  il  lido,  ed  allo 
Ne  rimbomba  1’  Egèo.  Queto  s’ asside 
Ciascheduno  al  suo  posto  ^ il  sol  Tersile 
Di  gracchiar  non  si  resta,  e fa  tumulto, 
Parlator  petulante.  Avea  costui 
Di  scurrili  indigeste  dicerie 
Pieno  il  cerébro , e fuor  di  tempo , e senza 
O ritegno  o pudor  le  vomitava 
Contro  i re  tutti  ^ e quanto  a destar  riso 
Infra  gli  Achivi  gli  venia  sul  labbro, 

Tanto  il  protervo  beffalor  dieea. 

Non  venne  a Troja  di  costui  più  brutto 
Ceffo',  era  guercio  e zoppo,  e di  contratta 
Gran  gobba  al  petto  ^ aguzzo  il  capo,  e sparso 
Di  raro  pelo.  Capital  nemico 
Del  Pelide  e d’  Ulisse , ei  li  solea 
Morder  rabbioso^  e,  schiamazzando  allora. 
Colla  stridula  voce  lacerava 
Anche  il  duce  supremo  Agamennònc 
SI,  che  tutti  di  sdegno  e di  corruccio 
Fremcan;  ma  il  tristo  ognor  più  forti  alzava 
Le  rampogne , e gridava  : E di  che  dunque 
Ti  lagni,  Atride  ? che  ti  manca?  Hai  pieni 
Di  bronzo  i padiglioni  e di  donzelle. 

Delle  vinte  città  spoglie  prescelte, 

E da  noi  date  a te  primiero.  O forse 

Pur  d'anro  hai  fame,  e qualche  Teucro  aspetti, 

Che  d’ilio  uscito  lo  ti  rechi  al  piede. 

Prezzo  del  figlia  da  me  preso  in  guerra. 


ILIADK 


**.  1*340 


Da  ine  mcdcsmo,  o da  qiialch' altro  Aclieo? 

O cerchi  schiava  giovinetta,  a cui 
Mescolarti  in  amore  alla  spartita  ? 

Eh  via  ! chè  a sommo  imperador  non  lice 
Scandalo  farsi  de’  minori.  Oh  vili, 

Oh  infami,  oh  Acliive  , non  Achei  ! Facciamo 
Vela  una  volta  ^ e qui  costui  si  lasci. 

Qui  lui  solo  a smaltir  la  sua  ricchezza, 

Onde  a prova  conosca  se  1’  aita 

Gli  è buona  o no  delle  nostr’armi.  E dianzi 

Noi  vedemmo  pur  noi  questo  superbo 

Ad  Achille,  a un  guerricr,  che  .si  l’avanza 

Di  fortezza,  far  onta?  E dell' offeso 

Non  si  ticn  egli  la  rapita  schiava  ? 

Ma  se  d’Achille  il  cor  di  generosa 
Bile  avvampasse,  e un  indolente  vile 
Non  si  fosse  egli  pur,  questo  saria 
Stato  1’  estremo  de’  tuoi  torti , Atride. 

Cosi  contra  il  supremo  Agamennone 
Impazzava  Tersite.  Gli  fu  sopra 
Repente  il  figlio  di  Lacrte^  e,  torvo 
Guatandolo,  gi'idò:  Fine  alle  tue 
Faconde  ingiurie,  ciarlator  Tersite^ 

E tu  sendo  il  peggior  di  quanti  a Troja 
Con  gli  Atridi  passar,  tu  audace  e solo 
Non  dar  di  cozzo  ai  re,  nè  rimcnarli 
Su  quella  lingua  con  villane  aringhe , 

Nè  del  ritorno  t’impacciar^  chè  il  fine 
Di  queste  cose  al  nostro  sguardo  è oscuro , 

Nè  sappiam  se  felice  o sventurato 
Questo  ritorno  riuscir  ne  debba. 

Ma  di  tue  contumelie  al  sommo  Atride 
So  ben  io  lo  perchè  : donato  il  vedi 
Di  molti  doni  dagli  achivi  croi  ^ 

Per  ciò  ti  sbracci  a maledirlo.  Or  io 
Cosa  dirotti,  che  vedrai  compiuta: 

Se  com’  oggi  insanir  più  ti  ritrovo. 

Caschimi  il  capo  dalle  spalle,  c detto 
Di  Telemaco  il  padre  io  più  non  sia, 

Mai  più,  se  non  t’  afferro  , c delle  vesti 


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LIBRO  II 


4> 


IN 

Tutto  nudo,  da  questo  almo  consesso 
Non  ti  caccio  malconcio  c piangoloso. 

Si  dicendo  , le  terga  gli  percuote 
Con  lo  scettro  e le  spalle.  Si.  contorce 
E làgrima  dirotto  il  manigoldo 
Dell’  aureo  scettro  al  tempestar,  che  tutta 
Gli  fa  la  schiena  rubiconda  ^ ond’  egli 
Di  dolor  -macerato  e di  paura 
S’  assise , e ohhliquo  riguardando  intorno  , 
Col  dosso  della  man  si  terse  il  pianto. 
Rallegrò  quella  vista  i mesti  Àchivi, 

E surse  in  mezzo  alla  tristezza  il  riso  ^ 

E fu  chi  vólto  al  suo  vicin  dicea: 

Molte  In  vero  d’  Ulisse  opre  vedemmo 
Eccellenti  e di  guerra  e di  consiglio^ 

Ma  questa  volta  fra  gli  Achei,  per  dio! 
Fe  la  più  bella  delle  belle  imprese. 
Frenando  1’  abbajar  di  questo  cane 
Dileggiator.  Che  si , che  all’  arrogante 
Passò  la  frega  di  dar  morso  ai  regi  ? 

Mentre  questo  dicean,  levossi  in  piedi, 
E collo  scettro  di  parlar  fe  cenno 
L’  espugnatore  di  cittadi , Ulisse. 

In  sembianza  d’  araldo  accanto  a lui 
La  fiera  Diva  dalle  luci  azzurre 
Silenzio  a tutti  impose^  onde  gli  estremi, 
Del  par  che  i primi,  udirne  le  parole 
Potessero,  ed  in  cor  pesame  il  senno. 
Allora  il  saggio  diè  principio  : Atride, 
Questi  Achivi  di  te  Tonno  far  oggi 
Il  più  infamato  de’ mortali.  Han  posto 
Le  promesse  in  obblio  fatte  al  partirsi 
D’Argo  alla  volta  d’ Il'ion , giurando 
Di  non  tornarsi,  che  Il'ion  caduto. 
Guardali  : a guisa  di  fanciulli , a guisa 
Di  vedovelle  sospirar  li  senti, 

E a vicenda  plorar  per  lo  desio 
Di  riveder  le  patrie  mura.  E in  vero 
Tal  qui  si  paté  traversia,  che  scusa 
Il  desiderio  de’  paterni  tetti. 


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ILIADE 


¥.  38i*420 


Se  a navigante  da  vernai  procella 
Impedito  e sbattuto  iq  mar  che  freme, 

Pur  di  un  mese  è crudel  la  lontananza 
Dalla  consorte,  che  pensar  di  noi, 

Che  già  vedemmo  del  nono  anno  il  giro 
Su  questo  lido  ? Compatir  m’  è forza 
Dunque  agli  Àchivi,  se  a mal  cor  qui  stanno. 
Ma  dopo  tanta  dimoranza,  è turpe 
Vóti  di  gloria  ritornar.  Deh  ! voi , 

Deh  ! ancor  per  poco  tollerate,  amici ^ 

Tanto  indugiate  almen,  che  si  conosca 
Se  vero  o falso  profetò  Calcante. 

In  cuor  riposte  ne  tcniam  noi  tutti 
Le  divine  parole:  e voi  nc  foste 
Testimoni,  voi,  sì,  quanti  la  Parca 
Non  aveste  crudel.  Parmi  ancor  jeri,  ‘ 
Quando  le  navi  achee,  di  lutto  a Troja 
Apportatrici,  in  Àulide  raccolte. 

Noi  ci  stavamo  in  cerchio  ad  una  fonte, 
Sagrificando  sui  devoti  altari 
Vittime  elette  ai  Sempiterni , all’  ombra 
D’un  platano,  al  cui  piè  nascea  di  pure 
Linfe  il  zampillo.  Un  gran  prodigio  apparve 
Subitamente  : un  drago  di  sanguigne 
Macchie  spruzzato  le  cerulee  terga. 

Orribile  a vedersi,  c dallo  stesso 
Re  d’  Olimpo  spedito , ecco  repente 
Sbucar  dall’  imo  altare , e tortuoso 
Ài  platano  avvinghiarsi.  Avean  lor  nido 
III  cima  a quello  i nati  tencrelli 
Di  passera  feconda,  latitanti 
Sotto  le  foglie  : otto  eran  dii,  e nona 
La  madre.  Colassù  1’  angue  salito , 

Gl’implumi  divorò,  miseramente 
Pigolanti.  Plorava  i dolci  figli 
La  madre  intanto,  e svolazzava  intorno 
Pietosamente^  finché,  ratto  il  serpe 
Vibrandosi,' afferrò  la  meschinclla 
All’  estremo  dell’  ala , e lei , che  1’  aure , 
Empiea  di  stridi,  nella  strozza  ascose. 


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LIBRO  tl 


43 


(•.'  4si-46o 

Divorata  co’  figli  anco  la  madre , 

Del  vorator  fe  il  Dio,  che  lo  mandava, 
Nuovo  prodigio  ^ e lo  converse  in  sasso. 
Stupidi  e muti  ne  laseiò  del  latto 
La  merajriglia^  e a noi,  che  dell’orrendo 
Portento  fra  gH  altari  intervenuto 
Incerti  ci  stavamo  e paventosi. 

Calcante  profetò  : Chiomati  Àchivi, 

Perchè  muti  cosi  ? Giove  ne  manda 
Nel  veduto  prodigio  un  tardo  segno 
Di  tardo  evento  , ma  d’  eterno  onore. 

Nove  augelli  ingojò  1’  angue  divino , 

Nov’  anni  a 'Troja  ingojerà  la  guerra , 

E la  città  nel  decimo  cadrà. 

’ Cosi  disse  il  profeta;  ed  ecco  ornai 
Tutto  adempirsi  il  vaticinio.  Or  dunque 
Perseverate,  generosi  Achei  ^ 

Restatevi  di  Troja  al  giorno  estremo. 

Levossi  a questo  dire  un  alto  grido, 

A cui  le  navi  con  orribil  eco 
Rispondean,  grido  lodator  del  saggio 
Parlamento  d’  Ulisse.  Ed  incalzando 
Quei  detti  il  vecchio  cavalier  Nestorre: 

Oh  vergogna!  dicea;  sul  vostro  labbro 
Parole  intesi  di  fanciulli,  a cui 
Nulla  cal  della  guerra.  Ove  n’andranno 
I giuramenti,  le  promesse  e i tanti 
Consigli  de’  più  saggi  e i tanti  affanni , 

Le  libagioni  degli  Dei,  la  fede 
Delle  congiunte  destra?  Dissipati 
N*  andran  col  fumo  dell’  altare  ? Achei, 

Noi  contendiamo  di  parole  indarno, 

E in  vane  induge  il  tempo  si  consuma, 
Che  dar  si  debbe  a salutar  riparo. 

Ticn  fermo,  Atride,  il  tuo  coraggio,  e fermo 
Su  gli  Achei  nelle  pugne  alza  lo  scettro  ^ 
Ed  in  proposte,  che  d’  effetto  vote 
Cadran  mai  sempre,  marcir  lascia  i pochi, 
Che  in  disparte  consultano , se  in  Argo 
Redir  si  debba,  pria  che  falsa  o vera 


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44  ILIADE  k.  ^6i-5do 

Si  conosca  di  Giove  la  promessa. 

10  ti  fo  certo,  che  il  saturnio  figlio. 

11  giorno  che  di  Troja  alla  mina 
Sciolser  gli  Achivi  le  veloci  antenne , 

Non  dubbio  cenno  di  favor  ne  fece, 

Balenando  a diritta.  Alcun  non  sia 
Dunque  che  parli  del  tornarsi  in  Argo. 

Se  prima  in  braccio  di  trojana  sposa 
Non  vendica  d'  Elcna  il  ratto  e i pianti. 

Se  taluno  pur  v'ha,  che  voglia  a forza 
Di  qua  partirsi,  di  toccar  si  provi 

Il  suo  naviglio,  e troverà  primiero 
La  meritata  morte.  Tu  frattanto 
Pria  ti  consiglia  con  te  stesso,  o sire; 

Indi  cogli  altri , nè  sprezzar  1'  avviso , 

Ch’  io  ti  porgo.  Dividi  i tuoi  guerrieri 
Per  curie  e per  tribù  sì , che  a vicenda 
Si  porga  aita  una  tribù  con  l'altra, 

L'  una  con  1'  altra  curia.  A questa  guisa, 
Obbedendo  gli  Achei , ti  fia  palese 
De'  capitani  a un  tempo  e de'  soldati 
Qual  siasi  il  prode  e quale  il  vii  ; chè  ognuno 
Con  emula  virtù  pel  suo  fratello 
Combatterà.  Conoscerai  pur  anco. 

Se  nume  avverso,  o codardia  de' tuoi, 

O poca  d’armi  maestria  ti  tolga 
Delle  dardanic  mura  la  conquista. 

Saggio  vegliardo  , gli  rispose  Atride , 

In  tutti  della  guerra  i parlamenti 
Nanzi  a tutti  tu  vai.  Piacesse  a Giove, 

A Minerva  piacesse  e al  santo  Apollo, 

Gh’  altri  dieci  io  m'  avessi  infra  gli  Achei 
A te  pari  in  consiglio^  ed  atterrata 
Cadrìa  ben  tosto  la  città  trojana. 

Ma  me  r Egioco  Giove  in  alti  affanni 
Sommerse,  e incauto  mi  sospinse  in  vane 
Gare  e contese.  Di  parole  avemmo 
Gran  lite  Achille  ed  io  d’ una  fanciulla^ 

Ed  io  fui  primo  all’  ira.  Ma  se  fia  , 

Che  in  amistà  si  torni,  un  sol  momento 


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LIBRO  il 


45 


5oi«54o 

Non  tarderà  di  Trojà  il  danno  estremo. 
Or  via,  di  cibo  a ristorar  le  forze 
Itene  tutti  per  la  pugna.  Ognuno 
L’  asta  raffili  ; ognun  lo  scudo  assetti  ; 

Di  copioso  alimento  ognun  govèrni 
I corridor  veloci,  e diligente 
Visiti  il  cocchio,  e mediti  il  conflitto; 
Onde  quésto  sia  giorno  di  battaglia 
Tutto  e di  sangue,  e senza  posa  alcuna, 
Finché  la  notte  non  estingua  l'ire 
De'  combattenti.  Di  guerrier  sudore 
Bagnerassi  la  soga  dello  scudo 
Sui  caldi  petti,  verrà  manco  il  puguo 
Sovra  il  calce  dell'asta,  e destrier  molti 
Trarranno  il  cocchio  con  infranta  lena. 
Qualunque  io  poscia  scorgerò,  che  lungi 
Dalla  pugna  si  resti  appo  le  navi 
Neghittoso,  non  ila  chi  salvo  il  mandi 
Dalla  fame  de’  cani  e degli  augelli. 

Cosi  disse;  e.,  al  finir  di  sue  parole, 
Mandar  gli  Àchivi  un  altissimo  grido. 
Somigliante  al  muggir  d'  onda  spezzata 
All'  alto  lido,  ove  il  soffiar  la  caccia 
Di  furioso  Noto  incontro  ai  fianchi 
Di  prominente  scoglio,  flagellato 
Da  tutti  i venti  e da  perpetue  spume. 

Si  levàr  frettolosi,  si  dispersero 
Per  le  navi,  destar  per  tutto  il  lido 
Globi  di  fumo,  ed  imbandir  le  mense. 

Chi  a questo  dio  sacrifica,  chi  a quello; 
Al  suo  ciascun  si  raccomanda,  e il  prega 
Di  camparlo  da  morte  nella  pugna. 

Ma  il  re  de’  prodi  Agamennone  un  pingue 
Toro  quinquenne  al  più  possente  nume 
Sagrifica,  e convita  i più  prestanti: 

Nestore  primamente  e Idomenéo  ; 

Quindi  entrambi  gli  Ajaci,  e di  Tidéo 
L’inclito  figlio,  e sesto  il  divo  Ulisse. 
Spontaneo  venne  Menelao , cui  noto 
Era  il  travaglio  del  fratello.  E questi 


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46 


ILIADE 


%'.  5)i*58o 


Fér  di  sè  stessi  una  corona  intorno 
Alla  vittima^  e,  preso  il  salso  farro, 

Nel  mezzo  Agamenndne,  orando,  disse: 

Glorioso  de' nembi  adunatore. 

Massimo  Giove,  abitator  dell’etra. 

Pria  che  il  sole  tramonti  e l’aria  imbruni. 
Fa,  che  fumanti  al  suol  di  Priamo  io  getti 
Gli  alti  palagi , e d’  ostil  fiamma  avvampi 
Le  regie  porta  ^ fa,  che  la  mia  lancia 
Squarci  l’ usbergo  dell’  ettoreo  petto , 

E che  d’intorno  a lui  molti  suoi  fidi 
Boccon  distesi  mordano  la  polve. 

Disse ^ ed  il  nume  l’olocausto  accolse. 
Ma  non  il  voto:  e a lui  più  lutto  ancora 
Preparando  venia.  Finito  il  prego, 

E sparso  il  farro,  ed  incurvato  all’ara 
Della  vittima  il  collo  , la  scaunaro , 

La  discuo)aro,  ne  squartar  le  cospe. 

Le  rivestir  di  doppio  zirbo,  e sopra 
Poservi  i crudi  brani.  Indi,  la  fiamma 
D’aride  schegge  alimentando,  a quella 
Cocean  gli  entragni  nello  spiedo  infissi. 
Adusti  i fianchi,  e (atto  delle  sacre 
Viscere  il  saggio,  lo  restante  in  pezzi 
Negli  schidon  confissero,  ed  acconcia — 

— mente  arrostito  nc  levaro  il  tutto. 

Finita  l’opra,  apparecchiàr  le  mense, 

E a suo  talento  vivandò  ciascuno. 

Di  cibo  sazi  c di  bevanda,  prese 
A così  dire  il  cavalier  Nestorre: 

Re  delle  genti,  glorioso  Atride 
Agamennòn,  si  tolga  ogni  dimora 
All’  impresa , che  in  pugno  il  Dio  ne  pone. 
Degli  araldi  la  voce  alla  rassegna 
Chiami  sul  lido  i loricati  Achei, 

E noi  scorriamo  le  raccolte  squadre  , 

E di  Marte  destiam  1’  ira  e il  desio. 

Assentì  pronto  il  sire^  ed  al  suo  cenno 
L’  acuto  grido  degli  araldi  diede 
Della  pugna  agli  Achivi  il  fiero  invito. 


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/>8i*630 


LIBRO  11 


Corsero  quelli  frettolosi  ^ e i regi 
Di  Giove  alunni,  ohe  segnian  FAtride, 

Li  ponean  ratti  in  ordinanza.  Errava 
Minerva  in  mezzo,  e le  splendea  sul  petto 
Incorrotta,  immortai  la  preziosa 
Egida,  da  cui  cento  eran  sospese 
Frange,  conteste  di  finissim'oro; 

E valea  cento  tauri  ogni  gherone. 

In  quest'  arme  la  Diva  folgorando , 

Concitava  gli  Achivi,  ed  accendea 
L' ardir  ne'  petti , e li  facea  gagliardi 
A pugnar  fieramente  e senza  posa. 

* Allor  la  guerra  si  fe  dolce  al  core 
Più  che  il  volger  le  vele  al  patrio  nido. 

Siccome  quando  la  vorace  vampa 
Sulla  montagna  una  gran  selva  incende, 
Sorge  splendor,  che  lungi  si  propaga^ 

Cosi  al  marciar  delle  falangi  achive 
Mandan  l'armi  un  chiaror,  che  tutto  intorno 
Di  tremuli  baleni  il  cielo  infiamma. 

E qual  d’ oche  o di  gru  volanti  eserciti , 
Ovver  di  cigni,  che,  snodati  il  tenue 
Collo,  van  d'Asio  ne' bei  verdi  a pascere 
Lungo  il  Caistro,  e vagolando  esultano 
Su  le  larghe  ale , e nel  calar  s' incalzano 
Con  tale  un  rombo,  che  ne  suona  il  prato^ 
Cosi  le  genti  achee  da  navi  e tende 
Si  diifondono  in  frotte  alla  pianura 
Del  divino  Scamandro,  e il  suol  rimbomba 
Sotto  il  piè  de'  guerrieri  e de'  cavalli 
Terribilmente.  Nelle  verdi  lande 
Del  fiume  s'  arrestar  gremiti  e spessi 
Come  le  foglie  e i fior  di  primavera. 

Conti  lo  sciame  dell’  impronte  mosche , 

Che  ronzano  in  aprii  nella  capanna. 

Quando  di  latte  sgorgano  le  secchie , 

Chi  contar  degli  Achei  desia  le  torme. 
Anelanti  de' Teucri  alla  rovina. 

Ma  quale  è de'  caprai  la  maestria 
Nel  divider  le  greggie,  allor  che  il  pasco 


48 


ILIADE 


V.  631*660 


Le  confonde  e le  mesce  ^ a questa  guisa 
In  ordinate  squadre  i capitani 
Schieravano  gli  Àchivi  alla  battaglia. 
Agamennón , qual  tauro , era  nel  mezzo , 

Che  nobile  e sovrana  alza  la  fronte 
Sovra  tutto  l’armento  e lo  conduce^ 

E tal  fra  tanti  eroi  Giove  gl’  infonde 
E garbo  e maestà,  che  Marte  al  cinto, 
Nettuno  al  petto,  e il  Folgorante  istesso 
Negli  Sguardi  somiglia  e nella  testa. 

Muse,  dell’  alto  Olimpo  abitatrici , 

Or  voi  ne  dite  (chè  voi  tutte,  o Dive, 
Riguardate  le  cose  c le  sapete: 

A noi  nessuna  è conta,  c ne  susurra 
Di  fuggitiva  fama  un’aura  appena); 

Dite  voi  degli  Achivi  i condottieri. 

Della  turba  infinita  io  nè  parole 
Farò,  nè  nome;  chè  bastanti  a questo 
Non  dieci  lingue  mi  sarian,  nè  dicci 
Bocche,  nè  voce  pur  di  feireo  petto. 

Di  tutta  1’  oste  ad  Ilio  navigata 
Divisar  la  memoria  altri  non  puotc , 

Che  1’  alme  figlie  dell’  Egioco  Giove. 

Sol  dunque  i duci,  e sol  le  navi  io  canlo- 

Erano  de'  Beozi  i capitani 
Arcesilao  , Leito  e Peneléo 
E Protenore  e Glonio  , c traean  seco 
D’Iria  i coloni  e d’  Aulide  petrosa , 

Con  quei  di  Scheno  e Scolo,  c quei  dell’erta 
Eteono  e di  Tespia  , e quei,  clic  manda 
La  spaziosa  Micalesso  e Crea; 

E quei,  che  d’Anna  la  contrada  cdiica, 

Ed  llesio  ed  Erìtre  ed  Eleone 
E Peteone  ed  Ha  ed  Ocaléa. 

Seguono  i prodi  della  ben  costrutta 
Medeone  e di  Cope,  c gli  abitanti 
D’  Eutresi  e Tisbe  di  colombe  altrice. 

Di  Coronéa  vien  dopo  c dell’  erbosa 
Aliarto  e di  Glissa  c di  Platèa 
E d’ipotcbc  dalle  salde  mura 


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LIBRO  II 


11) 


r.  60*1-700 

Una  gran  torma.  Ed  altri  abbandoiiaro 
Le  sacrate  a Nettuno  inclite  selve 
D’Onchesto,  c d’Arue  i pampinosi  colli; 
Altri  il  pian  di  Midéa^  altri  di  Nisa 
Gli  almi  boschetti , e gli  ultimi  confini 
D’  Antédonc.  Di  questi  eran  cinquanta 
Le  navi;  e ognuna  cento  prodi  e venti, 
Fior  di  bcozia  gioventù,  portava. 

Dell’ Orcoméno  Miniéo  gli  eletti, 

Misti  a quei  d’Aspledóne,  hanno  a lor  duci 
Ascalafo  e lalmcno , ambo  di  Marte 
Egregia  prole.  Ne’ secreti  alberghi 
D’Attore  Aride  partorilli  Astiochc  . 
Vereconda  fanciulla,  alle  superne 
Stanze  salita,  e al  forte  iddio  commista 
In  amplesso  furtivo.  Eran  di  questi 
Trenta  le  navi,  che  schierarsi  al  lido. 

Regge  la  squadra  de’ Forensi  il  cenno 
Di  Schedio  e d’Epistrófo,  incliti  figli 
Del  generoso  Naubolide  Ifito. 

Invia  questi  gucrrier  la  discoscesa 
Balza  di  Pito,  e Ciparisso  c Crissa, 

Gentil  paese , e Daulide  e Panopc. 
D’Anemoria  e di  Jampoli  van  seco 
Gli  abitatori,  e quei,  che  del  Cefiso 
Bcon  Tonde  sacre,  e quei,  che  di  Lilt'a 
Domano  i gioghi  alle  cefisic  fonti. 

Son  quaranta  le  prore  al  mar  fidate 
Da  questi  prodi , e tutte  in  ordinanza 
De’Beozi  disposte  al  manco  lato. 

Di  Locride  guidava  i valorosi 
Ajace  d’  O'iléo,  veloce  al  corso. 

Di  tutta  la  persona  egli  è minore 
Del  Telamonio,  nè  minor  di  poco; 

Ma  picciolo  quantunque,  e non  coperto 
Che  di  lino  torace,  ei  tutti  avanza 
E Greci  e Aehivi  nel  vibrar  dell’asta. 

Di  Gino,  di  Calliaro  e d'Opunte 
Lo  seguono  i deletti,  c quei  di  Bessa  , 

E quei , che  i colti  dell’  amena  Augci’ 

Mosti.  Iliade.  ; 


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(» 


ILIADE 


•’  70i-7'|0 


K di  Scarfe  lasciar,  misti  di  Tai-fa 
Ai  duri  agresti,  e quei  di  Tronio,  a cui 
11  Boagrio  turrente  i campi  allaga. 

Venti  c venti  il  seguian  preste  carene 
Della  locrese  gioventù  venuta 
Di  là  dai  fini  della  sacra  Eubea. 

Ma  gl' incoli  d’Eubéa,  gli  arditi  Abanti , 
Eretricnsi,  Calcidcnsi,  e quelli 
Dell’aprica  vitifera  Istiea, 

E di  Ccrinto  in  una  i marinari. 

E i montanari  dell’ alpestre  Dio, 

E quei  di  Stira  e di  Caristo  han  duce 
11  bellicoso  Elefenór  , figliuolo 
Di  C.ilcodontc,  e sir  de’ prodi  Abanti. 
Snellissimi  di  pii  portan  costoro 
Fiocchi  di  chiome  su  la  nuca,  egregi 
Combattitori , a maraviglia  sperti 
Nell’  abbassar  la  lancia,  e sul  nemico 
Petto  smagliati  fraca.ssar  gli  usberghi: 

E quaranta  di  questi  eran  le  vele. 

Della  splendida  'Atene  ceco  gli  eroi, 
Popolo  del  magnanimo  Erettco 
Cui  l’alma  tciTa  partorì.  Nudrillo, 

Ed  in  Atene  il  collocò  Minerva 
Alla  sant’ombra  de’ suoi  pingui  altari, 

Ove  1’  attica  gente  a statuito  . 

Giro  di  soli  con  agnelli  e tauri 
Placa  la  Diva.  Guidator  di  questi 
Era  il  Putide  Mencstéo.  Non  vede 
Pari  il  mondo  a costui  nella  scienza 
Di  squadronar  cavalli  e fanti.  11  solo 
Nestor  l’eguaglia,  perchè  d’anni  il  vince. 
Cinquanta  navi  ha  seco.  Unirsi  a queste 
Sei  altre  e sei  di  Salamina  uscite, 

Al  Telamonio  Ajace  obbedienti. 

Seguia  l’eletta  de’guerrier,  cui  d’Argo 
Mandava  la  pianura  e la  superba 
D’ardue  mura  Tirinlo  e le  di  cupo 
Golfo  custodi  ErnVionc  ed  Asine. 

Con  essi  di  Trezene  c della  lieta 


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LIBRO  II 


7'ti-7lk) 


Di  pampini  Epidauro  c d’Eionc 
Venia  la  squadra^  e dopo  questa  un  Gero 
Di  giovani  drappello , ebe  d’ Egina 
Laseiò  gli  seogli  e di  Masete.  A questi 
Tre  sono  i duei,  il  marzio  D'iomede, 
Sténelo,  dell’altero  Capando 
Diletta  prole,  e il  somigliante  a nume 
Eurialo,  Ggliuol  di  Mecistéo 
Talaionide.  Ma  del  eorpo  tutto 
Condottiero  supremo  è D'iomede: 

E sono  ottanta  di  eostor.  le  antenne. 

Ma  ben  cento  son  quelle,  a cui  comanda 
U regnatore  Agamennone  Atridc. 

Sua  seguace  è la  gente,  che  gl’  invia 
La  regale  Micene  c l’ opulenta 
Corinto,  c quella  della  ben  costrutta 
Cleono,  c quella,  che  d’Ornce  discende 
E dall’  amena  Arctiréa.  Nè  scarsa 
Fu  de’ suoi  Sic'ion,  seggio  primiero 
D’ Adrasto.  Anco  Ipcresia,  anco  l’eccelsa 
Gonoessa  e Pelleiic  ed  Egio  c tutte 
Le  marittime  prode,  e tutta  intorno 
D’  Elice  la  campagna  impoverirsi 
D’  abitatori.  E questa  truppa  è Core 
Di  gagliardi,  c la  più  di  quante  allora 
Schierarsi  in  campo.  D’arme  rilucenti 
Iva  il  duce  vestito , ed  esultava 
In  suo  segreto  del  vedersi  il  primo  • 

Fra  tanti  eroi:  c veramente  egli  era 
Il  maggior  di  quc’regi,  c conduceva 
Il  maggior  nerbo  delle  forze  achive. 

11  concavo  di  balze  incoronato 
Lacedemonio  suol.  Sparta  e Brisèc, 

E Fari  e Messa,  di  colombe  altricc, 

E Augie  , la  lieta  ^ e 1’ amiclèa  contrada, 
Etile  ed  Elo  al  mar  giacente  c Laa, 

Queste  tutte  spedir  sovra  sessanta 
Prore  i lor  Ggli  : c Menelao  li  guida , 
.'Vitanle  gucrricr.  Disgiunta  ei  tiene 
Dalla  fraterna  la  sua  schiera,  c forte. 


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ILUHE 


I-  781-810 


Del  suo  proprio  valor,  la  sprona  all  armi. 
Di  vendicar  su  i Teurri  impaziente 
L’  onta  e i sospir  della  rapita  Eléna. 

Di  novanta  navigli  capitano 
Veniva  il  veglio  cavalicr  Nestorre. 

DI  Pilo  ci  guida  e dell’  aprica  Arene 
Gli  abitanti,  e di  Trio,  guado  d’Alféo, 

E della  ben  fondata  Epi,  con  quelli, 

A cui  Ciparisscnte  c Anfigeni'a 
Sono  stanza,. c Pteléo  ed  Elo  c Dorio  , 
Dorio,  famosa  per  l’acerbo  .scontro. 

Che  col  tracio  Tamiri  ebber  le  Muse 
11  giorno,  che  d’ Ecalia  e dagli  alberghi 
Dell’  ccaliese  Eurito  ei  fea  ritorno. 
Millantava  costui,  che  vinte  avria 
Al  paragon  del  canto  anco  le  Muse , 

Le  Muse,  figlie  dell’  Egioco  Giove. 
Adirate  le  dive,  al  burbanzoso 
Tolser  la  luce  e il  dolce  canto  e 1’  arte 
Delle  corde  dilette  animatrice. 

Scguia  r arcade  schiera  dalle  falde 
Del  Cillcne  discesa  e dai  contorni 
Del  tumulo  d’Epito,  esperta  gente 
Nel  ferir  da  vicino,  liscia  con  essa 
Di  campestri  garaoni  una  caterva , 

Che  del  Fenéo  li  paschi  e il  pecoroso 
Orcomcno  lasciar.  V eran  di  Ripe 
E di  Strazia  i coloni  e di  Tegéa, 

E quei  d’Enispe  tempestosa,  e quelli. 
Cui  dell’  amena  Mantinéa  nutrisce 
L’opima  gleba  c la  stiufalia  valle 
E la  parrasia  selva.  Avean  costoro 
Spiegate  al  vento  di  cinquanta  e dicci 
Navi  le  vele , che  a varcar  le  negre 
Onde  lor  diè  lo  stesso  rege  Atride 
Agamennone  ^ perocché  di  studi 
Marinareschi  all’Arcade  non  cale. 

D’ intrepidi  nell’  arme  e .spelli  pelli 
Iva  cavea  ciascuna:  e le  reggea 
IVAncéo  figliuolo,  il  rege  Agapcnorre. 


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8ai-8^ìo 


LIBRO  11 


53 


La  squadra,  che  consegue,  e si  divide 
Quadripartita,  ha  quattro  duci,  e ognuno 
À dicci  navi  accenna.  Le  montaro 
Molti  Kpei  valorosi,  e gli  abitanti 
Di  Buprasio  e del  sacro  eleo  paese, 

E di  tutto  il  terren , che  tra  il  confine 
Di  Mirsino  ed  Irmino  si  racchiude, 

E tra  l’Olcnia  rupe  e 1’  erto  Alisio. 

Di  Cteato  figliuol,  l’illustre  ÀnfTmaco, 

Guida  il  primo  squadron.  Talpio  il  secondo, 
Egregio  seme  dell’Eui'ito  Attóride; 

Diore  il  terzo,  generosa  prole 
D’Amarincéo.  Del  quarto  è correttore 
Il  simigliante  a nume  Polisseno, 

Germe  dell’ Augci'ade  Agastene. 

Ai  forti  di  Dulichio  e delle  sacre 
Echinadi  isolette,  che  rimpctto 
Alle  contrade  elee  rompon  1’  opposto 
Pelago,  a questi  è condottici-  Megcte, 

Di  sembiante  guerrier  pari  a Gradivo. 

Il  generò  Filco,  diletto  a Giove, 

Buon  cavalier,  che  dai  paterni  un  giorno 
Odj  sospinto , alla  dulichia  terra 
Migrò  fuggendo,  e v’  ebbe  impero.  Il  figlio 
Quaranta  prore  ad  Ih'on  guidava. 

Dei  prodi  Cefaleni , abitatori 
D’ Itaca  alpestre  e di  Nerito  ombroso, 

Di  Croeiléa,  di  Sanio  e di  Zacinto 
E dell’aspra  Egelipe  e dell’  opposto 
Continente,  di  tutti  è duce  Ulisse, 

Vero  senno  di  Giove:  e lo  scguiéno 
Dodici  navi  di  vermiglio  pintc. 

Nc  spinge  in  mar  quaranta  il  capitano 
Degli  Etòli,  Toante,  a cui  fu  patire 
Andremone^  e traea  seco  le  torme 
Di  Pleiirone  , d’Oleno  e di  Pilenc, 

Quelle  dell’aspra  Calidone  e quelle 
Di  Calcide.  E raccolta  era  in  Toante 
Degli  Etòli  la  somma  signoria  , 

Da  che  la  Parca  i figli  ebbe  percosso 


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lUÀDE 


i>.  86 1-4)00 


Del  magnanimo  En^o,  posto  col  biondo 
Meleagro  infelice  ci  pur  sotterra. 

11  gran  mastro  di  lancia,  Idomenéo, 
Guida  i Cretesi,  che  di  Gnosso  uscirò, 

Di  Litto,  di  Mileto  e della  forte 
Gortina  e della  candida  Licasto 
E di  Pesto  e di  Rizio,  inclite  tutte 
Popolose  contrade,  ed  altri  molti 
Deir  alma  Creta  abitator,  di  Creta, 

Che  di  cento  città  porta  ghirlanda. 

Di  questi  tutti  Idomenéo  divide 
Col  marzio  Merion  la  gloriosa 
Capitananza:  e ottanta  navi  han  seco. 

Nove  da  Rodi  ne  varàr  gli  alteri 
Rodiani  per  l’isola  partiti 
In  triplice  tribù:  Lindo,  Jaliso, 

E il  biancheggiante  di  tcrrcn  Camiro. 

L’ Eràclide  Tlepdlcmo  è lor  duce, 

Graude  e robusto  battaglier,  che  al  forte 
Ercole  un  giorno  AstVochéa  produsse. 

Cui  d’  Efira  e dal  fiume  Scllcente 
Seco  addusse  l’eroe,  poiché  disb-utto 
V’  ebbe  molte  cittadi  e molta  insieme 
Gioventù  generosa.  Entro  i paterni 
Fidi  alberghi  Tlcpólcmo  cresciuto. 

Di  subitaneo  colpo  a morte  mise 
Licinnio,  al  padre  avuncolo  diletto, 

E canuto  guerrier.  Ratto  costrussc 
Alquante  navi  l’uccisore;  e,  accolti 
Molti  compagni,  si  fuggì  per  Tonde, 
L’ira  vitando  e il  minacciar  degli  altri 
Figli  e nipoti  dell’erculeo  scrac. 

Dopo  crror  molti  e stenti,  i fuggitivi 
Toccar  di  Rodi  il  lido;  e qui,  divisi 
Tutti  in  tre  parti,  posero  la  stanza: 

E il  gran  re  de’  mortali  e degli  Dei 
Li  dilesse,  e su  lor  piovve  la  piena 
/ D’ infinita  mirabile  ricchezza. 

Niréo  tre  navi  conducca  da  Siraa, 

Niréo  , d’Aglaja  figlio  c di  Campo, 


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UBRO  II 


55 


Nirco,  (li  quanti  iiavigaro  a Truja, 

11  più  vago,  il  più  l)fl,  dopo  il  Pelidc 
Beltà  perfetta.  Ma  un  imbelle  egli  era: 

E turba  lo  seguia  di  pochi  oscuri. 

Quei , che  tcnean  Nisiro  e Caso  c Crnpato 
E Coo,  seggio  d’  Euripilo  , e le  prode 
Dell’ isole  Calidne,  il  cenno  regge 
D’Antifo  c di  Fidippo,  ambo  bgliuoli 
Di  Tessalo  Eraclide  : e trenta  navi 
Aravano  a costor  1’  onda  marina. 

Ditene  adesso,'  o Dive,  i valorosi 
D’Ale  e d’Alope  e del  pelasgic’Argo 
E di  Trachine;  nè  di  Ftìa,  nè  d’Éllade, 

Di  bellissime  donne  educatrice. 

Gli  eroi  tacete, 'Mirmidon  chiamati, 

Ed  Elleni  ed  Achei:  sopra  cinquanta 
Prore  a costoro  è capitano  Achille. 

Ma  di  guerra  in  que’cor  tace  il  pensiero; 
Ch’ei  più  non  hanno  chi  a pugnar  li  guidi. 
Il  divino  Peli'de  appo  le  navi 
Neghittoso  si  giace , c della  tolta 
Brtseide  l’ ira  si  smaltisce  in  petto, 

Bella  di  belle  chiome  alma  fanciulla. 

Che.  in  Lirnessu  ei  s’ avea  con  molto  affanno 
Conquistata  per  mezzo  alla  ruina 
Di  Lirnesso  e di  Tebe,  a morte  spìnti 
Del  bellicoso  Eveno  ambo  i figliuoli , 
Epistrofo  e Minete.  Per  costei 
Languia  nell’ozio  il  mesto  eroe;  ma  il  giorno 
Del  suo  destarsi  all’  armi  era  vicino. 

Quei,  che  Filàcc  e la  fiorita  Pirraso, 
Terra  a Cerere  sacra,  e la  feconda 
Di  molto  gregge  Itóne,  e quei,  che  manda 
La  marittima  Antrone  e di  Pteléo 
L’erboso  suol,reggea,  mentre  che  visse, 

Il  marz'ial  Protcsilao.  Ma  lui 
La  negi'a  terra  allor  chiudea  nel  seno; 

E la  moglie  i'n  Filàce  derelitta 
Le  belle  gote  lacerava,  e tutta 
Vedova  del  suo  re  piangea  la  casa. 


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5(i 


ILIADE 


'■  9Ìi-9*o 


Primo  ci  balzossi  dalle  navi,  e primo 
Trafitto  cadde  dal  dardanio  ferro. 

Ma  senza  duce  non  restò  sua  schiera^ 

Chè  Podarce  or  la  guida,  esimio  figlio 
Del  Filacide  Ificlo,  che  di  pingui 
Lanose  torme  avea  molta  ricchezza. 

Del  magnanimo  ucciso  era  Podarce 
Minor  germano;  ma  perchè  quel  grande 
Non  pur  d'anni  il  vincea,  ma  di  prodezza, 
L’  egregio  estinto  duce  era  pur  sempre 
Di  sua  schiera  il  desio  ; di  questa  squadra 
Son  quaranta  le  navi  in  ordinanza. 

Gli  ahitator  di  Fere,  appo  il  bebeo 
Stagno,  e quelli  di  Bebé  e di  Glafira 
E dell'alta  Jaolco  avean  salpato 
Con  undici  navigli.  Eumelo  è duce, 

Germe  caro  d' Admeto,  e la  divina 
Infra,  le  donne  Alcesti  il  partono. 

Delle  figlie  di  Pelia  la  più  bella. 

Di  Mctonc,  Taumàcia  c Melibca 
E dell'  aspra  Olizonc  era  venuto 
Con  sette  prore  un  ficr  drappello,  e carca 
Di  cinquanta  gagliardi  era  ciascuna. 

Sporti  di  remo  c d'  arco  e di  battaglia. 
Famoso  arciero  li  reggea  da  prima, 

Filottetc  ; ma  questi  egro  d'  acuti 
Spasmi  ora  giace  nella  sacra  Lenno, 

Ove,  da  tetra  di  pestifer  angue 
Piaga  offeso , gli  Achei  1'  abbandonaro. 

Ma  dell'  afllitto  eroe  gl'  ingrati  Argivi 
Ricorderansi , e in  breve.  Intanto  il  fido 
Suo  stuol  si  strugge  del  desio  di  lui; 

Ma  non  va  senza  duce  : lo  governa 
Mcdoii  cui  spurio  figlio  ad  O'ilèo, 

Eversor  di  città  , Rena  produsse. 

Quc'poi,  clic  Tricca  c la  scoscesa  Home 
Ed  Ecalia  tcncan , seggio  d’  Eurito, 
llan  capitani  d' Esculajn'o  i figli, 

Della  paterna  medie'  arte  entrambi 
Sporti  assai,  Podalirio  t Macaone: 


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LtBRO  II 


57 


••  (>B|>1020 

Fan  trenta  navi  di  costor  la  schiera. 

Ormenio,  Asterio  c l’ iperée  fontane, 

E del  Titano  le  candenti  cime 

I lor  prodi  mandar  sotto  il  comando 
Del  chiaro  figlio  d’ Evemone,  Euripilo, 

Da  quaranta  carene  accompagnato. 

D’Argissa  c di  Girton,  d’ Òrto  c d’Elona 
E della  bianca  Oloossona  i figli 
Procedono  suggetti  al  fermo  e forte 
Polipete,  figliuol  di  Piritóo, 

Del  sempiterno  Giove  inclito  seme^ 

E generollo  a Piritdo  T illustre 
Ippodamia  quel  di,  che  dei  bimembri 
Irti  Centauri  ei  fe  l’alta  vendetta, 

E li  cacciò  dal  Pclio,  e agli  Eticesi 
Li  confinò.  Nè  solo  è Polipete, 

Ma  seco  è Lcontèo,  marzio  germoglio 
Del  Cenide  magnanimo  Corone: 

E questa  è squadra  di  quaranta  antenne. 

Venti  da  Cifo  c due  Gunéo  né  guida 
D’  En'ieni  onerose  e di  Perebi , 

Franchi  soldati,  e di  color,  che  intorno 
Alla  fredda  Dodona  avean  la  stanza, 

E di  quelli , che  solcano  gli  ameni 
Campi  cui  l’onda  titarcsia  irriga. 

Rivo  gentil,  clic  nel  Penéo  devolve 
Le  sue  bell’  acque,  nè  però  le  mesce 
Con  gli  argenti  penéi,  ma  vi  galleggia 
Come  liquida  oliva;  ebe  di  Stige 
( Giui-amento  tremendo  ) egli  è ruscello. 

Ultimo  vicn  di  Tentredone  il  figlio, 

II  veloce  Protóo,  duce  ai  Magneti , 

Dal  bel  Penéo  mandati  c dal  frondoso 
Pelio:  il  seguian  quaranta  navi.  E questi 
Fur  dell’  acbiva  annata  i capitani. 

Dimmi  or,-  Musa,  dii  fosse  il  più  valente 
Di  tanti  duci  e de’ cavalli  insieme. 

Che  gli  Atridi  seguir.  Prestanti  assai 
Eran  le  ferez'iadi  puledre, 

Ch’  Eumelo  maneggiava,  agili  c ratte 


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58 


ILIADE 


Come  penna  d'augello,  ambe  d’un  pelo, 

D'  età  pari  e di  dosso  a dritto  filo. 

Il  vibrator  del  curvo  arco  d’  argento , 

Febo,  cducolle  ne’ pierj  prati, 

C portavan  di  Marte  la  paura 
Nelle  battaglie.  Degli  eroi  primiero 
Era  l’Ajace  Tclamonio,  mentre 
Perseverò  nell’  ira  il  grande  Achille, 

Il  più  forte  di  tutti;  c innanzi  a tutti 
Ivan  di  pregio  i corridor  portanti 
L’ incomparabil  Tessalo.  Ma  questi 
Nelle  ricurve  navi  si  giacca 
Inoperoso,  e sempre  spirante  ira 
Contro  l’Atride  Agamennone.  Intanto , 
Lunghesso  il  mare,  al  disco,  all’asta,  all' arco 
1 suoi  guerrieri  si  prcndean  diletto. 

Oziosi  i cavalli  appo  i lor  cocchi 
Pasccano  1’  apio  paludoso  c il  loto  ; 

E i cocchi  si  giacean  coperti  c muti 
Nelle  tende  dei  duci;  e i duci  istessi. 

Del  bellicoso  eroe  desiderosi, 

Givan  pel  campo  vagabondi  c inerti. 

Movean  le  schiere  intanto,  in  vista  eguali 
A un  mar  di  foco  innondator,  che  tutta 
Divorasse  la  terra;  ed  alla  pesta 
De’ trascoirenti  piedi  il  suol  s’udia 
Rimbombar.  Come  quando  il  fulminante 
Irato  Giove  Inarime  flagella  , 

Duro  letto  a Tiféo,  siccome  è gi'ido; 

. Cosi  de’  passi  al  suon  gemea  la  terra. 

Mentre  il  campo  traversano  veloci 
Gli  Achei,  col  piò  che  i venti  adegua,  ai  Teucri 
Iri  discese  di  feral  novella 
• Apportatrice,  c la  spedia  di  Giove 
Un  comando.  Tcnean  questi  consiglio 
Giovani  c vecchi,  congregati  tutti 
Ne’  regali  vestiboli.  Mischiossi 
Tra  lor  la  Diva,  di  Polite  assunta 
L’  apparenza  e la  voce.  Ei'a  Polite 
Di  Priamo  un  figlio,  che,  del  piè  fidando 


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LIBRO  II 


59 


Nella  prestezza,  stavasi  de’  Teucri 
Esploratore  al  monumento  in  cima 
Dell’  antico  Esiela , e vi  spiava 
Degli  Achivi  la  mossa.  In  queste  forme 
Trasse  innanzi  la  Diva^  e al  re  conversa: 
Padre,  disse,  che  fai?  Sempre  a te  piace 
11  molto  sermonar  come  ne’  giorni 
Della  pace^  nè  pensi  alla  ruina, 

Che  ne  sovrasta.  Molte  pugne  io  vidi, 

Ma  tali  e tante  non  vid’  io  giammai 
Ordinate  falangi.  Numerose 
Al  pari  delle  foglie  c dell’  arene 
Procedono  nel  campo  a dar  battaglia 
Sotto  Troja.  Tu  dunque  primamente, 
Ettore,  ascolta  un  mio  consiglio,  c il  poni 
Ad  effetto.  Nel  sen  di  questa  grande 
Città  diversi  di  diverse  lingue 
Abbiam  guerrieri  di  soccorso  : ognuno 
De’  lor  duci  si  ponga  alla  lor  testa, 

E tutti  in  punto  di  pugnar  li  metta. 

Conobbe  Ettorre  della  Dea  la  voce, 

E di  subito  sciolse  il  parlamento. 

Corrcsi  all’ armi  ^ si  spalancan  tutte 
Le  porte,  e folti  sboccano  in  tumulto 
Fanti  e cavalK.  Alla  città  rimpetto 
Solitario  nel  piano  crge'si  un  colle, 

A cui  s’  ascende  d’  ogni  parte  ; è detto 
Da’ mortai  Bat'iéa,  dagl’immortali 
Tomba  dell’  agilissima  Mirinna. 

Ivi  i Teucri  schierarsi  e i collegati. 

Capitan  de’  Trojani  è il  grande  Ettorre, 

D’  eccelso  elmetto  agita  tor.  Lo  segue 
De’  più  forti  guerrier  schiera  inGnita 
Coll’  aste  in  pugno  di  ferir  -bramose. 

Ai  Dàrdani  comanda  il  valoroso 
Figliuol  d’Anchise,  Enea,  cui  la  divina 
'Venere  in  Ida  partorì,  commista 
Diva  immortale  ad  un  mortai^  ned  egli 
Solo  comanda,  ma  ben  anco  i due 
Antenóridi,  .\rchiloco  c Acamante. 


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6o 


IL1A.DE 


V.  1101-1 1^0 


In  tutte  guise  ili  battaglia  esperti. 

Quei , che  dell’  Ida  alle  radici  estreme 
Hanno  stanza  in  Zelila  ricchi  Trojani, 

La  profonda  beventi  acqua  d'Àsepo, 

Pandaro  guida , licaonio  figlio , 

Cui  fe  dono  dell’  arco  Apollo  istcsso. 

Della  città  d’Apesio  e d’Adrastéa, 

Di  Pitica  la  gente  e dell’eccelsa 
Perca  montagna  han  duci  Adrasto  ed  Anfio  , 
Corazzato  di  lino,  ambo  rampolli 
Di  Meropc  Pcrcosio.  Era  costui 
Divinator  famoso,  ed  a’  suoi  figli 
Non  consentia  1’  andata  all’  omicida 
Guerra.  Ma  i figli  non  1’  udìr^  cbè  nero 
A morir  li  traca  fato  crudele. 

Mandar  Percote  e Prazio  e Sesto  e Abido 
E la  nobile  Arisba  i lor  guerrieri  : 

Ed  Asio  li  conduce,  Asio,  figliuolo 
D’Irtaco,-c  prence,  che  d'Arisba  venne 
Da  fervidi  portato  alti  cavalli , 

Alla  riviera,  sellcntéa  nudriti. 

Dalla  pingue  Larissa  i furibondi 
Lanciatoci  pclasghi  Ippótoo  mena 
Con  Pilco,  bellicosi  ambo  germogli 
Del  pelasgico  Leto  Tcutamidc. 

Acamantc  e 1’  eròe  duce  Piróo 
I Traci  conducean  quanti  ne  serra 
L’estuoso  Ellesponto^  ed  i Cleoni, 

Del  giavellotto  vibratori,  Eufemo, 

Del  Ceade  Trezeno  alto  nipote; 

Poi  Pirccnie  i Peóni,  a cui  sul  tergo 
Suouan  gli  archi  ricurvi,  e gli  spedisce 
La  rimota  Amidone,  c l’Assio,  fiume 
Di  larga  correntia,  l’Assio,  di  cui 
Non  si  .spande  ne’  campi  onda  più  bella. 

Dall’  éncto  paese , ov’  è la  razza 
Dell’  indomite  mule,  conducea 
Di  Pilcmcne  1’  animoso  petto 
I Paflagoni,  di  Citoro  e Sesamo 
E di  splendide  case  abitatori 


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LIBRO  II 


11^1-1173 

Lungo  le  rive  del  Partenio  fiume, 

E d’  Egiàlo  e di  Cromna  e dell’  eccelse 
Balze  criline.  Li  scguia  la  squadra 
Degli  Alizoni,  d'Alibe  discesi, 

D’AIibe  , ricca  dell’argentea  vena. 

Duci  a questi  eran  Hodio  ed  Epistrófo, 

E Cromi  ai  Misj  c l’indovino  Eunòmo. 

Ma  con  gli  auguri  misero  non  seppe 
Schivar  la  Parca  : sotto  1’  asta  ei  cadde 
Del  Peli'de  quel  dì,  che  di  nemica 
Strage  vermiglio  lo  Scamandro  ei  fece. 

Porci  ed  Ascanio  deiforme  al  campo 
Dall’Ascania  tracan  le  frigie  torme  , 

Di  commetter  battaglia  impazienti. 

Di  Pilemene  i figli,  Antifo  e Mcstlc, 

Alla  gigéa  palude  partoriti. 

Ai  Meonj  cran  duci , a quelli  ancora , 

Che  alla  falda  del  Tmolo  ebber  la  vita. 

Quindi  i Carj  di  barbara  favella , 

Di  Mileto  abitanti  c del  frondoso 
Monte  de’  Ftiri  e del  meandrio  fiume 
E dell’  erte  di  Mirale  pendici. 

Anfimaco  a costor  con  Naste  impera, 

Figli  di  Nomion:  Naste , un  prudente^ 
Anfimaco,  un  insano.  Iva  alla  pugna 
Carco  d’oro  costui  come  fanciulla: 

Stolto  ! che  1’  oro  allontanar  non  seppe 
L’  atra  morte,  che  il  giunse  allo  Scamandro. 
Ivi  il  ferro  achilleo  lo  stese,  e 1’  oro 
Preda  del  forte  vincitor  ritnase. 

Venian  di  Licia  alfine  e dai  rimoti 
Gorghi  del  Xanto  i Licj:  e li  guidava 
L’incolpabile  Glauco  e Sarpedontc. 


r.iimo  TERZO 


ARGOMENTO 


I du<*  rtrrcili  sono  3 fmiile.  Pamlr  rctrurudo  4IU  «i>U  di  Uani{)0^i)4l«>  lU  Ettorr, 

Moflrr  Hi  venire  a duello  con  Menelao,  a |iatlo  ehe  il  vinrilnre  abbiati  Elena  e i tuoi  tesori. 
Rlena  per  roosiglin  d’iride  viene  a vedere  il  cooil>attimmto  dalla  torre  della  p^a  Sre«,  ove 
slava  Pnainu  in  eonijugnia  d’aleuni  «eeihs  trojani.  Ella  mostra  al  suocero  i raptUni  greci.  Ap- 
parecchio e palli  del  ducilo  cunrermati  nm  gìiiranteoto  da  Agamennone  e da  Pnamo.  Si  lom- 
lastte.  Paride,  nel  ptinlo  di  essere  urrisoda  MencLo,  è salvato  da  Venere,  else  rìnlo  di  ocltbia 
lo  trasporta  nel  suo  palagio.  Klrna,  avvertita  iLdla  Dea  medesima,  vieu«  a ritmvarlu,  e lo 
garrisev  di  viltà.  1 due  conjugi  si  ra^tpalluinano.  Agamennone  dichiara  vincilure  Meiwlan , * 
chiede  l'adempimento  dei  palli. 


Poiché  sotto  i lor  duci  ambo  schierati 
Gli  eserciti  si  fur,  mosse  il  trojano 
Come  stormo  d’augei,  forte  gridando 
E schiamazzando , col  romor  che  mena 
Lo  squadron  delle  gru,  quando,  del  verno 
Fuggendo  i nembi,  l’oceàn  sorvola 
Con  acuti  clangori,  e guerra  e morte 
Porta  al  popol  pigmeo.  Ma  taciturni , 

E spiranti  valor  marciali  gli  Achivi , 

Pronti  a recarsi  di  conserto  aita. 

Come  talor  del  monte  in  su  la  cim.T 
L)i  Scirocco  il  soffiar  spande  la  nebbia 
■\1  pastore  odiosa,  al  ladro  cara 
Più  che  la  notte,  nè  va  lungc  il  guardo 
Più  che  tiro  di  jiictra^  a questa  guisa 
Si  destava  di  jiolvc  una  procella 
Sotto  il  piè  de’ guerrieri , che  veloci 
L’aperto  campo  trascorrcan.  Venuti 
Di  poco  spazio  l’un  dell  altro  a fn>iiU 
Gli  eserciti  nemici,  ecco  Alessandro 


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• ai-6o 


ILIADE,  LIBHO  IH 

Nelle  prime  apparir  file  trojaue 
Bello  come  un  bel  Dio.  Portava  indosso 
Una  pelle  di  pardo , ed  il  ricurvo 
Arco  e la  spada  ^ e due  dardi  guizzando 
Ben  ferrati  ed  aguzzi,  iva  de’ Greci 
Sfidando  i primi  a singoiar  conflitto. 

Il  vide  Menelao  dinanzi  a tutti 
Venir  superbo  a lunghi  passi;  e quale 
Il  cor  s’  allegra  di  li'on , che  visto 
Un  cervo  di  gran  corpo  o capriolo 
Spinto  da  fame  a divorarlo  intende, 

E il  latrar  de’ molossi,  c degli  audaci 
Villan  robusti  il  minacciar  non  cura; 

Tale  alla  vista  del  Trojan  leggiadro 
Esultò  Menelao.  Piena  sperando 
Far  sopra  il  traditor  la  sua  vendetta. 

Balza  armato  dal  cocchio;  e lui  scorgendo 
Venir  tra’ primi,  in  cor  turbossi  il  drudo, 

E della  morte  paventoso,  in  salvo 
Si  ritrasse  tra’ suoi.  Qual  chi  veduto 
In  montana  foresta  orrido  serpe, 

Risalta  indietro,  e per  la  balza  fugge 
Di  paura  tremante  e bianco  in  viso; 

Tal  fra  le  schiere  de’ superbi  Teucri, 

L’ira  temendo  del  figliuol  d’Àtréo, 
L’avvenente  codardo  retrocesse. 

Ettore  il  vide,  e con  ripiglio  acerbo 
Gli  fu  sopra,  gridando  : Ahi  sciagurato  ! 

Ahi  profumato  seduttor  di  donne, 

Vile  del  pari  che  leggiadro!  oh  mai. 

Mai  non  fossi  tu  nato,  o morto  fossi 
Anzi  ch’esscr  marito;  chè  tal  fora 
Certo  il  mio  voto,  c per  te  stesso  il  meglio, 
Più  che  carco  d’infamia  ir  mostro  a dito. 
Odi  le  risa  de’ chiomati  Achei, 

Che  al  garbo  dell’aspetto  un  valoroso 
Ti  suspicòr  da  prima,  e or  sanno  a prova. 
Che  vile  c fiacca  in  un  bel  corpo  hai  l’ alma. 
E vigliacco  qual  sei,  tu  il  mar  varcasti 
Con  eletti  compagni?  c visitando 


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64 


ILIADE 


V.  61-100 


Straniele  genti,  tu  dall’ apia  terra 
Donna  d’alta  beltà,  moglie  d’eroi, 

Rapir  potesti,  e il  padre  c Troja  e tulli 
Cacciar  nelle  sciagure,  agl' inimici 
Farli  bersaglio,  ed  infamar  te  stesso? 

Perchè  fuggi?  perchè  di  Menelao 
Non  attendi  lo  scontro?  Allor  saprai 
Di  qual  prode  guerrier  t’usurpi  e godi 
La  florida  consorte:  nè  la  cetra 
Ti  varrà,  nè  il  favor  di  Cilerea, 

Nè  il  vago  aspetto,  nè  la  molle  chioma, 
Quando  cadrai  riverso  nella  polve. 

Oh  fosser  meno  paurosi  i Teucri! 

Chè  tu  n’andresti  già,  premio  al  mal  fatto, 
D’un  guarncllo  di  sassi  rivestito. 

Ed  il  vago  a rincontro:  Ettore,  il  veggo, 

A ragion  mi  rampogni,  cd  io  t’ cscuso. 

Ma  quel  duro  tuo  cor  scure  somiglia. 

Che  ben  tagliente  una  navale  antenna 
Fende,  vibrata  da  gagliardi  polsi, 

E nerbo  e lena  al  fenditor  raddoppia. 

Non  rinfacciai'mi  di  Ciprigna  i doni; 

Chè,  qualunque  pur  sia,  gradito  e bello 
Sempre  è il  dono  d’un  Dio:  nè  il  conseguirlo 
È nel  nostro  volere.  Or  se  t’aggrada. 

Ch’io  scenda  a duellar,  fa  che  l’achee 
Squadre  e le  teucre  seggausi  tranquille, 

E me  nel  mezzo  e Menelao  mettete 
D’Elcna  armati  a terminar  la  lite, 

E di  tutto  il  tesor , di  eh’  ella  è ricca. 

Qual  si  vinca  di  noi,  s’abbia  la  donna 
Con  tutto  insieme  il  suo  regai  corredo , 

E via  la  meni  alle  sue  case;  e tutti 
Su  le  percosse  vittime  giurando 
Amistà,  voi  di  Troja  abiterete 
L’alma  terra  sccuri,  e quelli  in  Argo 
Faran  ritorno  e nell’Acaja  in  braccio 
Alle  vaghe  lor  donne.  — A questo  dire 
Brillò  di  gioja  Eltorre;  ed  elevando 
L’asta  brandita  e procedendo  in  mezzo. 


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LIDItO  lil 


. im-i4o 

Di  sostarsi  fu  cvuno  alle  sue  seliierc. 

Tutte  FOt  alto;  ma  gl'infesti  Achei 
A saettar  si  dicro  alla  sua  mira 
E dardi  c sassi,  infìn  che  forte  alzando 
La  voce  Agamennón:  Cessate,  ei  grida. 
Cessate,  Argivi;  non  vibrate,  Achei; 

Ch'egli  par  che  parlarne  il  bellicoso 
Ettore  brami.  — Riverenti  tutti 
Cessàr  le  oifesc,  e si  fur  queti.  Allora 
Fra  questo  campo  e quello  Ettor  si  disse  ; 

Trojani,  Acliivi,  dal  mio  labbro  udite 
Ciò  che  parla  Alessandro,  esso,  per  cui 
Fra  noi  surta  ed  accesa  è tanta  guerra. 

Egli  vuol  che  de’ Teucri  e degli  Achei 
Quete  stian  l’armi,  e sia  da  solo  a solo 
Col  bellicoso  Menelao  decisa 
D’Elena  la  querela,  e in  un  di  quanta 
Ricchezza  le  pcrtien.  Quegli  de’  due , 

Che  rimarrassi  vincitor,  si  preiufa 
La  bella  donna,  c in  sua  magiou  l’adduca 
Col  tutto  che  possiede  : e sia  tra  noi 
Con  saldi  patti  l’amistà  giurata. 

Disse;  c tutti  ammutir.  Ma  non  già  muto 
Si  restò  Menelao , che  doloroso  : 

Me  pur,  gridava,  me,  ine  pure  udite; 

Che  il  primo  offeso  mi  son  io.  Fra’ Greci 
Bramo  io  pur  diffinita , e fra’  Trojani 
Questa  lite  una  volta,  c le  sofferte 
Molte  sventure  per  la  mia  ragione, 

E per  l’oltraggio  d’Alessandro.  Or  quello 
Perisca  di  noi  due,  che  dalla  Parca 
È dannato  a perire;  e voi  con  pace 
Vi  separate.  Una  negr’agna  adunque 
Svenate,  o Teucri,  all'alma  Terra,  e un  agno 
Di  bianco  pelo  al  Sole  ; un  terzo  a Giove 
Oflrirassi  da  noi.  Ma  venga  all’ara 
La  maestà  di  Priamo,  e la  pace 
Ginri  egli  stesso  sulle  sacre  fibre 
(Cbè  spergiuri  per  prova  c senza  fede 
Io  conosco  i suoi  figli);  onde  protervo 
Mosti.  Iliade.  5 


ILIAOK 


Ncssuu  ili  Giove  i siui-ameuti  infranga. 
Incostante,  eom’aura,  è per  natura 
De’  giovani  il  pensici'^  ma  dove  il  senno 
Intervieii  de’ canuti,  a cui  presenti 
Son  le  passate  c le  future  cose. 

Ivi  è felice  d’ambe  parti  il  fine. 

Si  disse  ^ e rallegrò  Teucri  ed  Achei 
La  dolce  speme  di  finir  la  guerra. 

Schieraro  i cocchi,  e ne  sniontàr;  svestiti 
Quindi  dell’ armi,  le  adagiiir  su  l’erba, 

L’une  appresso  dell’ altre,  e breve  spazio 
Separava  le  schiere.  Alla  cittade 
Due  banditori,  a trarne  i sacri  agnelli 
E a chiamar  ratti  il  padre,  Ettore  invia; 

Invia  del  pari  il  rege  Agamennone 
.\lle  navi  Taltibio,  onde  la  terza 
Ostia  n’adduca:  e obbediente  ei  corse. 

Scese  intanto  dal  ciclo  ambasciatrice 
Iri  ad  Elétia  dalle  bianche  braccia. 

Della  cognata  Laodice  assunto 
11  sembiante  gentil,  di  Laodice, 

Che  pregiata  del  prence  Elicaone, 

D'Antenore  figliuolo,  era  consorte, 

E tra  le  figlie  priamee  tenuta 
La  più  vaga.  Trovolla,  che  tcssea 
\ doppia  trama  una  splendente  e larga 
Tela,  e su  quella  istoriando  andava 
Le  fatiche,  che  molte  a sua  cagione 
Solfriauo  i Teucri  e i loricati  Achei. 

La  Diva  innanzi  le  si  fece,  e disse: 

Sorgi,  sposa  diletta^  a veder  vieni 
De’Trojani  c de’ Greci  un  ammirando 
Spettacolo  improvviso.  Essi,  che  dianzi 
Di  sangue  ingordi  ìagrimosa  guerra 
Si  fean  nel  campo,  or  fatto  bau  tregua,  c queli 
Seggonsi  c curvi  su  gli  scudi  in  mezzo 
Alle  lunghe  lor  picche  al  suol  confitte. 
Alessandro  frattanto  e Menelao 
Per  te  coll’asta  in  singoiar  certame 
Combatteranno^  e tu  verrai  chiamata 


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...  ,»,-520  I-IBKO  111  l\-J 

Del  prode  vinellor  cara  consorlc. 

Con  questo  ragionar  la  Dea  le  mise 
Un  sùbito  nel  cor  dolce  desio 
Del  primiero  marito  e della  patria 
E de’ parenti.  Ond’clla  in  bianco  velo 
Prestamente  ravvolta,  c di  scgi-etc 
Tenere  .stille  rugiadosa  il  ciglio, 

Della  stanza  ii’ usciva,  c non  già  sola. 

Ma  due  donzelle  la  seguian,  Cliinene, 

Per  gi'and’ ocelli  lodata,  e di  Pittéo 
Etra  la  figlia.  Delle  porte  Scee 
Giunser  tosto  alla  torre,  ove  seduto 
Priamo  si  stava,  e con  lui  Lampo  c Clizio, 
Pantóo,  Tiinetc,  Icetaonc  e i due 
Spegli  di  senno,  Ucalegonte  e Anténore  , 

Del  popol  seniori , che  dell’armi 

Per  vecchiezza  deposto  avean  1’  ail'anno , 

Ma  tutti  egregi  dicitor,  sembianti 
Alle  cicadc,  che,  agli  arbusti  appese, 

Dell’arguto  lor  canto  empion  la  selva. 

Come  videe  venire  alla  lor  volta 
La  bellissima  donna  i vecchion  gi'avi 
Alla  torre  seduti,  con  soiniiiessa 
Voce  tra  lor  veniali  dicendo:  In  vero 
Biasmare  i Teucri,  nè  gli  Achei  si  deiiiio, 

Se  per  costei  si  diuturne  e dure 
Sopportano  fatiche.  Essa  all’aspetto 
Veracemente  è Dea.  Ma  tale  ancora 
Via  per  mar  se  ne  torni  ^ c in  nostro  danno 
Più  non  si  resti,  nè  de’ nostri  figli. 

Dissero;  e il  rege  la  chiamò  per  nome: 

Vieni,  Elena,  vien  qua,  figlia  diletta; 

Siedimi  accanto,  e mira  il  tuo  primiero 
Sposo  e i congiunti  e i cari  amici.  Alcuna 
Aon  hai  colpa  tu  meco,  ma  gli  Dei, 

Che  contra  mi  destar  le  lagrimose 

Arme  de’ Greci.  Or  drizza  11  guardo,  c dimmi 

Chi  sia  quel  grande  e maestoso  Acheo 

Di  si  bel  portamento.  Altri  l'avanza 

Ben  di  statura,  ma  non  vidi  al  mondo 


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GH 


ILIADE 


Maggior  decoro,  nè  mortale  io  mai 
Degno  di  tanta  riverenza  in  vista: 

Re  lo  dice  l’ aspetto.  — E la  più  bella 
Delle  donne  co.sì  gli  rispondca: 

Suocero  amato,  la  presenza  tua 
Di  timor  mi  riempie  e di  rispetto. 

Oh  scelta  una  crudel  morte  m’avessi, 

Pria  che  Torme  del  tuo  figlio  .seguire, 

11  maritai  mio  letto  abbandonando, 

E i fratelli  e la  cara  figliolctta 
E le  dolci  compagne!  Al  Ciel  non  piacque; 

E quindi  è il  pianto  che  mi  strugge..  Or  io 
Di  ciò,  che  chiedi,  ti  farò  contento. 

Quegli  è TAtride  Agamennónj  di  molte 
Vaste  contrade  corrcttor  supremo. 

Ottimo  re,  fortissimo  guerriero. 

Un  di  cognato  a me  donna  impudica, 

S’ unqua  fui  degna  che  a me  tale  ei  fosse. 

Disse  ^ cd  in  lui  maravigliando  il  vecchio 
Fisse  il  guardo,  e sciamò:  Beato  Atridc, 

Cui  nascente  con  fausti  occhi  miraro 
La  Parca  c la  Fortuna^  onde  il  comando 
Di  fior  tanto  d’eroi  ti  fu  sortito! 

Sovvieinmi  il  giorno  ch’io  toccai  straniero 
La  vitifera  Frigia.  Un  denso  io  vidi 
Popolo  di  cavalli  agitatore, 

Dell’inclito  Migdón  schiere  e d’Otréo, 

Che  poste  del  Sangario  alla  riviera 
Avean  le  tende;  cd  io  co’ miei  m’aggiunsi 
Lor  collegato,  e fui  del  numer  uno 
11  di,  che  a pugna  le  virili  Amàzzoni 
Discesero.  Ma  tante  allor  non  furo 
Le  frigie  torme,  no,  quante  or  l’achce. 

Visto  un  secondo  eroe,  di  nuovo  il  vecchio 
La  donna  interrogò:  Dinne  ehi  sia 
Quell’ altro,  o figlia.  Egli  è di  tutto  il  capo 
Minor  del  soiiiiiio  Agameiinón,  ma  parmi 
E del  petto  più  largo  e della  spalla. 

Gittate  ha  Tarmi  in  grembo  alTerba,  cd  egli 
Come  ariète  si  ravvolvc  c scoiTc 


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».  a$i«.VK> 


LIBRO  (il 


Tra  le  file  de' prodi:  e veramente 
Farmi  di  greggia  guidator  lanoso, 

Quando  per  mezzo  a un  branco  si  raggira 
Di  candide  belanti,  e le  conduce. 

Quegli  è l'astuto  lacrziade  Ulisse, 

La  donna  replicò,  là  nell'alpestre 
Suol  d' Itaca  nudrito^  uom,  che  ripieno 
Di  molti  ingegni  ha  il  capo  e di  consigli. 

Donna,  parlasti  il  ver,  soggiùnse  il  saggio 
Ànténore.  Spedito  a dimandarti 
Col  forte  Menelao  qua  venne  un  tempo 
Ambasciatore  Ulisse,  ed  io  fui  loro 
Largo  d’ospizio  e d'accoglienze  oneste, 

E d’ ambo  studiai  l’ indole  e il  raro 
Accorgimento.  Ma  venuto  il  giorno 
Di  presentarsi  nel  trojan  senato. 

Notai,  che,  stanti  l’uno  c l’altro  in  piedi. 

Il  soprastava  Menelao  di  spalla^ 

Ma,  seduti,  apparta  più  augusto  Ulisse. 

Come  poi  la  favella  e de’ pensieri 
Spiegàr  la  tela,  ognor  succinto  c pareo. 

Ma  concettoso,  Menelao  parlava^ 

Ch'uom  di  molto  sermone  egli  non  era. 

Nè  verbo  in  fallo  gli  cadea  dal  labbro. 
Benché  d’anni  minor.  Quando  poi  surse 
L’itaco  duce  a ragionar,  lo  scaltro 
Starasi  in  piedi  con  lo  sguardo  chino 
E confitto  al  terren;  nè  or  alto,  or  basso 
Movea  lo  scettro,  ma  tcnealo  immoto 
In  zotica  sembianza,  e un  dispettoso 
Detto  l’avresti,  un  uom  balzano  e folle. 

Ma  come  alfin  dal  vasto  petto  emise 
La  sua  gran  voce,  e simili  a dirotta 
Neve  invernai  piovean  l’alte  parole, 

Verun  mortale  non  avrebbe  allora 
Con  Ulisse  conteso:  e noi  ponemmo 
La  maraviglia  di  quel  suo  sembiante. 

Qui  vide  un  terzo  il  re  d’ eccelso  c vasto 
Corpo,  ed  inchiese:  Chi  quell’ altro  fia. 

Che  ha  membra  di  gigante,  e va  sovrano 


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Degli  omeri  e del  capo  agli  altri  tutti  l — 

Il  grande  Ajacc.  rispondca  racchiusa 
Nel  fluente  suo  vel  la  dia  Laccna, 

Ajacc,  ròcca  degli  Achei.  Qucll'altro 
Dall'altra  banda  è Idomenéo;  lo  vedi? 

Ritto  in  piè  fra’ Cretensi , un  Dio  somiglia, 
K de’ Cretensi  gli  fan  cerchio  i duci. 

Spesso  ad  ospizio  nelle  nostre  case 
L’accolse  IVlcnelao;  ben  lo  ravviso, 

R ravviso  con  lui  tutti  del  greco 
Campo  i primi^  e potrei  di  ciascheduno 
Dir  anco  il  nome.  Ma  li  due  non  veggo 
Mici  germani  gemelli,  incliti  duci, 

Castore  , di  cavalli  domatore, 

R il  valoroso  lottator  Polluce. 

Forse  di  Sparta  non  son  ci  venuti; 

O venuti , di  sè  nelle  battaglie 

Nicgan  far  mostra,  del  mio  scorno  ahi!  fors 

V<-rgognosi,  c dell’onta  che  mi  copre. 

Co.si  parlava;  nè  sapea  che  spenti 
Il  diletto  di  Sparta  almo  terreno 
Lor  patrio  nido  li  chiudea  nel  grembo. 

Vcuian  recando  i banditori  intanto 
Dalla  città  le  sacre  ostie  di  pace. 

Due  trascelti  agnelletti,  e della  terra 
Giocondo  frutto  generoso  vino 
Chiuso  in  otre  caprigno.  Il  messaggicro 
Ideo  recava  un  fulgido  cratere , 

Rd  aurati  bicchier.  Giunto  al  cospetto 
Del  re  vegliardo,  .si  l’invita,  e dice  : 

Sorgi,  iìgliuol  laomedontéo;  nel  campo 
Ti  chiamano  de’ Teucri  e degli  Achei 
Gli  ottimati  a giurar  1'  ostie  percosse 
D’un  accordo.  Alessandro  c Menelao 
Disputeransi  colle  lunghe  lande 
L’acquisto  della  sposa:  e questa  e tutte 
Sue  dovizie  daransi  al  vincitore. 

Noi,  patteggiando  un’amistà  fedele, 

Ilio  sccuri  abiteremo,  c in  Argo 
Daraii  volu  gli  Achei.  Si  disse:  e strinse 


l.lttRO  III 


Il  cor  del  vecchio  la  pietà  del  figlio, 

A’  suoi  sergenti  nondimcn  comanda 
D’ aggiogargli  i destrieri:  e quelli  al  cenno 
Pronti  obbedirò.  Montò  Priamo,  e indietro 
Tratte  le  briglie,  fe  .su  l'alto  cocchio 
Salirsi  al  fianco  Antenore.  Drizzaro 
Fnor  delle  Scce  nel  campo  i corridori. 
De’Troi  giunti  al  cospetto  e degli  Achei. 
Scesero  a teira,  e fra  Fun  campo  e F altro 
Procedean  venerandi.  Ad  incontrarli 
Tosto  rizzossi  Agamennón,  rizzossi 
L’accorto  Ulisse,  c i risplendenti  araldi 
Tutto  venian  frattanto  apparecchiando 
Dell’accordo  il  bisogno,  e nel  cratere 
Mcscean  le  sacre  spume.  Indi  de’ regi 
Dieder  l’acqua  alle  mani;,  e Agamennone  , 
Tratto  il  coltello,  che  alla  gran  vagina 
Della  spada  portar  solca  sospeso  , 

De’ consccrati  agnei  recise  il  ciuifo: 

F,  quinci  in  giro  e quindi  distributo 
Fu  dagli  araldi  il  sacro  pelo  ai  duci , 
De’quai  nel  mezzo  Agamennón,  levando 
E la  voce  e le  man,  supplice  disse: 

Giove,  d’Ida  signor,  massimo  padre. 

E sovra  ogni  altro  glorioso  Iddio, 

Sole,  che  tutto  vedi  e tutto  ascolti, 

Alma  Tellure  genitrice,  c voi 

Fiumi,  c voi,  che  punite  ogni  spergiuro 

Laggiù  nel  morto  regno,  inferni  Dei, 

.Siate  voi  testimoni  e in  un  custodi 
Del  patto,  che  giuriam.  Se  a Menelao 
Darà  morte  Alessandro,  egli  in  sua  possa 
Elena  e tutto  il  suo  tcsor  si  legna; 

E noi  spedito  promettiam  ritorno 
Su  F ondivaghe  prore  al  patrio  lido. 

Ma  se  avverrà,  che  Menelao  di  vita 
Spogli  Alessandro,  i Teucri  allor  la  donna 
Ne  renderanno,  e l’aver  suo  con  ella. 
Pagando  ammenda,  che  convegna,  c tale. 
Che  ne  passi  il  ricordo  anco  ai  futuri. 


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7*  ILIADE  „ 181-4,0 

Se  Pn'nmo  c i figli  suoi,  spento  Alessandro , 
Negheran  di  pagarla,  io  qui  coll’arme 
Sosterrò  mia  ragione , e riraarrovvi 
Finché  punito  il  mancator  ne  sia. 

Disse  4 c col  ferro  degli  agnelli  incise 
Le  mansuete  gole,  e palpitanti 
Sul  terren  li  depose  e senza  vita. 

Ciò  fatto,  il  sacro  di  Lieo  licore 
Dal  cratère  attignendo,  agrimmortali 
Fean  colle  tazze  libagioni  e voti; 

E qualche  Teucro,  e qualche  Acheo  s’ intese 
In  questo  mentre  cosi  dire:  O sommo 
Augustissimo  Giove,  e voi  del  ciclo 
Dii  tutti  quanti,  udite:  A ehi  primiero 
Rompa  l’accordo,  sia  Trojano  o Greco, 

Possa  il  ccrèbro  distillarsi , a lui 
Ed  a’ suoi  figli,  al  par  di  questo  vino, 

E adultera  la  moglie  ir  d’altri  in  braccio. 

Così  pregar;  ma  chiuse  a cotal  voto 
Giove  l’orecchio.  Il  re  dardanio  allora: 

Uditemi,  dicca.  Teucri  ed  Achei: 

Alla  cittadc  io  riedo.  A qual  de’ due 
Troncar  debba  la  Parca  il  vital  filo. 

Sol  Giove  c gli  altri  Sempiterni  il  sanno. 

Ma  contemplar  del  fiero  Atride  a fronte 

Un  amato  figliuol,  vista  sì  cruda 

Gli  occhi  d’un  padre  sostener  non  ponilo. 

Sì  dicendo,  sul  cocchio  le  .sgozzate 
Vittime  pose  il  venerando  veglio; 

E ascesovi  egli  stesso,  c tratte  al  petto 
Le'  pieghevoli  briglie , al  par  con  seco 
Fc  Antenore  salire,  e via  con  esso 
Al  ventoso  Ilìon  si  ricondusse. 

Ettore  allora  primamente  è Ulisse 
Misurano  la  lizza.  Indi  le  sorti 
Scosser  nell’elmo  a chi  primicr  dovesse 
L’asta  vibrar.  L’un  campo  intanto  e l’altro. 

Le  mani  alzando,  supplicava  al  Ciclo, 

E qualche  labbro  bisbigliar  s’udi'a: 

Giove  padre,  clic  grande  c glorioso 


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V.  431-)^  LIBRO  III  y3 

Godi  in  Ida  regnar,  quello  de’ due, 

Che  tra  noi  fu  cagion  di  sì  gran  lite, 

Fa  che  spento  precipiti  alla  cupa 
Magion  di  Fiuto,  ed  uiia  salda  a noi 
Amistà  ne  concedi  e patti  eterni. 

Fra  questo  supplicar  l’elmo  squassava 
Ettór,  guardando  addietro:  ed  ecco  uscire 
Di  Paride  la  sorte.  Allor  s’ assise 
Al  suo  posto  ciascun,  vicino  a’suoi 
Scalpitanti  destrieri  e alle  giacenti 
Armi  diverse.  Della  ben  chiomata 
EIcna  intanto  l’avvenente  sposo, 

Alessandro , di  fulgida  armatura 
Tutto  si  veste.  E pria  di  bei  schinieri. 

Che  il  morso  costrignea  d’argentea  fibbia. 

Cinse  le  tibie.  Quindi  una  lorica 
Del  suo  germano  Licaon,  che  fatta 
Al  suo  sesto  parea,  si  pose  al  petto. 

All’ òmero  sospese  il  brando,  ornato 
D’ argentei  chiovi  ^ un  poderoso  scudo 
Di  grand’orbe  imbracciò^  chiuse  la  fronte 
Nel  ben  temprato  e lavorato  elmetto , 

A cui  d’ equine  ehiome  in  su  la  cima 
Alta  una  cresta  orribilmente  ondeggia. 

Ultima  prese  una  robusta  lancia. 

Che  tutto  empieagli  il  pugno.  In  questo  mentre 
Del  par  s’armava  il  bellicoso  Atride. 

Di  lor  tult’arme  accinti  i due  guerrieri, 

S’  appresentàr  nel  mezzo , e si  guataro 
Biechi.  Al  vederli,  stupor  prese  e tema 
I Dàrdani  e gli  Achei.  L’un  contra  l’altro 
L’astc  squassando  al  mezzo  dell’arena, 

S’ avvicinar  sdegnosi;  ed  il  Trojano 
Primier  la  lunga  e grave  asta  vibrando. 

La  rotella  colpì  del  suo  nemico. 

Ma  non  forolla;  chè  la  buona  targa 
Rintuzzonne  la  punta.  Allor  secondo 
Coll’asta  alzata  Menelao  si  mosse. 

Così  pregando:  Dammi,  o padre  Giove, 

Sovra  costui , che  m’ oltraggiò  primiero  , 


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7Ì 


IMAOR 


«•  4^1-Soo 


Dammi  sovra  il  fellon  piena  vendetta. 

Tu  sotto  i colpi  di  mia  destra  il  doma 
Si,  clic  il  postero  tremi,  e a non  tradire 
L’ospite  apprenda,  che  l’accolse  amico. 

Disse;  e l’asta  avventò,  la  conficcò 
Dell’avversario  nel  rotondo  scudo. 

Penetrò  , fulminando  , la  ferrata 
Punta  il  pavese  rilucente,  e tutta 
Trapassò  la  corazza , lacerando 
La  tunica  sul  fianco  a fior  di  pelle. 

Incurvossi  il  Trojano,  cd  il  mortale 
Colpo  schivò.  L’irato  Afride  allora 
Trasse  la  spada , ed  erto  un  gran  fendente 
Gli  calò  ruVnoso  in  su  l’elmetto. 

Non  re.ssc  il  brando;  che  in  più  pezzi  infranto 
Gli  lasciò  la  man  nuda;  ond’ei  gemendo 
E gli  occhi  alzando  dispettoso  al  cielo: 

Crude!  Giove,  gridava,  il  più  crudele 

Di  tutti  i numi!  Io  mi  sperai  punire 

Di  questo  traditor  l’oltraggio:  cd  ecco 

Che  in  pugno,  oh  rabbia!  mi  si  spezza  il  feiTo, 

E gittai  l’asta  indarno  e senza  oifesa. 

Così  fremendo,  addosso  all’inimico 
Con  furor  si  disserra:  alla  criniera 
Dell’elmo  il  piglia,  e tragge  a tutta  forza 
Verso  gli  Achivi  quel  meschino,  a cui 
La  delicata  gola  sollocava 
11  trapunto  guinzaglio,  che  le  barbe 
Annodava  dell’elmo  sotto  il  mento. 

E l’ avvia  strascinato,  e a lui  gran  lode 
Venuta  ne  saria;  ma  del  periglio 
Fatta  Venere  accorta,  i nodi  sciolse 
Del  bovino  guinzaglio,  c il  vóto  elmetto 
Seguì  la  mano  del  traente  Atridc. 

Aggirollo  l’eroe,  e fra  le  gambe 
Lo  scagliò  degli  Achei,  che  festeggianti 
11  raccolsero.  Allor  di  porlo  a morte 
Risoluto  l’Atride,  alto  coll’asta 
Di  nuovo  l’a.ssali.  Di  nuovo  accni-sa 
F«o  scampò  Citeréa;  che  agevolmente 


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LIBRO  in 


75 


Il  poti  come  Diva  : lo  ravvolse 
Di  molta  nebbia,  c fra  il  soave  oler.zo 
Dei  profumati  talami  il  depose. 

Ella  stessa  a chiamar  cpiindi  la  6glia 
Corse  di  Leda,  e la  trovò  nell'alta 
Torre  in  bel  cerchio  di  dardanie  spose. 
Prese  il  volto  e le  rughe  d’ un’ antica 
Filatrice  di  lane,  che  sfiorarne 
Ad  EIcna  solca  di  molte  e belle 
Nei  paterni  soggiorni,  e sommo  amore 
Posto  le  avea.  Nella  costei  sembianza 
La  Dea  le  scosse  la  nettarea  veste, 

E:  Vieni,  le  dicea,  vieni;  ti  chiama 
Alessandro,  che  già  negli  odorati 
Talami  stassi,  e su  i trapunti  letti 
Tutto  risplendc  di  beltà  divina 
In  sì  gajo  vestir,  che  lo  diresti 
Ritornarsi  non  già  dalla  battaglia. 

Ma  inviarsi  alla  danza,  0 dalla  danza 
Riposarsi.  Sì  disse;  e il  cor  nel  seno 
Le  commosse.  Ma  quando  all’ incarnato 
Del  bellissimo  collo,  e all’amoroso 
Petto,  c degli  occhi  al  tremolo  baleno 
Riconobbe  la  Dea,  coglier  sentissi 
Di  sacro  orrore;  e,  ritrovate  alfine 
Le  parole,  sciamò:  Trista!  e che  sono 
Queste  malizie?  Ad  alcun’altea  forse 
Di  Meonia  o di  Frigia  alta  cittade 
Vuoi  tu  condurmi  affascinata  in  braccio 
D’alcun  altro  tuo  caro?  Ed  or  che  vinto 
Il  suo  rivai,  me  d’odio  carca  a Sparla 
E perdonata  Menelao  radduce. 

Sei  tu  venuta  con  novelli  inganni 
Ad  impedirlo  ? E che  non  vai  tu  stessa 
A goderti  quel  vile?  Obblia  per  lui 
L’eterea  sede,  ne  calcar  più  mai 
Dell’Olimpo  le  vie;  statti  al  suo  fianco; 
Soffri  fedele  ogni  martello,  e il  cova 
Finché  t’alzi  all’onor  di  moglie  o ancella: 
Ch’  io  tornar  non  vo’  certo  (c  fora  indegno) 


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6 


itiAne 


54i-58u 


A sprimacciar  Ji  quel  cotlardo  il  letto  , 
Argomento  di  seberno  alle  trojane 
Spose,  e a me  stessa  d’infinito  afiauno. 

E irata  a lei  la  Dea  : Non  irritarmi , 
Sciagurata!  non  far  ch’io  t'abbandoni 
Nel  mio  disdegno,  e tanto  io  sia  costretta 
Ad  abborrirti  alfin,  quanto  t’amai: 

E t’amai  certo  a dismisura.  Or  io 
Negli  argolici  petti  e ue’trojani 
Metterò,  se  mi  tenti,  odj  sì  fieri. 

Che  di  mal  fato  perirai  tu  pure. 

L'alma  figlia  di  Leda  a questo  dire 
Tremò,  si  chiuse  nel  suo  bianco  velo, 

E cheta  cheta  in  via  si  pose,  a tutte 
Le  Troadi  celata^  e precorreva 
A’  suoi  passi  la  Dea.  Poiché  venute 
Fur  d’Alessandro  alle  splendenti  soglie, 
Corser  di  qua  di  là  le  scaltre  ancelle 
Ai  donneschi  lavori  4 ed  ella  intanto 
Bellissima  saliva  c taciturna 
Ai  talami  sublimi.  Ivi  l’ amica 
Del  riso,  Citcréa,  le  trasse  innanzi 
Di  propria  mano  un  seggio,  c di  rimpctto 
Ad  Alessandro  il  collocò.  S’ assise 
La  bella  donna,  e con  amari  accenti 
Garrì,  senza  mirarlo,  il  suo  marito: 

E così  riedi  dalia  pugna  ? Oh  fossi 
Colà  rimasto  per  le  mani  anciso 
Di  quel  gagliardo,  un  dì  mio  sposo!  E pure 
E di  lancia  e di  spada  e di  fortezza 
Ti  vantasti  più  volte  esser  migliore. 

Fa  cor  dunque,  va,  sfida  il  forte  Atride 
Alla  seconda  singoiar  tenzone. 

Ma  t’esorto,  meschino,  a ti  star  queto. 

Nè  nuovo  ritentar  d’armi  perigliti 
Col  tuo  rivale,  se  la  vita  hai  cara. 

Non  mi  ferir  con  aspri  detti,  o donna, 

Le  rispose  Alessandro.  Fu  Minerva, 

Che  vincitor  fc  Menelao^  sol  essa. 

Ma  lui  del  pari  vincerò  pur  io^ 


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5«l^  L'XHO  111  77 

Ch’io  pure  al  fianco  ho  qualche  Diva.  Or  via, 
Pace,  o cara,  c nc  sia  pegno  un  amplesso 
Su  queste  piume  ^ chè  giammai  sì  forte 
Per  te  le  vene  non  scaldommi  Amore; 

Quel  dì  nè  pur,  che  su  veloci  antenne 

10  ti  rapia  di  Sparta , e tuo  consorte 
Nell’isola  Crenéa  ti  giacqui  in  braccio. 

No,  non  t’amai  quel  di  quant’ora,  e quanto 
Di  te  m’ invoglia  il  cor  dolce  desio. 

Disse;  ed  al  letto  s’avvìaro,  ei  primo, 

Ella  seconda;  e l’un  dell’altro  in  grembo 
Su  i mollissimi  strati  si  confuse. 

Come  irato  lion  l’Àtridc  intanto 
Di  qua  di  là  si  ravvolgca,  cercando 

11  leggiadro  rivai;  nè  lui  fra  tanta 
Turba  di  Teucri  e d’alleati  alcuno 
Significar  sapea;  nè,  lo  sapendo, 

L’ avvia  di  certo  per  amor  celato; 

Chè  come  il  negro  ceffo  della  mortfc 
Abborrito  da  tutti  era  costui. 

Fattosi  innanzi  allora  Agamennone: 

Teucri,  Dàrdani,  ei  disse,  e voi  ali  Troja 

Alleati,  m’udite;  vincitore 

Fu,  lo  vedeste,  Menelao.  Voi  dunque 

Clciia  ne  rendete,  e tutta  insieme 

La  sua  ricchezza;  e d’ un’ ammenda  inoltre 

Ne  rintegrate,  che  convegna,  e tale. 

Che  memoria  nc  passi  anco  ai  nepoti. 

Disse;  e tutto  gli  piause  il  campo  acheo. 


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rjRRO  QUARTO 


ARGOMENTO 


Gli  Dei  sono  a roasi|;lii>  fsella  rr((f(ia  di  Gio^e.  Quetli  . cedendo  alle  ùUo/e  di  (iiuooiie. 
tavia  Minerva  ori  ram|Ki,  c le  ordina  di  far  u,  che  i Trojiiai  siioo  t |irimi  ad  offèndere  i 
Greci,  onde  luHure  l'accordo.  Minerva  ìndurv  Pandaro  a ferire  Menelao  con  iux>  strale. 
Lamento  d'Againcnnone  alta  vista  del  fratello  ferito.  Macaone  è cliianiato  a medicare  1’  eroe. 
I Trnjani  {«ofìttaou  di  questa  ocraùooe  per  asannrsi  contro  de’ Greci.  A^ametmone  scorre 
|*cr  le  61e  , incuorando  ruluro  che  vede  |>mnli  alla  Ualtaglia  , e riprendrtulo  chiunque  è restio 
0 rimane  ignaro  dell' as;veDÌnienlo.  La  pugna  è impegnala  Strage  grande  d'ambe  le  parti. 

NtiP auree  sale  dell' Olimpo  accolti 
Intorno  a Giove  si  sedean  gli  Dei 
A consulta.  Fra  lor  la  veneranda 
Ebe  versava  le  nettaree  spume, 

E quelli  a gara  con  alterni  inviti 
L’ auree  tazze  votavano  , mirando 
La  trojana  città.  Quand'  ecco  il  sommo 
Saturnio  , inteso  ad  irritar  Giunone  , 

Con  un  obliquo  paragon  mordace 

Cosi  la  punse:  Due  possenti  Dive 

Ajutatrici  ha  Menelao,  l'Argiva 

Giuno  e Minerva  Alalcoméuia.  E pure 

^ieghittosc  in  disparte  ambo  si  stanno 

Sol  del  vederlo  dilettate.  Intanto 

Fida  al  fianco  di  Paride  l’amica 

Del  riso  Citcréa  lungi  re.spinge 

Dal  suo  caro  la  Parca^  c dianzi,  in  quella 

Gli’ ci  morto  si  tcnca,  scrvollo  in  vita. 

Rimasta  i al  forte  Menelao  la  palma ^ 

Ma  l’ alto  alTar  non  è compiuto  , e a noi 


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J,4)0  ILIADE,  LIBRO  IV  JC) 

Tocca  il  condurlo,  e statuir,  se  guerra 
Fra  le  due  genti  rinnovar  si  debba  , 

Od  in  pace  comporle.  Ove  la  pace 

Tutti  appaghi  gli  Dei,  stia  Troja,  e in  Argo 

Con  la  consorte  Menelao  ritorni. 

Strinscr,  fremendo  a questo  dir,  le  labbia 
Giuno  e Minerva,  che  vicin  sedute 
Venian  de’  Teucri  macchinando  il  danno. 
Quantunque  al  padre  fieramente  irata, 

Tacque  Minerva,  e non  fiatò.  Ma  l’ira 
jNon  contenne  Giunone,  c si  rispose: 

Acerbo  Dio,  che  parli?  A far  di  tante 
Armate  genti  accolta,  alla  mina 
Di  Priamo  e de’  suoi  figli  , ho  stanchi  i miei 
Immortali  corsieri  j e tu  pretendi 
Frustrar  la  mia  fatica,  ed  involarmi 
De’  miei  sudori  il  fi;utto?  E ben,  t’appaga^ 

Ma  di  noi  tutti  non  sperar  1’  assenso. 

Feroce  Diva,  replicò  sdegnoso 
L’adunator  de’  nembi,  e che  ti  fòro 
E Priamo  e i Priamidi,  onde  tu  debba 
Voler  sempre  di  .Troja  il  giorno  estremo? 

La  tua  rabbia  non  fia  dunque  satolla  , 

Se  non  atterri  d’Iliun  le  porte, 

E sull’  infrante  mura  non  ti  bevi 
Del  re  misero  il  sangue  e de’  suoi  figli 
E di  tutti  i Trojani?  Or  su,  fa  come 
Più  ti  talenta^  onde  fra  noi  sorgente 
D’  acerbe  risse  in  avvenir  non  sia 
Questo  dissidio^  ma  riponi  in  petto 
Le  mie  parole:  se  desio  me  pure 
Prenderà  d’atterrar  qualche  a te  cara 
Città,  non  porre  a’  miei  disdegni  inciampo, 

E liberi  li  lascia.  A questo  patto 

Troja  io  pur  t’abbandono,  e di  mal  cuore; 

Cbò,  di  quante  città  contempla  in  terra 
L’occhio  del  Sole  e dell’ eteree  stelle, 

A'iuna  io  m’ aggio  più  cara  ed  onorata 
Come  il  sacro  Ifione  c Priamo  e tutta 
Di  Priamo  pur  la  bellicosa  gente; 


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8o 


ILIADE 


».  6i.i<io 


Perocché  1’  i»rc  mie  per  lor  di  sacre 
Opime  dapi  abbondano  mai  sempre, 

E di  libami  e di  profumi,  onore 
Solo  alle  dive  qualità  sortito. 

Compose  a questo  dir  la  veneranda 
Giuno  gli  sguardi  maestosi,  e disse: 

Tre  eittadi  sull’ altre  a me  son  care, 

Argo,  Sparta,  Micene:  e tu  le  struggi. 

Se  odiose  ti  sono.  A lor  difesa 
Nè  man  , nè  lingua  moverò^  che  quando 
Pure  impedir  lo  ti  volessi,  indarno 
11  tentai’lo  usciria,  scudo  d'assai 
Tu  più  forte  di  me.  Ma  dritto  or  parmi. 

Che  tu  vano  non  renda  il  mio  disegno^ 

Ch’io  pur  son  nume,  e a te  comune  io  traggo 
L’  origine  divina  , io  dell’  astuto 
Saturno  figli»,  c in  alto  onor  locata. 

Perchè  nacqui  sorella  e perchè  moglie 
Son  del  re  degli  Dei.  Facciam  noi  dunque 
L’un  dell’altro  il  volere,  e il  seguiranno 
Gli  altri  Eterni.  Or  tu  ratto  invia  Minerva 
Fra  i due  commossi  eserciti,  onde  spinga 
1 Trojani  ad  offendere  primieri. 

Rotto  l’accordo,  i baldanzosi  Achei. 

Assenti  Giove  al  detto  ; ed  a Minerva  : 
Scendi,  disse,  veloce^  e fa,  che  i Teucri 
Primi  offendan  gli  Achei,  turbando  il  patto. 

A Minerva,  per  sè  già  desiosa. 

Sprone  aggiunse  quel  cenno.  In  un  baleno 
Dall’Olimpo  calò.  Quale  una  stella. 

Cui  portento  a nocchieri  o a numerose 
Schiere  d’  armati  scintillante  e chiara 
Invia  talvolta  di  Saturno  il  figlio: 

Tale  in  vista  precipita  dall’alto 
Minerva  in  terra,  e piantasi  nel  mezzo. 

Stupir  Teucri  ed  Achivi  all’improvvisa 
Visione;  e taluu  disse  al  vicino: 

Arbitro  della  guerra  oggi  vuol  Giove 
Per  certo  rinnovar  fra  un  campo  e l’altro 
L’acerba  pugna,  o confermar  la  pace. 


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. ioi-i4o 


LIBRO  IV 


«I 


La  Dea  miscliiussl  ira  la  folta  inlantò 
Delle  turbe  trojane,  e la  sembianza 
Di  Laódoco  assunta  (un  valoroso 
D’ Antenore  (ìgliuol  ),  si  pose  in  traccia 
Del  deiforme  Pàndaro.  Trovollo 
Stante  in  piedi  nel  mezzo  al  clipeato 
Stuolo  de’  forti , che  l’ ave^  seguito 
Dalle  rive  d’  Esepo.  Appropinquossi 
A lui  la  diva,  e disse:  Inclito  germe 
Di  Licaon , vuoi  tu  ascoltarmi  ? Ardisci  5 
Vibra  nel  petto  a Menelao  la  punta 
D’uu  veloce  cpiadrello.  E grazia  e lode 
Te  ne  verrà  dai  Dàrdani  e dal  prence 
Paride  in  prima,  che  d’illustri  doni 
Colmeratti , vedendo  il  suo  rivale 
Montar  sul  rogo  , dal  tuo  strai  trafitto. 

Su  via  dunque,  dardeggia  il  burbanzoso 
Atride;  e al  licio  saettante  Apollo 
Prometti  ebe , tornato  al  patrio  tetto 
Nella  sacra  Zeléa,  darai  di  scelti 
Primogeniti  agnelli  un’  ecatombe. 

Cosi  disse  Minerva,  c dello  stolto 
Persuase  il  pcnsier.  Diè  mano  ci  tosto 
Al  bell’  arco  , già  spoglia  di  lascivo 
Capro  agreste.  L’  aveva  egli  d’ agguato  , 
Mentre  dal  cavo  d’  una  rupe  liscia  , 

Còllo  nel  petto  , e su  la  rupe  steso 
Resupino.  Sorgevano  alla  belva 
Lunghe  sedici  palmi  su  1’  altera 
Fronte  le  corna.  Artefice  perito 
Le  polì , le  congiunse , e di  lucenti 
Anelli  d' oro  ne  fregiò  le  cime. 

Teso  quest’arco,  c dolcemente  a Itrra 
Pàndaro  l’adagiò.  Dinanzi  a lui 
Protendono  le  targhe  r fidi  amici. 

Onde  assalito  dagli  Achei  non  vegna. 

Pria  cb’  egli  il  marzio  Menelao  percuota. 
Scoperchiò  la  faretra,  cd  un  alato 
Intatto  strale  nc  cavò,  sorgente 
Di  lagrime  infinite.  Indi  sul  nervo 
Mosti.  //iVo/e.  0 


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ILIADE 


I i4i>i8o 


83 

L'adaltaiulo,  prumisc  al  liciu  Apollo 
Di  primunati  agnelli  un'  ecatombe , 
Ritornato  in  Zeléa.  Tirò  di  for?.a 
Colla  cocca  la  corda,  alla  mammella 
Accostò  il  nervo,  all’arco  il  ferro ^ c,  fatto 
Dei  tesi  estremi  un  cerchio,  all’  improvviso 
L’arco  e il  nervo  fischiar  forte  s’  udirò, 

K lo  strale  fuggi , desideroso 
Di  volar  fra  le  turbe.  Ma  non  furo 
Immemori  di  te,  tradito  Àtridc, 

In  quel  punto  gli  Dei.  L’armipotente 
Figlia  di  Giove  si  parò  davanti 
Al  mortifero  telo,  e dal  tuo  corpo 
Lo  deviò  sollecita,  siccome  . 

Tenera  madre,  che  dal  caro  volto 
Del  bambino , che  dorme  un  dolce  sonno , 
Scaccia  l’insetto,  che  gli  ronza  intorno. 
Ella  stessa  la  Dea  drizzò  lo  strale 
Ove  appunto  il  bel  cinto  era  frenato 
Dall’  anrec  fibbie , e si  stendea  davanti 
Qual  secondo  torace.  Ivi  l’ acerbo 
Quadrello  cadde  ^ c,  traforando  il  cinto,' 
Ael  panzeron  s’  infisse  e nella  piastra. 

Che  dalle  frecce  il  corpo  gli  sebermia. 
Questa  gli  valse  allor  d' assai  ^ ma  pure 
Passolla  il  dardo,  e ne  sfiorò  la  pelle 
Si,  che  tosto  diè  sangue  la  ferita. 

Come  quando  meonia  o caria  donna 
Tinge  d’  ostro  un  avorio , onde  fregiarne 
Di  superbo  destriero  le  mascelle; 

Molti  d’  averlo  cavalieri  han  brama; 

Ma  in  chiusa  stanza  ei  serbasi  bel  dono 
A qualche  sire,  adornamento  e pompa 
Del  cavallo  ed  in  un  del  cavaliero  ; 

Cosi  di  sangue  imporporossì , Atride . 

La  tua  bell’  anca,  e per  lo  stinco  all'  imo 
Calcagno  corse  la  vermiglia  riga. 

Raccapricciossi  a questa  vista  il  rege 
Agamennòn,  raccapricciò  lo  stesso 
Marzial  Menelao;  ma  quando  ci  vide 


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. |Bi«230 


LlDUO  IV 


H3 


Fuor  (lolla  polpa  l'amo  dello  strale, 

Gli  tornò  tosto  il  core  , e si  riebbe. 

Per  man  tenealo  intanto  Àgamenndne; 

Ed  altamente  fra  i dolenti  amici 
Sospirando  dicea  : Caro  fratello  , 

Perebò  qui  morto  tu  mi  fossi,  io  dunque 
Giurai  l’accordo,  te  mettendo  solo 
Per  gli  Achivi  a pugnar  contra  i Trojani, 
Contra  i Trojani,  che  l’accordo  ban  rotto, 
C a tradimento  ti  ferir?  Ma  vano 
Non  andrà  delle  vittime  il  giurato 
Sangue,  nè  i puri  libamenti  ai  Numi, 

Nè  la  fè  delle  destre.  Il  giusto  Giove 
Può  differire  ei,  s'i,  ma  non  per  certo 
Obbli'ar  la  vendetta  : e caro  un  giorno 
Colle  lor  teste,  colle  mogli  e i Agli 
Ne  pagheranno  gli  spergiuri  il  fio. 

Tempo  verrà  (di  questo  ho  certo  il  core), 
Ch’Ilio  e Priamo  perisca,  e tutta  insieme 
La  sua  perfida  gente.  Dall’  eccelso 
Etereo  seggio  scoterà  sovr’essi 
L’  egida  orrenda  di  Saturno  il  figlio 
DI  tanta  frode  irato^  e non  cadranno 
Vóti  i suoi  sdegni.  Ma  d’ immenso  lutto 
Tu  cagion  mi  sarai,  dolce  fratello, 

Se  morte  tronca  de’  tnoi  giorni  il  corso. 
Sorgerà  negli  Achei  vivo  il  desio 
Del  patrio  suolo , e d’ onta  carco  in  Argo 
Io  tornerommi,  e lasceremo  ai  Teucri, 
Glorioso  trofeo,  la  tua  consorte. 

Putride  intanto  nell’  iliaca  terra 
L’ossa  tue  giaceran,  seni’ aver  dato 
Fine  all’  impresa^  c il  tumulo  del  mio 
Prode  fratello  un  qualche  Teucro  altero 
Calpestando,  dirà;  Possa  i suoi  sdegni 
Satisfar  cosi  sempre  Agameunòne, 

Siccome  or  fece,  senza  prò  guidando 
L’ argoliche  falangi  a questo  lido, 

D’ onde  scornato  su  le  vote  navi 
Alla  patria  tornò,  qui  derelitto 


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II4AHR 


' sai-26ft 


L’ illustre  Meuelao.  Sì  Ha  di'  ei  dica  : 

E allor  mi  s’ apra  sotto  i piè  la  terra. 

Ti  conforta,  rispose  il  biondo  Atride, 
Nè  co’  lamenti  spaventar  gli  Acliivi. 

In  mortai  parte  non  feri  l’ acuto 
Dardo:  di  sopra  il  ricamato  cinto 
Mi  difese,  e di  sotto  la  corazza 
E questa  fascia,  che  di  ferrea  lama 
Buon  fabbro  foderò.  — Sì  voglia  il  cielo . 
Diletto  Menelao  , l’ altro  riprese. 

Intanto  tratterà  medica  mano 
La  tua  ferita  , e farmaco  porravvi 
.\tto  a lenire  ogni  dolor.  — Si  volse 
All'araldo,  ciò  detto,  c:  Va  , soggiunse; 
Vola,  o Taltibio,  c fa,  che  ratto  il  figlio 
D’Esculapio,  divin  medicatore, 

Macaon  qua  ne  vegna,  c degli  Achei 
.W  forte  duce  Menelao  soccorra, 

Cui  di  freccia  ferì  qualche  trojano 
O licio  sactticr , che  se  di  gloria , 

Noi  di  lutto  coprì.  — Disse;  c F araldo 
Tra  le  falangi  achee  corse  veloce 
In  traccia  dell’  eroe.  Ritto  lo  vide 
Fra  lo  stuolo  de’  prodi,  che  da  Tricca. 
Aitrite  di  corsier,  l’avea  seguito; 
Apprcssossi,  c con  rapide  parole: 

Vien , gli  disse,  t’ affretta,  o Macaone: 
Agamennón  ti  chiama:  il  valoroso 
Menelao  fu  di  strai  cólto  da  qualche 
Licio  arderò  o trojano,  che  superbo 
Va  del  nostro  dolor.  Corri , e lo  sana. 

Al  tristo  annunzio  si  commosse  il  figlio 
D’ Esculap  io;  e veloci  attraversando 
11  largo  campo  acheo  , fur  tosto  al  loco . 
Ove  al  ferito  deiforme  Atride 
Faccan  cerchio  i migliori.  Incontanente 
Dal  baltco  estrasse  Macaon  lo  strale  . 

Di  cui  curvarsi  nell'  uscir  gli  acuti 
Ami;  disciolse  ei  quindi  il  vcrgolato 
Cinto  e il  torace  rolla  ferrea  fascia 


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Sovrapposta:  c scoperta  la  ferita, 
Succlilonne  il  sangue,  e destro  la  cosparse 
Dei  lenitivi  farmaci , die  al  padre  , 

D’  amor  pegno  , insegnati  avea  Chironc. 

Mentre  questi  alla  cura  intenti  sono 
Del  bell  icoso  Atride,  ecco  i Trojani. 
Marciar  di  nuovo  con  gli  scudi  al  petto. 

R di  nuovo  gli  Achei  l’armi  vestire, 

Di  battaglia  bramosi.  Allor  vedevi 
Mun  assonnarsi,  non  dubbiar,  nè  pugna 
Schivar  l’illustre  Agamennón;  ma  ratto 
Volar  nel  campo  della  giuria.  Il  carro 
E i fervidi  destrier  tratti  ih  disparte 
Lascia  all’auriga  Eurimedonte,  Aglio 
Del  Piraide  Tolomeo;  gl’ impone 
Di  seguirlo  vicin.  mentre  pel  campo 
Ordinando  le  turbe  egli  s’  aggira  , 

Onde  accorrergli  pronto  ove  stanchezza 
Gli  occupasse  le  membra.  Egli  pedone 
Scorre  intanto  le  Ale;  e quanti  all’ anni 
Affrettarsi  ne  vede  . ei  colla  voce 
Fortemente  gl’ incuora,  e grida:  Argivi, 
Niun  rallenti  le  forze:  il  giusto  Giove 
Bugiardi  non  ajuta:  chi  primiero 
L’accordo  violò,  pasto  vedrassi 
Di  voraci  avoltoi,  menti-e  captivc 
Le  dilette  lor  mogli  in  un  co’  Agli 
Noi  nosco  condurremo.  Ilio  distrutto. 

Quanti  poi  ne  scorgea  ritrosi  c schivi 
Della  battaglia,  con  irati  accenti 
Li  rabbuffando:  O Ai'givi,  egli  dicca, 

O guerricr  da  balestra  , o vitupcrj  ! 

Non  vi  prende  vergogna?  A che  vi  state- 
istupiditi  come  zebe  , a cui , 

Dopo  scorso  un  gran  campo,  la  stanchezza 
Ruba  il  piede  e la  lena?  E voi  del  pari 
Allibiti  al  pugnar  vi  sottraete. 

Aspettate  voi  forse,  che  il  nemico 
Alla  spiaggia  s’accosti  , ove  ritratte 
Stan  sul  secco  le  prore,  onde  si  vegga 


86 


ILUOE 


V.  3oi«.^o 


Se  Giove  allor  vi  stenderà  la  mano  ? 

Cosi  imperando  trascorrea  le  schiere. 

Venne  ai  Cretesi;  e li  trovò,  che  all’  armi 
Davan  di  piglio  intorno  al  bellicoso 
Idomenéo.  Por  vigoria  di  forze 
Pari  a fiero  cinghiale  Idomenéo 
Guidava  l’antiguardia,  e Meri'ouc 
La  retroguardia.  Del  vederli  allegro  , 

11  sir  de’  forti  Atride  al  re  cretese 
Con  questo  dolce  favellar  si  volse: 

Idomenéo  , te  sopra  i Danai  tulli 
Cavalieri  veloci  in  pregio  io  legno, 

Sia  nella  guerra  , sia  nell’  altre  imprese  , 

Sia  ne’  conviti , allor  che  ne’  crateri 
D’  almo  antico  l'ico  versau  la  spuma 

I supremi  tra’  Greci.  Ove  degli  altri 
Chiomati  Achivi  misurato  è il  nappo, 

II  tuo,  del  par  che  il  mio  , sempre  trabocca. 
Quando  ti  prende  di  bombar  la  , voglia. 

Or  entra  nella  pugna;  e tal  ti  mostra. 

Qual  dianzi  ti  vantasti.  — E de’  Crctensi 
A lui  lo  duce  : Atride  , io  qual  già  pria 
T’ improraisi  e giurai  , fido  compagno 
Per  certo  ti  sarò.  Ma  tu  rinfiamma 
Gli  altri  Achivi  a pugnar  senza  dimora. 
Rupper  l’accordo  i Teucri  ; e perchè  primi 
Del  patto  violar  la  sautitatc , 

Sul  lor  capo  cadran  morti  e mine. 

Disse;  e giojoso  proseguì  l' Atride 
b’ra  le  caterve  la  rivista,  e venne 
Degli  Ajaci  alla  squadra.  In  lutto  punto 
Mctteansi  questi,  e li  scguia  di  fanti 
Un  nugolo.  Siccome  allor  che  scopre 
D’ alto  loco  il  paslor  nube  , che  spinta 
Su  per  1’  onde  da  Cauro  s’  avvicina, 

E bruna  più  che  pece  il  mar  viaggia. 

Grave  il  seno  di  nembi  ; inorridito 
Ei  la  guarda,  ed  aflrelta  alla  spelonca 
Le  pecorelle;  così  negre  ed  orri<le 
Per  gli  scudi  e per  1’  aste  si  moveano 


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UBRO  IV 


.141-380 


Sotto  gli  Ajaci  accolte  le  falangi 
De’  giovani  veloci  al  rio  conflitto. 

Allcgros<i  a tal  vi.sta  Agamennone  \ 

E a’  lor  duci  converso  , in  presti  accenti  : 
Ajaci , ci  disse , condottieri  egregi 
De’  loricati  Achivi , io  non  v’  esorto 
(Ciò  fora  oltraggio)  a inanimar  le  vostre 
Schiere  4 già  per  voi  stessi  a fortemente 
Pugnar  le  stimolate.  Al  sommo  Giove 
E a Pallade  piacesse  e al  santo  Apollo, 

Che  tal  coraggio  in  ogni  petto  ardesse  , 

E tosto  presa  ed  adeguata  al  suolo 
Per  le  man  degli  Achei  Troja  cadrebbe. 

Così  detto,  lasciolli;  c,  procedendo, 

A Nestore  arrivò.  Nestore,  arguto 
De’  Pilj  aiTingator,  che  in  ordinanza 

I suoi  prodi  metteva,  e alla  battaglia 
Li  concitava.  Stavangli  dintorno 

II  grande  Pelagonte  ed  Alastoi'rc , 

E il  prence  Emone  e Cromio , ed  il  jiaUorc 
Di  popoli,  Biante.  .In  prima  ei  pose 
Alla  fronte  coi  carri  e coi  cavalli 
1 cavalieri,  e al  retroguardo  i fanti, 

Che  molti  essendo  c valorosi,  il  vallo 
Formavano  di  guerra.  Indi  nel  mezzo 
1 codardi  rinchiuse,  onde  forzarli, 

Lor  mal  grado,  a pugnar.  Ma  innanzi  a tutto 

Porge  ricordo  ai  combattenti  equestri 

Di  frpnar  lor  cavalli,  e non  mischiarsi 

Confusamente  nella  folla.  — Alcuno 

Non  sia,  soggiunse,  che  in  suo  cor  (ìdaiido 

E nell’  equestre  maestrìa  , s’  attenti 

Solo  i Teucri  affrontar  di  schiera  uscito; 

Nè  sia  chi  retroceda;  chè,  cedendo. 

Si  sgagliarda  il  soldato.  Ognun,  che  sceso 
Dal  proprio  carro  1’  ostil  carro  assalga , 
Coll’asta  bassa  investalo;  chè  meglio. 

Sì  pugnando,  gli  torna.  Con  quest’arte. 

Con  questa  mente  c questo  ardir  nel  petto 
Le  città  rovesciar  gli  antichi  eroi. 


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88 


ILIADE 


38i-^20 


Il  canuto  così  mastro  di  guerra 
Le  sue  genti  animava.  In  lui  (issando 
Gli  occhi  l'Atride  , giubiloune , c tosto 
Queste  parole  gli  drizzò:  Buon  veglio, 

Oh  l' avessi  tu  salde  le  giuocchia 
E saldi  i polsi,  come  hai  saldo  il  core! 

La  ria  vecchiezza,  che  a nuiruom  perdona, 
Ti  logora  le  forze:  ah  perchè  d’alti’o 
Guerricr  non  grava  la  crudel  le  spalle  ! 
Perchè  de’ tuoi  begli  anni  è morto  il  fiore! 

Ed  il  gereiiio  cavalicr  rispose  : 

Atride,  al  certo  bramerei  pur  io 

Quelle  forze,  ch’io  m’cbbi  il  di,  che  morte 

Diedi  all'illustre  Ereutaliou.  Ma  tutti. 

Tutti  ad  un  tempo  non  comparto  Giove 
I suoi  doni  al  mortai.  Ridcami  allora 
Gioventude  : or  mi  doma  empia  vecchiezza. 
Ma  qual  pur  sono,  mi  starò  noi  mezzo 
De’  cavalieri  nella  pugna,  e gli  altri 
Gioverò  di  parole  e di  cousiglio^ 

Gilè  questo  è officio  de’  provetti.  Dòssi 
Lasciar  dell' aste  il  tiro  ai  giovinetti 
Di  me  più  destri  c nel  vigor  scouri. 

Disse;  c,  lieto 'l'Atride  oltrepassando. 
Venne  al  Fetide  Meneslco,  perito 
Di  cocchi  guidator,  ritto  nel  mezzo 
De’  suoi  prodi  Cccropj.  Eragli  accanto 
Lo  scaltro  Ulisse  colle  forti  schiere 
De’Cefaleui,  che  non  anco  udito 
Di  guerra  il  grido  avean,  poiché  le  teucre 
E l’argive  falangi  allora  allora 
Comiiiciavan  le  mosse:  e questi  in  posa 
Aspeltavan  , che  stuolo  altro  d'Achei 
Impeto  fèsse  ne’  TrojanI  il  primo, 

E ingaggiasse  battaglia.  In  quello  stato 
Li  sorprese  l'Atride;  -e  corruccioso 
Fe  dal  labbro  volar  questa  rampogna: 

Fetide  Mencstéo,  figlio  non  degno 
D’uu  alunno  di  Giove,  e tu  d'inganni 
Astuto  fabbro,  a che  tremanti  state 


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LIBRO  IV 


»9 


V. 

Gli  altri  aspettando,  e separati?  A voi 
Entrar  convicnsi  nella  iniscliia  i primi  , 

Perchè  primi  io  vi  chiamo  anche  ai  conviti , 

Ch'ai  primati  imhandiscono  gli  Achei. 

Ivi  il  salme  sapgrar  vi  giova 
Delle  carni  arrostite , e a piena  gola 
Di  soave  lieo  cioncar  le  tazze. 

Or  vi  giova  esser  gli  ultimi , e vi  fora 
Grato  il  veder  ben  dicci  squadre  achee 
Innanzi  a voi  scagliarsi  entro  il  coullitto. 

Lo  guatò  bieco  Ulisse,  e gli  rispose; 

Qual  detto  , Ati-ide , ti  fuggì  di  bocca  ? 

E come  ardisci  di  chiamarne  in  guerra 
Neghittosi?  Allorché  centra  i Trojani 
Daran  principio  al  rio  marte  gli  Achei, 

Vedrai,  se  il  brami  e tc  ne  cal,  vedrai 
Nelle  dardanic  file  antesignane 
Di  Telemaco  il  padre.  Or  cianci  al  vento. 

Veduto  il  cruccio  dell’ eroe , sorrise 
L’Atride , e dolce  ripigliò  : Divino 
Di  Laerte  figliuol,  sagace  Ulisse, 

Nè  sgridarti  vogl’io,  nè  comandarti 

Fuor  di  stagione^  ch’io  ben  su  che  in  petto 

Volgi  pensieri  generosi,  c senti 

Ciò  ch’io  pur  sento.  Or  vanne,  e pugna;  e s’ora 

Dal  labbro  mi  fuggì  cosa  mal  detta, 

Ripareremla  in  altro  tempo.  Intanto 
Ne  disperdano  i numi  ogni  ricordo. 

Ciò  detto,  gli  abbandona,  c ad  altri  ci  pas.sa; 

E ritto  in  piedi  sul  lucente  coceliio 
11  magnanimo  figlio  di  Tidéo , 

Diomede,  ritrova.  Al  fianco  ha  Stèndo, 

Prole  di  Capanèo.  Si  volse  il  sire 
Agamennone  a Diomede,  c ratto 
Con  questi  accenti  rampognollo:  Ahi!  figlio 
Del  bellicoso  cavalicr  Tidéo , 

Di  che  paventi  ? Perchè  guardi  intorno  • ♦ 

Le  scampe  della  pugna?  Ah!  non  solea 
Cosi  Tidéo  tremar  ; ma  precorrendo 
D' assai  gli  amici , co’  nemici  ei  primo 


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ILIADE 


S’  azzuffavn.  'Ciascun  , che  ne’  guerrieri 
Travagli  il  vide , lo  racconta.  In  vero 
Nè  compagno  io  gli  fui  nè  teslimonc: 

Ma  udii,  clic  ogni  altro  di  valore  ci  vinse. 
Ben  coll’  illustre  Polinice  un  tempo 
Senz’  armati  in  Micene  ospite  ci  venne , 
Onde  far  gente  che  alle  sacre  mura 
Li  seguisse  di  Tebe,  a cui  già  mossa 
Avean  la  guerra;  c ne  fér  ressa  e preghi 
Per  ottenerne  generosi  ajuti; 

E voicvam  noi  darli , c la  domanda 
Tutta  appagar;  ma  con  infausti  .segni 
Giove  da  tanto  ne  distolse.  Or  come 
Gli  eroi  si  fùro  dipartiti,  e giunti 
Dopo  molto  cammino  al  verdeggiante 
Giuncoso  Asopo,  ambasciatore  a Tebe 
Spedir  Tidèo  gli  Achivi.  Andovvi,  e molti 
Banchettanti  Cadméi  trovò  del  forte 
Eteócle  alle  mense.  In  mezzo  a loro  , 
Quantunque  cstrano  e solo , il  cavaliere , 
Senza  punto  temer,  tutti  slidolli 
Al  paragoti  dell’ armi,  e tutti  ci  vinse 
Col  favor  di  Minerva.  Irati  i viuti  , 

Di  cinquanta  guerrieri,  al  suo  ritorno. 

Gli  posero  un  agguato.  Eran  lor  duci 
L’Emonide  Meone,  uom  d’almo  aspetto, 

E d’Autofano  il  figlio,  Licofonte, 

Intrepido  campion.  Tidèo  gli  uccise 
Tutti;  ed  un  solo  per  voler  de’  numi, 

Il  sol  Meone  rimandonne  a Tebe. 

Tal  fu  l’etólo  eroe,  padre  di  prole 
Miglior  di  lingua,  ma  minor  di  fatti. 

Non  rispose  all’acerbo  il  valoroso 
Tidide,  e rispettò  del  venerando 
Rege  il  rabbuffo;  ma  rispose  il  figlio 
Del  chiaro  Capanèo  , dicendo:  Atride, 

Non  mentir  quando  t’  è palese  il  vero. 
Migliori  assai  de’  nostri  padri  a dritto 
Noi  ci  vantiam.  Noi  Tebe  e le  sue  sette 
Porte  espugnammo:  e nondimen  più  scarsi 


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i.,  5oi-54o  LIBKO  IV  <)1 

Erati  gli  armati  che  guidammo  al  sacro 
Muro  di  Marte,  ne'  divini  auspicj 
Fidando  e in  Giove.  Per  l’opposto  quelli 
Peccar  d’insano  ardire,  e vi  perirò. 

Non  pormi  adunque  in  onor  pari  i padri. 

Gli  volse  un  guardo  di  traverso  il  forte 
Tidide,  e ripigliò:  T’aecheta,  amico. 

Ed  obbedisci  al  mio  parlar.  Non  io. 

Se  il  re  supremo  Agamennone  istiga 
Alla  pugna  gli  Achei,  noil  io  lo  biasmo. 

Fia  sua  la  gloria,  se  , domati  i Teueri, 

Noi  la  sacra  cittade  espugneremo  ^ 

E suo,  se  spenti  noi  cadremo,  il  lutto. 

Dunque  a dar  prove  di  valor  si  pensi. 

Disse^  e armato  balzò  dal  cocchio  in  terra. 
Orrendamente  risonar  sul  petto 
L’  armi  al  re  concitato,  a tal  che  preso 
N’  avria  spavento  ogni  più  fermo  core. 

Siccome  quando  al  risonante  lido, 

Di  Ponente  al  soffiar,  l’uno  sull’altro 
Del  mar  si  spinge  il  flutto  ^ e prima  in  alto 
Gonbasi , e poscia  su  la  sponda  rotto 
Oiribilmente  freme,  c intorno  agli  erti 
Scogli  s’arriccia,  li  sormonta,  e in  larghi 
Sprazzi  diffonde  la  canuta  spuma; 

Incessanti  così  l’una  su  l’altra 
Movon  l’achee  falangi  alla  battaglia 
Sotto  il  suo  duce  ognuna;  c sì  gran  turba 
Marcia  sì  cheta , che  di  voce  priva 
La  diresti  al  vederla:  c riverenza 
Era  de’  duci  quel  silenzio  ; e l’ armi 
Di  varia  guisa,  di  che  gian  vestiti 
Tutti  in  ischiera,  li  cingean  di  lampi. 

Ma  simiglianti  i Teucri  a numeroso 
Gregge,  che  dentro  il  pecoril  di  ricco 
Padron,  nell’ora  che  si  spreme  il  latte, 

S’  ammucchiano  , e al  belar  de’  cari  agnelli 
Bispondono  belando  alla  dirotta; 

Così  per  1’  ampio  esercito  un  confuso 
Mcttean  schiamazzo  i Teucri;  che  non  uikj 


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9» 


it.unr 


••  5il.58o 


Era  di  tutti  il  j^’ido  uè  la  voci', 

Ma  di  lingu<?  un  inistin,  si’iido  una  gente 
Da  più  parli  raccolta.  A questi  Marte, 

A quei  Minerva  è sprone,  e quinci  e quindi 
Lo  Spavento  e la  Fuga , c del  crudele 
Marte  suora  c compagna,  la  Contesa, 
Insaziabilmente  furibonda. 

Clic  da  principio  piccola  si  Icva^ 

Poi  mette  il  capo  tra  le  stelle  , c immensa 
Passeggia  su  la  terra.  Essa,  per  mezzo 
Alle  turbe  .scorrendo,  e de’  mortali 
Addoppiando  gli  affanni , in  ambedue 
Le  bande  spàrse  una  rabbiosa  lite. 

Poiché  l’un  campo  c 1’  altro  in  un  sol  luogo 
Convenne,  e si  scontrar  Paste  c gli  scudi, 

E il  furor  de’  guerrieri , scintillanti 
Ne’  risonanti  usberghi,  e dèlie  colme 
Targhe  già  il  cozzo  si  sentia,  Icvossi 
Un  orrendo  tumulto.  Iva  confuso 
Col  gemer  degli  uccisi  il  vanto  e il  gi-ido 
Degli  uccisori,  e il  suol  sangue  correa. 

Qual  due  torrenti,  che  di  largo  sbocco 
Devolvonsi  dai  monti,  e nella  valle 
Per  lo  concavo  scn  d’  una  vorago 
Confondono  le  gonfie  onde  veloci  ; 

N"  ode  il  fragor  da  lungi  in  cima  al  balzo 
L’  atterrito  pastor;  tal  dai  commisti 
Eserciti  sorgea  fracasso  e tema. 

Pri  nio  Anliloco  uccise  un  valoroso 
Teucro,  alle  mani  nelle  prime  file, 

11  Tal  iside  Echépolo,  il  ferendo 
Nel  cono  del  chiomato  clmo^  s’infisse 
La  ferrea  punta  nella  fronte,  e 1’  osso 
Trapanò  : s’  abbujàr  gli  occhi  al  meschino  , 
Che  strepitoso  cadde  come  torre. 

Ghermì  pe’  piedi  quel  caduto  il  prence 
De’  magnanimi  Abanli , Elefenorre  , 

Figliuol  di  Calcodonte;  e desioso 
Di  spogliarlo  dell’  armi , lo  Iraea 
Fuor  della  mischia^  ma  fallì  la  brama:; 


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r.  58i.6jo  libro  IV  C)3 

Che  inenlrc  il  morto  ei  dietro  si  strascina. 
Agenore  il  sorprende,  e a lui , che  curvo 
OnVia  nudati  di  pavese  i fianchi, 

Tale  un  colpo  assestò,  che  gli  disciolse 
Le  forze , e 1’  alma  abbandonollo.  Allora 
Fra  i Trojani  e gli  Achei  surse  una  fiera 
Zuffa  sovr’  esso  : s’  alfrontàr  quai  lupi , 

F in  mutua  strage  si  ractteano  a morte. 

Qui  fu  che  Ajace  Tclamonio  il  figlio 
n'Antcmi'on  percosse,  il  giovinetto 
•Sinjoesio,  cui  scesa  dallTdée 
Cime  la  madre  partorì  sul  margo 
Del  Simoenta,  un  giorno  ivi  venuta 
Co'  genitori  a visitar  la  greggia  : 

F.  Simoesio  lo  nomar  dal  fiume. 

Misero!  chi  dei  presi  in  educarlo 
Dolci  pensieri  ai  gcnitor  diletti 
Rendere  il  mcrto  non  poteo:  la  lancia 
D’ Ajace  il  colse,  e il  viver  suo  fe  breve. 

Al  primo  scontro  lo  colpì  nel  petto 
Su  la  destra  mammella,  c la  ferrata 
Punta  pel  tergo  riuscir  gli  fece. 

Cadde  il  garzone  nella  polve  a guisa 
Dì  liscio  pioppo  su  la  sponda  nato 
D' acquidosa  palude  : a lui  de’  rami 
Già  la  pompa  crcscea,  quando  repente 
Colla  fulgida  scure  lo  recise 
Artefice  di  carri , e inaridire 
Lungo  la  riva  Io  lasciò  del  fiume. 

Onde  poscia  foggiarne  di  bel  cocchio 
Le  volubili  rote.  Così  giacque 
L'Anlemide  trafitto  Simoesio, 

E tale  dispogliollo  il  grande  Ajace. 

Contro  Ajace  1’  acuta  asta  diresse 
D’ infra  le  turbe  allor  di  Priamo  il  figlio  , 

Antifo,  e il  colpo  gli  falli;  ma  colse 
Nell’inguine  il  fedel  d’ Ulisse  amico, 

Leuco,  che  già  di  Simoesio  altrove 

Traca  la  salma;  e accanto  al  corpo  esangue, 

Che  di  man  gli  cadea,  cadde  egli  pure. 


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9Ì 


ILIADE 


y.  6ai*^6o 


Forte  adirato  dell'ucciso  amico, 

Si  spinse  Ulisse  tra  gl' innanzi,  tutto 
Scintillante  di  ferro  ^ e più  dappresso 
Facendosi , e dintorno  il  guardo  attento 
Rivolgendo,  librò  l'asta  lucente. 

Si  misero  a quell'  atto  in  guardia  i Tcuci'i , 
E lo  cansàr^  ma  quegli  il  telo  a vóto 
Non  sospinse,  e feri  Democoonte , 

Pri'arnide  bastardo,  che  d'Abido 
Con  veloci  puledre  era  venuto. 

A costui  fulminò  l' irato  Ulisse 
Nelle  tempie  la  lancia,  c trapassolle 
La  fen-ea  punta.  Tenebrarsi  i lumi 
Al  trafitto,  che  cadde  fragoroso, 

E cupo  gli  tonar  l'armi  sul  petto. 

Rinculò  de’Trojani,  al  suo  cadere. 

La  fronte,  rinculò  lo  stesso  Ettorre^ 

Dier  gli  Argivi  alte  grida , ed  occupati 
1 corpi  uccisi,  s'  avanzai'  di  punta. 

Dalla  ròcca  di  Pergamo  mirolli 
Sdegnato  Apollo^  e,  rincorando  i Teucri, 
Con  gran  voce  gridò:  Fermo  tenete,  . 
Valorosi  Troiani,  ed  agli  Achei 
Non  cedete  l'onor  di  questa  pugnai 
Che  nè  pietra,  nè  ferro  è la  lor  pelle 
Da  rintuzzar  delle  vostr'  armi  il  taglio. 

Non  combatte  qui,  no,  della  leggiadra 
Tétide  il  figlio^  non  temete:  Achille 
Stassi  alle  navi  a digerir  la  bile. 

Così  dall'alto  della  ròcca  il  Dio 
Terribile  sciamò.  Ma  la  feroce 
Palla,  di  Giove  gloriosa  figlia  , 

Discorrendo  le  file,  inanimava- 

Gli  Achivi,  ovunque  li  vedea  rimessi. 

Qui  la  Parca  allacciò  PAmaraneide 
Diore.  Un'  aspra  e quanto  cape  il  pugno 
Grossa  pieti'a  il  percosse  alla  diritta 
Tibia  presso  il  tallone , c feritore 
Fu  l' Imbraside  Piro,  che  de' Traci 
Condottiero  dall'Eno  era  venuto. 


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« (Xl-eyn  LIBRO  IV  g5 

Franse  ainliidue  li  nervi  e la  caviglia 
L’improbo  sasso,  ed  ei  cadde  supino 
Nella  sabbia,  e mal  vivo  ambo  le  mani 
Ai  compagni  stendca.  Sopra  gli  corse 
Il  percussore , e 1’  asta  in  mezzo  all’  epa 
Gli  cacciò.  Si  versar  tutte  per  terra 
Le  intestina , e mortale  ombra  il  coperse. 

All’ irruente  Piro  allor  l’Etólo 
Toante  si  rivolge;  e lui  nel  petto 
Con  la  lancia  ferendo  alla  mammella, 

Nel  polmon  gliela  fìcea.  Indi  appressato, 

Gliela  seonfìcca  dalla  piaga;  c in  pugno 
Stretta  l’acuta  spada,  glie  l’immerse 
Nella  vcntraja,  e gli  rapio  la  vita: 

L’  armi  non  già;  chè  intorno  al  morto  Piro 
Colle  lungb’  aste:  in  pugno  irti  di  ciuffi 
Afìbllàrsi  i suoi  Traci,  e il  chiaro  Etólo, 

Benché  grande  e gagliardo,  allontanare, 

Sì  che  a foi-za  respinto  si  ritrasse. 

Così  l’uno  appo  l’altro  nella  polve 
Giacquero  i due  campioni,  il  tracio  duce, 

E il  duce  degli  Epéi.  Dintorno  a questi 
Molt’  altri  prudi  ritrovAr  la  morte. 

Chi  da  ferite  illeso,  e da  Minerva 
Per  man  guidato,  c preservato  il  petto 
Dal  volar  degli  strali , avvolto  in  mezzo 
Alla  pugna  si  fosse , avria  le  forti 
Opre  stupito  degli  eroi;  chè  multi 
E Trojani  ed  Achivi  nella  polve 
Giacquer  pruni  e confusi  in  quel  conflitto. 


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UBRO  QUINTO 


ARGOMENTO 


Uionwile,  rnirajuUi  di  P<ilU«k,  f«  Ve  {mii  inirjlnli  |>ro\e.  K feritii  P^utUru  eoo  uuj  fr«c> 
fia.  Minerva  gli  ridona  il  rigore.  Ritorna  egli  alla  pugna,  ed  ueride  cikdli  nemici,  fra’i^ualt 
Pindaro  ; con  un  lasvo  colpìsrc  Ritea  ne)  giiioerliio.  Venere,  accana  per  uU'are  U figlio  , c 
da  lui  feriU  io  una  mono.  Salila  all’  Olìm^uv  la  Dea,  è riiaoala  ila  Peone.  Enea,  inieguito  da 
Diomeile,  viene  tratto  in  ulvo  da  Apollo  Marte  ìnroriggu  i Trojani.  Sarpedoitle  uccide 
Tlqvolemo.  Prevalendo  Kilore  e Marte,  Dòanede  e eoitrctto  a retrocedere.  Giimone  e Mi- 
nerva diacendono  a aoccorrerr  i Greci.  Diomede,  iiligato-da  Minerva,  fèriace  .Marte  nel  ventre. 
Il  Dio.  mugghiando  pei  dulure.  tale  al  cielo,  e<t  è ram{>ugnalo  da  Giove.  Peooe  niaiu  la  Mia 
lirrila. 


Allor  Palla  Minerva  a LtiomeJe 
P'orza  infuse  ccl  .ardire,  onde  fra  lutti 
Gli  Aelui  splendesse  glorioso  c chiaro. 
Lampi  gli  usciali  dall’  elmo  e dallo  scudo 
I)' incstinguibil  fiamma,  al  tremolio 
Simigliantc  del  vivo  astro  d'autunno, 

Che  lavalo  uel  mar  splende  più  bello. 

T.al  mandava  dal  capo  e dalle  spalle 
Diviii  foco  l’eroe^  quando  la  Diva 
Lo  sospinse  nel  mezzo,  ove  più  densa 
Ferve  la  misehia.  Era  fra’Teucri  un  certo 
Darete,  uom  ricco  c d’onoranza  degno, 

Di  Vulcan  sacerdote,  e genitore 
Di  due  prodi  Ggliuoi  mastri  di  guerra, 
Fegéo  nomati  e Idèo.  Precorsi  agli  altri, 

Si  f»!r  costoro  incontro  a Diomede, 

Essi  sul  cocchio,  ed  ci  pedone  : e a fronte 
Divenuti  cosi,  scagliò  primiero 
La  lung’asta  Fegéo.  L’asta  al  Tidide 
J.ambi  l’ómcro  manco,  e non  l’olTcse. 


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11-60  ILIADE,  LIBRO  V 

Col  ferrato  suo  cerro  allor  secondo 
Mosse  il  Tidide:  nè  di  mano  indarno 
11  telo  gli  fuggì;  chè  tra  le  poppe 
Del  nemico  s’infisse,  e dalla  biga 
Lo  spiombò.  Diede  Ideo,  visto  quel  colpo, 
Un  salto  a terra , e in  un  col  suo  bel  carro 
Smarrito  abbandonò  la  pia  difesa 
Dell’ucciso  fratel.  Nè  avria  schivato 
Perciò  la  morte;  ma  Yulcan  di  nebbia 
Lo  rìcinse  e servollo,  onde  non  resti 
Il  vecchio  padre  desolato  al  tutto. 

Tolse  i destrieri  il  vincitore,  e trarli 
Da’ compagni  li  fece  alle  sue  navi. 

Visti  i due  figli  di  Darete  i Teucri 
L’un  freddo  nella  polve  e l’altro  in  fuga. 
Turbarsi;  e la  glaucopide  Minerva, 

Preso  per  mano  il  fero  Marte,  disse: 

O Marte,  Marte,  esizìoso  Iddio, 

Che  lordo  ir  godi  d’uman  sangue  c al  suolo 
Adeguar  le  città,  non  lasccrcmo 
Noi  dunque  battagliar  soli  tra  loro 
Teucri  ed  Achei,  qualunque  sia  la  parte. 
Cui  dar  la  palma  vorrà  Giove?  Or  via, 
Ritiriamci;  evitiam  l’ira  del  nume. 

In  questo  favellar  trasse  la  scaltra 
L’impetuoso  Dio  fuor  del  conflitto, 

E su  la  riva  riposar  lo  fece 
Dell’erboso  Scamandro.  Allora  i Danai 
Cacciar  li  Teuci^  in  fuga;  e ognun  de’ duci 
Un  fuggitivo  uccise.  Agamennone 
Primier  riversa  il  vasto  Hodio  dal  carro. 
Degli  Alizóni  condottiero,  e primo 
Al  fuggir.  Gli  piantò  l’asta  nel  tergo, 

E fuor  del  petto  uscir  la  fece.  Ei  cadde 
Romoroso,  e sonar  l’armi  sovr’csso. 

Dalla  glcbosa  Tarnc  era  venuto 
Pesto,  figliuol  del  Méonc  Boro.  Il  colse 
Idomcnéo  coll’asta  alla  diritta 
Spalla  nel  punto  che  salia  sul  carro. 

Cadde  il  meschin  d’orrenda  notte  avvolto, 
Mosti.  Iliade.  7 


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9» 


ILIADE 


r.  6i*ioo 


R i servi  lo  spogliai'  d’ Idomcnéo. 

L’Àtride  Menelao  di  Strofio  il  figlio , 
Scamandrio  , uccise,  cacciator  famoso, 

Cui  la  stessa  Diana  ammaestrava 
Le  fere  a saettar  quante  ne  pasce 
Montana  selva:  e nulla  allor  gli  valse 
La  Diva  amica  degli  strali,  e nulla 
L’ arte  dell'  arco.  Menelao  lo  giunse 
Mentre  innanzi  gli  fugge,  e tra  le  spalle 
L'asta  gli  spinse,  e trapassógli  il  petto. 
Boccon  cadde  il  trafitto,  e cupamente 
L'armi  sovr'esso  rimbombar  s' udirò. 

Prole  del  fabbro  Àrmònide,  Fercclo, 

Da  Merion  fu  spento.  Era  costui 
Per  tutte  guise  di  lavoi'i  industri 
Maraviglioso , e a Pallade  Minerva 
Caramente  diletto.  Opra  fur  sua 
Di  Paride  le  navi,  onde  principio 
Ebbe  il  danno  de'Teucri  c di  lui  stesso. 
Perché  i decreti  degli  Dei  non  seppe. 
L’inseguì,  lo  raggiunse,  lo  percosse 
Nel  destro  clune  Merìone,  e sotto 
L’  osso  vèr  la  vescica  uscì  la  punta: 

Gli  mancàr  le  ginocchia,  e guajolando 
E cadendo  il  coprì  di  morte  il  velo. 

Megc  uccise  Pedéo , bastarda  prole 
D’Anténorc,  cui  l’inclita  Teano, 
Gratificando  al  suo  consorte,  avea 
Con  molta  cui'a  nutricato  al  paro 
Dei  diletti  suoi  figli.  Si  fe  sopra 
A costui  coll’acuta  asta  il  Filide 
Mcge,  e alla  nuca  lo  ferì.  Trascorse 
Tra  i denti  il  ferro,  e gli  tagliò  la  lingua. 
Così  concio  egli  cadde,  e nella  sabbia 
Fc  tenaglia  co’ denti  al  freddo  acciaro. 

Ipsénore,  figliuol  del  generoso 
Dolop'ion,  scamandrio  sacerdote 
Riverito  qual  Dio,  fugge  davanti 
Al  chiaro  germe  d’Evemóne,  Euripiio. 
Euripilo  l’ insegne^  c,  via  correndo, 


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UBRO  V 


99 


101-140 

Tal  gli  cala  su  1’ òmero  un  feudente, 

Che  il  braccio  gli  recide.  Sanguinoso 
Casca  il  mozzo  lacerto  nella  polve, 

E la  purpurea  morte  e il  violento 
Fato  le  luci  gli  abbujàr.  Di  questi 
Tal  nell’acerba  pugna  era  il  lavoro. 

Ma  di  qual  parte  fosse  Diomede, 

Se  trojano  od  acheo,  mal  tu  sapresti 
Discemere,  sì  fervido  ei  trascorre 
Il  campo  tutto.  Simile  alla  piena 
Di  tumido  torrente,  che,  cresciuto 
Dalle  piogge  di  Giove,  ed  improvviso 
Precipitando,  i saldi  ponti  abbatte, 

Debil  freno  alle  fiere  onde  4 e de’ verdi 
Campi  i ripari  rovesciando,  ingoja 
Con  fragor  le  speranze  e le  fatiche 
De’ gagliardi  coloni  4 a questa  guisa 
Sgominava  il  Tidide  e dissipava 
Le  caterve  de’Troi,  che  sostenerne 
Non  potean,  benché  molti,  la  mina. 

Come  Pàndaro  il  vide  si  furente 
Scorrere  il  campo,  e tutte  a sé  dinanzi 
Scompigliar  le  falangi,  alla  sua  mira 
Curvò  sulnto  l’arco,  e l’ irruente 
Eroe  percosse  alla  diritta  spalla. 

Entrò  pel  cavo  dell’usbergo  il  crudo 
Strale,  e forollo,  e il  sanguinò.  Coraggio, 
Forte  allora  gridò  l’inclito  figlio 
Di  Licaon,  magnanimi  Trojani^ 

Stimolate  i cavalli,  ritornate 
Alla  pugna.  Ferito  é degli  Achei 
11  più  forte  guerrier:  né  credo  ei  possa 
A lungo  tollerar  l’acerbo  colpo, 

Se  vano  feritor  non  mi  sospinse 
Qua  dalla  Licia  il  re  dell’arco,  Apollo. 

Così  gridava  il  vantator.  Ma  domo 
Non  restò  da  quel  colpo  Diomede , 

Che  ritraendo  il  passo,  e de’ cavalli 
Coprendosi  c del  cocchio,  al  suo  fedele 
Capancide  si  rivolse,  e disse: 


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j,.  i4i-i8o 

Corri,  Stcnelo  mio^  scendi  dal  carro, 

E dairómcro  tosto  mi  divelli 
Questo  acerbo  quadrel.  — Diè  un  salto  a terra 
Sténelo  , e corse,  e l'aspro  strai  gli  svelse 
Dall'omero  trafitto.  Per  la  maglia 
Dell'usbergo  spicciava  il  caldo  sangue, 

E imperturbato  sì  1'  eroe  pregava  : 

Invitta  figlia  dell'  Egioco  Giove , 

Se  nell' ardenti  pugne  unqua  a me  fosti 
Del  tuo  favor  cortese  e al  mio  gran  padre. 

Odimi,  o Dea  MInei-va,  cd  or  di  nuovo 
M'assisti,  e al  tiro  della  lancia  mia 
Manda  il  mio  fcritor:  dammi  ch'io  spegna 
Questo  ventoso  nebulon,  che  grida 
Ch’io  del  Sol  non  vedrò  più  l’aurea  luce. 

Udì  la  Diva  il  prego,  c a lui  repente 
E mani  e piedi  e tutta  la  persona 
Agile  rese;  e,  fattasi  vicina 
E manifesta,  disse;  Ti  rinfranca, 

Diomede,  c co'Troi  pugna  sccuro; 

Ch’  io  del  tuo  grande  gcnitor  Tidéu 
L’invitta  gagliardia  ti  pongo  in  petto, 

E la  nube  dagli  occhi  ecco  ti  sgombro. 

Che  la  vista  mortai  t’appanna  c grava, 

Onde  tu  ben  disccrna  le  divine 
E fumane  sembianze.  Ove  alcun  Dio 
Qui  ti  venga  a tentar,  tu  con  gli  Eterui 
Non  cimentarti,  no;  ma  se  in  conflitto 
Vicn  la  figlia  di  Gio\c,  Citeréa, 

L’acuto  ferro  adopra,  c la  ferisci. 

Sparve,  ciò  detto,  la  cerulea  Diva. 

AUor  diò  volta,  c si  mischiò  tra’ primi 
Combattenti  il  Tidi'de,  a pugnar  pronto 
Più  che  prima  d’ assai  ; che  in  quel  momento 
Triplice  in  petto  si  sentì  la  forza. 

Come  lìon,  che,  mentre  il  gregge  assalta, 
Ferito  dal  pastor,  ma  non  ucciso. 

Vie  più  s’infuria,  c superando  tutte 
Resistenze,  si  slancia  entro  l’ovile; 

Derelitte,  tremanti  ed  affollate 


If  i I - 


LIBBO  Y 


101 


p.  i8t*a>o 

L'  una  addosso  dell'altra  si  riversano 
Le  pecorelle,  ed  ci  vi  salta  in  mezzo 
Con  ingordo  furor^  tal  dentro  ai  Teucri 
Diede  il  forte  Tidide.  À prima  giunta 
Astinoo  uccise  ed  Ipendr:  trafisse 
L'uno  coll'asta  alla  mammella^  all'altro 
La  paletta  dell' omero  percosse 
Con  tale  un  colpo  della  grande  spada, 

Che  gli  spiccò  dal  collo  c dalla  schiena 
L' òmero  netto.  Dopo  questi  addosso. 

Ad  Abante  si  spicca  e a Puliido, 

Figli  del  veglio  interprete  di  sogni 
Euridamante^  ma  il  meschin  non  seppe 
NeUa  lor  dipartenza  a questa  volta 
Divinarne  il  destina  ch’ambi  il  Tidide 
Li  pose  a morte,  e li  spogliò.  Drizzossi 
Quindi  a Xanto  e Faon,  figli  a Fenòpo, 
Ambo  a lui  nati  nell’età  canuta. 

In  amara  vecchiezza  il  derelitto 
Genitor  si  struggea^  chè  d’altra  prole, 

Cui  sua  reda  lasciar,  lieto  non  era. 

Gli  spense  ambo  il  Tidide;  c,  lor  togliendo 
La  cara  vita,  in  aspre  cure  c in  pianti 
Pose  il  misero  padre,  a cui  negato 
Fu  il  vederli  tornar  dalla  battaglia 
Salvi  al  suo  seno;  c di  lui  morto  in  lutto 
Ignoti  credi  si  partir  l’avere. 

Due  Pri'amidi,  Cromio  ed  Echemòne  , 
Veniano  entrambi  in  un  sol  cocchio.  A questi 
S’avventò  Diomede^  e col  furore 
Di  lion,  che  una  mandra  al  bosco  assalta, 

E di  giovenca  o bue  frange  la  nuca; 

Così  mal  conci  entrambi  il  fier  Tidide 
PrecipitoUi  dalla  biga:  e tolte 
L’arme  de’ vinti,  a’ suoi  sergenti  ei  dienne 
I destrieri,  onde  trarli  alla  marina. 

Come  de’ Teucri  sbarattar  le  file 
Videlo  Enea,  si  mosse,  e per  la  folta 
E fra  il  rombo  dell’ aste  discorrendo, 

A cercar  dicssi  il  valoroso  c chiaro 


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101 


ILIADE 


Figlio  di  Licaon,  Pàndaro.  Il  trova; 

Gli  si  apprescnta,  c fa  questo  parale: 

Pàndaro,  dov’è  l’arco?  ove  i veloci 
Tuoi  strali?  ov’i  la  gloria,  io  che  qui  nullo 
Teco  gareggia,  nè  venin  si  vanta 
Licio  arcier  superarti?  Or  su,  ti  sveglia; 
Alza  a Giove  la  mano;  un  dardo  allenta 
Contro  costui,  qualunque  ei  sia,  che  désta 
Cotanta  strage,  e sì  malmena  i Teucri, 
De’quai  già  molti  e forti  a giacer  pose: 

Se  pur  egli  non  fosse  un  qualche  nume 
Adirato  ccm  noi  per  obbliati 
Sacri 6zi  : e de’ numi  acerba  è l’ira. 

Così  d’Anchisc  il  figlio.  E il  figlio  a lui 
Di  Licaonc:  O delle  teucre  genti 
Inclito  duce,  Enea,  se  quello  scudo, 

E quell’elmo  a tre  coni,  e quei  destrieri 
Ben  riconosco,  colai  parmi  in  tutto 
11  forte  Diomede.  E nondimeno 
Negar  non  l’oso  un  Immortal.  Ma  s’egli 
È il  mortale,  ch’io  dico,  il  bellicoso 
Figliuolo  di  Tidèo,  tanto  furore 
Non  è senza  il  favor  d’un  qualche  iddio, 
Che  di  nebbia  i celesti  òmeri  avvolto 
Stagli  al  fianco,  e dal  petto  gli  disvia 
Le  veloci  saette.  Io  gli  scagliai 
Dianzi  Un  dardo,  e lo  colsi  alla  diritta 
Spalla  nel  cavo  del  torace , e certo 
D’ averlo  mi  credea  sospinto  a Fiuto. 

Pur  non  lo  spensi:  c ir^to  quindi  io  temo 
Qualche  nume.  Non  ho  su  cui  salire 
Or  qui  cocchio  verun.  Stolto!  chè  in  serbo 
Undici  ne  lasciai  nel  patrio  tetto 
Di  fresco  fatti  e belli,  e di  cortine 
Ricoperti , con  due  d’ orzo  c di  spelda 
Ben  pasciuti  cavalli  a ciascheduno. 

E si,  che  il  giorno  eh’  io  partii,  gli  eccelsi 
Nostri  palagi  abbandonando,  il  veglio 
Guerriero  Licaon  molti  nc  dava 
Prudenti  avvisi,  c mi  facea  precetto 


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LIBRO  V 


io3 


. lSl-3oo 

Dì  guidar  tempre  mai  montato  in  cocchio 
Le  trojane  coorti  alla  battaglia. 

Certo  era  meglio  l’obbedir^  ma,  folle! 

Noi  feci,  ed  ebbi  ai  corridor  riguardo, 
Temendo  che,  assueti  a largo  pasto. 

Di  pasto  non  patissero  difetto 
In  racchiusa  città.  Lasciàili  adunque, 

E pedon  venni  ad  Ilio,  ogni  fidanza 
Posta  nell’  arco,  che  giovarmi  poscia 
Dovea  sì  poco.  Saettai  con  questo 
Due  de’ primi,  l’Àtrìde  ed  il  Tidide, 

E ferii  l’uno  e l’altro,  e il  vivo  sangue 
Ne  trassi  io,  sì,  ma  n’attizzai  più  l’ira. 

In  mal  punto  spiccai  dunque  dal  muro 
Gli  archi  ricurvi  il  di  che,  al  grande  Ettorrc 
Compiacendo,  qua  mossi,  e de’Trojani 
11  comando  accettai.  Ma  se  redire. 

Se  con  quest’ occhi  riveder  m’è  dato 
La  patria,  la  consorte  e la  sublime 
Mia  vasta  reggia,  mi  recida  ostile 
Ferro  la  testa,  se  di  propria  mano 
Non  infrango,  e non  getto  nell’ accese 
Vampe  quest’arco,  inutile  compagno. 

E al  borioso  il  duce  Enea:  Non  dire. 

No,  questi  spregi.  Della  pugna  il  volto 
Cangerà,  se  ambedue  sopra  un  medesmo 
Cocchio  raccolti  aifronterem  costui, 

E farem  delle  nostre  armi  periglio. 

Monta  dunque  il  mio  carro,  e de’ cavalli 
Di  Troe  vedi  la  vaglia,  e come  in  campo 
Per  ogni  lato  sappiano  veloci 
Inseguire  e fuggir.  Questi  (se  avvegna 
Che  il  Tonante  di  nuovo  a Diomede 
Dìa  dell’ armi  l’onor),  questi  trarranno 
Salvi  noi  pure  alla  cittade.  Or  via. 

Prendi  tu  questa  sferza  e queste  briglie^ 

Ch’  io  de’  corsieri , per  puguar , ti  cedo 
Il  governo:  o costui  tu  stesso  affronta; 

Chè  de’ corsieri  sarà  mia  la  cura. 

Si  (riprese  il  figliuol  di  Licaone), 


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ILUDE 


Ticn  tu  le  briglie,  Enea^  reggi  tu  stesso 
I tuoi  cavalli,  che  la  mano  udendo 
Del  consueto  auriga,  il  curvo  carro 
Meglio  trarranno,  se  fuggir  fia  forza 
Dal  figlio  di  Tidco.  Se  lor  vien  manco 
La  tua  voce,  potrian  per  caso  istrano 
Spaventati  adombrarsi,  e senza  legge 
Aggirarsi  pel  campo,  c a trarne  fuori 
Della  pugna  indugiar  tanto,  che  il  fero 
Diomede  n’assegua  impetuoso. 

Ed  entrambi  n’uccida,  e via  nc  meni 
1 destrieri  di  Troe.  Resta  tu  dunque 
Al  timone  e alle  briglie^  chè  coll’asta 
Io  del  nemico  sosterrò  l’ assalto. 

Montar,  ciò  detto,  sull’adorno  cocehio, 

E animosi  drizzar  contro  il  Tidide 
1 veloci  cavalli.  Il  chiaro  figlio 
Di  Capanéo  li  vide,  ed  all’amico 
Volto  il  presto  parlar;  Tidide,  ci  disse. 
Mio  diletto  Tidide,  a pugnar  teco 
Veggo  pronti  venir  due  di  gran  nerbo 
Valorosi  gucrrier:  l’uno,  il  famoso 
Pàndaro  arderò,  che  figliuol  si  vanta 
Di  Licaonc^  e l’altro,  Enea,  che  prole 
Vantasi  el  pur  di  Venere  e d’Anchise. 

Su,  presto  in  cocchio^  riliriamci,  e incauto 
Tu  non  istarmi  a furiar  tra  i primi 
Con  si  gran  rischio  della  dolce  vita. 

Bieco  guatollo  il  gran  Tidide,  c disse; 

Non  parlarmi  di  fuga.  Indarno  tenti 
Persuadermi  una  viltà.  Fuggire 
Dal  cimento  c tremar,  non  lo  consente 
La  mia  natura;  ho  forze  integre,  e sdegno 
De’ cavalli  il  vantaggio.  Andrò  pedone, 
Quale  mi  trovo,  ad  incontrar  costoro; 

Chè  Pallade  mi  vieta  ogni  paura. 

Ma  non  essi  ambedue  salvi  di  mano 
Ci  scappcran,  dai  rapidi  sottratti 
Lor  corridori;  ed  avveiTÙ,  che  appena 
Nc  scampi  un  solo.  Un  altro  avviso  ancora 


».  34i.38o  U»«0  3T  I o5 

Vo' dirti,  e tu  non  l’obbtiar.  Se  fia 
Che  l'alto  onore  d' atterrarli  entrambi 
La  prudente  Minenra  mi  conceda, 

Tu  per  le  briglie  allora  i miei  cavalli 
Lega  all' anse  del  cocchio,  e ratto  vola 
Ài  cavalli  d'Enea,  e dai  Trojani 
Via  te  li  mena  fra  gli  Achei.  Son  essi 
Della  stirpe  gentil  di  quei  che  Giove, 

Prezzo  del  figlio  Ganimede,  un  giorno 
A Troe  donava^  nè  miglior  destrieri 
Vede  l'occhio  del  Sole  c dell'Aurora. 

Al  re  Laomedonte  il  prence  Ànchise 
La  razza  ne  furò,  soppostc  ai  padri 
Segretamente  un  di  le  sue  puledre , 

Che  di  tale  imeneo  sei  generosi 
Corsicr  gli  partorirò.  Egli  n'impingua 
Quattro  di  questi  a sè  nel  suo  presepe, 

E due  ne  cesse  al  figlio  Enea,  superbi 
Cavalli  da  battaglia.  Ove  n'avvegna 
Di  predarli,  n'avremo  immensa  lode. 

Mentre  scguian  tra  lor  queste  parole. 

Quelli  incitando  i corridoi’  veloci 
Tosto  appressarsi,  e Pàndaro  primiero 
Favellò:  Bellicoso  ardito  figlio 
Dell’illustre  Tidéo,  poiché  l’acuto 
Mio  strai  non  ti  domò,  vengo  a far  prova 
S’io  di  lancia  ferir  meglio  mi  sappia. 

Cosi  detto,  la  lunga  asta  vibrando, 

Fulminolla,  e colpì  di  Diomede 
Lo  scudo  sì,  che  la  ferrata  punta 
Tutto  passollov,  e ne  sfiorò  l’usbergo. 

Sci  ferito  nel  fianco  (alto  allor  gi-ida 
L'illustre  fcritor)^  nè  a lungo,  io  spero. 

Vivrai:  la  gloria,  che  mi  porti,  è somma - 

Errasti,  o folle,  il  colpo  (imperturbato 
Gli  rispose  l'eroe)^  ben  io  m’avviso. 

Ch’uno  almeno  di  voi,  pria  di  ristarvi 
Da  questa  zufia,  nel  suo  sangue  steso 
L’ ira  di  Marte  sazier<à.  Ciò  detto. 

Scagliò.  Minerva  ne  diresse  il  telo, 


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loG  ILIADE  ».  38l  4» 

E a lui,  che  curvo  lo  sfoggia,  caccioUo 
Tra  il  naso  e il  ciglio.  Pcnelrii  l'acuto 
Ferro  tra’ denti,  ne  tagliò  l’estrema 
Lingua,  e di  sotto  al  mento  uscì  la  punta. 

Piombò  dal  cocchio,  gli  tonàr  sul  petto 
L’armi  lucenti,  sbigottir  gli  stessi 
Cavalli,  e a lui  si  sciolsero  per  sempre 
E le  forze  e la  vita.  Enea,  temendo 
In  man  non  caggia  degli  Achei  l’ucciso. 

Scese ^ e,  protesa  a lui  l’asta  e lo  scudo, 

Giravagli  dintorno  a simiglianza  * 

Di  6er  bone  in  suo  valor  sicuro; 

E parato  a ferir  qual  sia  nemico. 

Che  gli  si  accosti,  il  difendea,  gridando 
Orribilmente.  D^è  di  piglio  allora 
Ad  un  enorme  sasso  Diomede 
Di  tal  pondo,  che  due  noi  porterebbero 
Degli  uomini  moderni;  ed  ei,  vibrandolo 
Agevolmente,  e solo  e con  grand’impeto 
Scagliandolo,  percosse  Enea  nell’osso. 

Che  alla  coscia  s’innesta,  ed  è nomato 
Ciotola.  Il  fracassò  l’aspro  macigno 
Con  ambi  i nervi,  e ne  stracciò  la  pelle. 

Diò  del  ginocchio  al  grave  colpo  in  terra 
L’eroe  ferito,  e colla  man  robusta 
Puntellò  la  persona.  Un  negro  velo 
Gli  coperse  le  luci;  e qui  pena. 

Se  di  lui  tosto  non  si  fosse  avvista 
L’alma  figlia  di  Giove,  Citeréa, 

Che  d’Anchise  pastor  l’avea  concetto. 

Intorno  al  caro  figlio  ella  dHTuse 
Le  bianche  braccia,  c del  lucente  peplo 
Gli  antepose  le  falde,  onde  dall’armi 
Ripararlo,  e impedir  che  ferro  acheo 
Gli  passi  il  petto,  e l’anima  gl’ involi. 

Mentj-c  al  fiero  conflitto  ella  sottraggo 
Il  diletto  figliuola  Stendo,  il  cenno 
Membrando  dell’amico,  uc  sostiene 
In  disparte  i cavalli;  c,  prestamente 
All’ anse  della  biga  avviluppate 


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LIBIO  V 


r.  4*1*4^ 


Le  redini,  s’avventa  ai  ben  chiomali 
Corridori  d’Enea;  di  mezzo  ai  Teucri, 

Agli  Achivi  li  spinge,  ed  alle  navi 
Spedisceli  fidati  al  dolce  amieo 
Deipilo,  cui  sopra  ogni  altro  eguale. 

Perchè  d’alma  conforme,  in  pregio  ei  tiene. 
Esso  intanto  1’  eroe  Gapaneidc , 

Rimontato  il  suo  cocchio,  e in  man  riprese 
Le  rilucenti  briglie,  allegramente 
De’ cavalli  sonar  l’ugna  facea 
Dietro  il  Tidide,  che  coll’empio  ferro 
L’alma  Venere  insegue,  la  sapendo 
Non  una  delle  Dee,  che  de’ mortali 
Godon  le  guerre  amministrar,  siccome 
Minerva  e la  di  mura  attcrratrice 
Torva  Bellona,  ma  nn’ imbelle  Diva. 

Poiché  raggiunta  per  la  folta  ei  l’ebbe. 
Abbassò  l’asta  il  fiero,  e coll’acuto 
Ferro  l’assalse,  e della  man  gentile 
Gli  estremi  le  sfiorò  verso  il  confine 
Della  palma.  Forò  l’asta  la  cute. 

Rotto  il  peplo  odoroso  a lei  tessuto 
Dalle  Grazie,  e fluì  dalla  ferita 
L’icóre  della  Dea,  sangue  immortale, 

Qual  corre  de’ Beati  entro  le  vene^ 

Ch’essi,  nè  fnitto  cercai  gustando. 

Nè  rubicondo  vino,  esangui  sono, 

E quindi  han  nome  d’immortali.  Al  colpo 
Died’ella  un  forte  grido,  c dalle  braccia 
Depose  il  figlio,  a cui  difesa  Apollo 
Corse  tosto,  e l’ascose  entro  una  nube. 
Onde  camparlo  dall’achee  saette. 

Il  bellicoso  Diomede  intanto  ! 

Cedi,  figlia  di  Giove,  alto  gridava; 

Cedi  il  piè  dalla  pugna.  E non  ti  basta 
Sedur  d’imbelli  femminette  il  core^ 

Se  qui  troppo  t’avvolgi,  io  porto  avviso. 
Che  tale  desteraRi  orror  la  guerra , 

Ch’anco  il  sol  nome  ti  darà  paura. 

Disse  ; ed  ella  turbata  ed  affannosa 


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I08  ILUDE  , 

Partiva.  La  veloce  Iri  per  mano 
La  prese,  la  tirò  fuor  del  tumulto 
Carca  di  doglie  e livida  le  nevi 
Della  morbida  cute.  Alla  sinistra 
Della  pugna  seduto  il  fui'ibondo 
Marte  trovò:  la  grande  asta  del  Nume 
E I veloci  corsier  cingea  la  nebbia. 

Gli  abbracciò  le  ginocchia,  supplicando. 

La  sorella,  c gridò:  Caro  fratello, 

Miscrcre  di  me^  dammi  il  tuo  cocchio, 
Ond'  io  salga  alf  Olimpo.  Assai  mi  crucia 
Una  ferita  che  mi  feo  la  destra 
D'un  ardito  mortai,  di  Diomede, 

Che  pur  con  Giove  piglieria  contesa. 

Sì  pregai  c Marte  i bei  destricr  le  cede. 
Sali  sul  cocchio  allor  la  dolorosa. 

Salì  al  suo  fianco  la  Taumanzia  figlia^ 

E,  in  man  tolte  le  brìglie,  a tutto  corso 

I cavalli  sferzò,  che  desiosi 
Volavano.  Arrivar  tosto  all’Olimpo, 

Eccelsa  sede  degli  Eterni.  Quivi 
Arrestò  la  veloce  Iri  i corsieri. 

Li  disciolsc  dal  giogo , c ristorolli 
D' immortai  cibo.  La  divina  intanto 
Venere  al  piede  si  gittò  dell’alma 
Genitrice  Dì'ona,  clic  la  figlia 
Raccogliendo  al  suo  seno,  e colla  mano 
La  carezzando  c interrogando:  Oli!  disse. 
Oh!  chi  mai  de’ Celesti  si  permise. 

Amata  figlia,  in  te  sì  grave  oiTesa, 

Come  rea  di  gran  fallo  alla  scoperta? 

II  superbo  Tidide  Diomede, 

Rispose  Citeréa,  l’empio  fcrimmi 

Perchè  il  mio  figlio , il  mio  sovra  ogni  cosa 
Diletto  Enea  sottrassi  dalla  pugna. 

Che  pugna  non  è più  di  Teucri  e Achivi, 
Ma  d’ Achivi  c di  numi.  — E a lei  D'iona , 
Inclita  Diva,  replicò:  Sopporta 
In  pace,  o figlia,  il  tuo  dolor;  che  molti 
Degl’Immortali  con  alterno  danno 


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LIBRO  V 


V 5oi-54o 


Molte  soilrimmo  dai  mortali  oflese. 

Le  sofirl  Marte  il  dì,  ehe  gli  Aloidi, 

Oto  e il  forte  Efialte,  Tannodaro 
D'aspre  catene.  Un  anno  avvinto  e un  mese 
In  carcere  di  ferro  egli  si  stette^ 

E forse  vi  peria,  se  la  leggiadra 
Madrigna  Eeribéa  noi  rivelava 
Al  buon  Mercurio,  che  di  là  furtivo 
Lo  sottrasse , già  tutto  per  la  lunga 
E dolorosa  prigionia  consunto. 

Le  soilri  Giuno  allor  che  il  forte  figlio 
D'Anfitrione  con  trisulco  dardo 
La  destra  poppa  le  piagò  sì,  ch'ella 
D'alto  duol  ne  fu  cólta.  Anco  il  gran  Pluto 
Dal  medesmo  mortai  figlio  di  Giove 
Aspro  soflerse  di  saetta  un  colpo 
Là  su  le  porte  dell’Inferuo;  c tale 
Lo  conquise  un  dolor,  che  lamentoso 
E con  lo  strai  ne' duri  omeri  infisso, 
All’Olimpo  sen  venne,  ove  Peone, 

Di  lenitivi  farmaci  spargendo 
La  ferita,  il  sanò;  che  sua  natura 
Mortai  non  era;  ma  ben  era  audace 
E scellerato  il  fcritor,  che  d’ogni 
Nefario  fatto  si  fea  beffe,  osando 
Fin  gli  abitanti  saettar  del  cielo. 

Oggi  contro  te  pur  spinse  Minerva 
11  figlio  di  Tidéo.  Stolto  ! chò  seco 
Punto  non  pensa,  che  son  brevi  i giorni 
Di  chi  combatte  con  gli  Dei:  nò  babbo 
Lo  chiameran  tornato  dalla  pugna 
I figlioletti  al  suo  ginocchio  avvolti. 

Benché  forte  d’assai,  badi  il  Tididc, 

Gh’un  più  forte  di  tc  seco  non  pugni; 

Badi,  che  l’Adrastina  Egìalca, 

Di  Diomede  generosa  moglie. 

Presto  non  debba  risvegliar  dal  sonno. 
Ululando,  i famigli,  c il  forte  Aclico 
Plorar,  che  colse  il  suo  virginco  fiore. 

In  questo  dir  con  ambedue  le  palme 


109 


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1 iO 


lUÀDE  , 

La  man  le  asterse  dal  rappreso  icóre, 

E la  man  si  sanò,  queta  ogni  doglia. 

Riser  Giuno  e Minerva  a quella  vista; 

E con  amaro  motteggiar  la  Diva 
Dalle  glauche  pupille  il  genitore 
Così  prese  a tentar:  Padre,  senz’ira 
Un  fiero  caso  udir  vuoi  tu?  Ciprigna, 
Qualche  leggiadra  Achea  sollecitando 
A seguir  seco  i suoi  Teucri  diletti. 

Nel  carezzarla  ed  acconciarle  il  peplo, 

A un  aurato  ardiglione,  ohimè!  s’ù  punta 
La  dilicata  mano.  Il  sommo  Padre 
Grazioso  sorrise;  c a sé  chiamata 
L’aurea  Venere:  Figlia,  le  dicea. 

Per  te  non  sono  della  guerra  i fieri 
Studi,  ma  1’ opre  d’ Imeneo  soavi. 

A queste  intendi  ; ed  il  pcnsier  dell’  armi 
Tutto  a Marte  lo  lascia  ed  a Minerva. 

Mentre  in  cielo  seguian  queste  favelle. 
Contro  il  figlio  d’Anchise  il  bellicoso  . 
Diomede  si  spinge,  nè  l’arresta 
n saper,  che  la  man  d’ Apollo  il  copre. 
Desioso  di  porre  Enea  sotterra, 

E spogliarlo  dell’ armi  peregrine. 

Nulla  ei  rispetta  un  si  gran  Dio.  Ti-e  volte 
A morte  l’assali,  tre  volte  Apollo 
Gli  scosse  in  fàccia  il  luminoso  scudo. 

Ma  come  il  forte  Calidonio  al  quarto 
Impeto  venne,  il  saettante  nume 
Terribile  gridò:  Guarda  che  fai; 

•Via  di  qua,  Diomede:  il  paragone 
Non  tentar  degli  Dei;  chè  de’ Celesti 
E de’ terrestri  è disugual  la  schiatta. 

Disse;  c alquanto  l’eroe  ritrasse  il  piede 
L’ira  evitando  dcll’arcicro  Apollo, 

Che,  fuor  condotto  della  mischia  Enea, 

Nella  sacrata  Pèrgamo  fra  l’arc 

Del  suo  delubro  il  pose.  Ivi  Latoiia, 

Ivi  l’amante  dello  strai.  Diana 
Lo  curàr,  l’onoraro.  Intanto  Apollo 


541*580 


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58i-6io 


LIBRO  V 


Formò  di  tenue  nebbia  una  figura 
In  sembianza  d’Enea^  d'Enea  le  finse 
L’armi,  e dintorno  al  vano  simulacro 
Teucri  ed  Achei  facean  di  targhe  e scudi 
Un  alterno  spezzar,  che  intorno  ai  petti 
Orrendo  risonava.  Àllor  si  volse 
Al  Dio  dell’ armi  il  Dio  del  giorno,  e disse 

Eversor  di  città,  Marte  omicida. 

Che  sol  nel  sangue  esulti,  e non  andrai 
Ad  aggredir  tu  dunque,  a cacciar  lungi 
Questo  altiero  mortai,  questo  Tididc, 

Che  alle  mani  verna  con  Giove  ancora? 
Egli  assalse  e feri  prima  Ciprigna 
Al  carpo  della  mano;  indi  avvcntossi 
A me  medesmo  coll’ ardir  d’un  Dio. 

Si  dicendo,  s’ assise  alto  sul  culmo 
Della  pergàmea  ròcca;  e il  rovinoso 
Marte  sen  corse  a concitar  de’ Teucri 
Le  schiere;  e preso  d’Acamante  il  volto, 
D’Acamante  de’Tracj  esimio  duce, 

CoA  prese  a spronar  di  Pnamo  i figli  : 

Illustri  Priamidi,  e sino  a quando 
Permetterete  della  vostra  gente 
Per  la  man  degli  Achei  si  rio  macello? 

Sin  tanto  forse  che  la  strage  arrivi 
Alle  porte  di  Troja?  A terra  è steso 
L’eroe,  che  al  pari  del  divino  Ettorre 
Onoravamo,  Enea,  preclaro  figlio 
Del  magnanimo  Anchisc.  Andiam;  si  voli 
Alla  difesa  di  cotanto  amico. 

Destar  la  forza  e il  cor  d’ogni  guerriero 
Queste  parole.  Sarpedon,  con  aspre 
Rampogne  allora  rabbuffando  Ettorre: 

Dove  andò , gli  dicea , l’ alto  valore , 

Che  poc’anzi  t’avevi?  E pur  t’udimmo 
Vantarti  che  tu  sol  senza  l’ aita 
De’ collegati , e co’ tuoi  soli  affini 
E co’fratei  bastavi  alla  difesa 
Della  città.  Ma  ninno  io  qui  ne  veggo, 
Niun  ne  ravviso  di  costor;  che  tutti 


1 12 


ILUOB 


V.  6ii456o 


Trepidanti  s’arretrano  siccome 
Timidi  veltri  intorno  ad  un  leone; 

E qui  frattanto  combattiam  noi  soli, 

Noi  venuti  in  sussidio,  lo,  clie  mi  sono 
Pur  della  lega,  di  lontana  al  certo 
Parte  mi  mossi,  dalla  licia  terra. 

Dal  vorticoso  Xanto,  ove  la  cara 
Moglie  ed  un  figlio  pargoletto  e multi 
Lasciai  di  quegli  averi,  a cui  sospira 
L’uomo  mai  sempre  bisognoso.  E pure 
Alleato  qual  sono,  i miei  guerrieri 
Eisorto  alla  battaglia;  ed  io  medesmu 
Sto  qui  pronto  a pugnar  centra  costui. 
Benché  qui  nulla  io  m’abbia  che  il  nemico 
Rapir  mi  possa,  nè  portarlo  seco. 

E tu  ozioso  ti  ristai?  nè  almeno 
Agli  altri  accenni  di  far  fronte,  c in  salvo 
Por  le  consorti?  Guardati,  che  presi. 
Siccome  in  ragna,  che  ogni  cosa  involve, 

Non  divenghiatc  del  crudel  nemico 
Cattura  e preda,  e ch’ei  tra  poco  al  suolo 
La  vostr’alma  cittade  non  adegui. 

A te  tocca  l’aver  di  ciò  pensiero 
E giorno  e notte,  a te  dell’alleanza 
I capitani  supplicar,  che  fermi 
Resistano  al  lor  posto,  e far  che  niuna 
Gagion  più  sorga  di  rampogne  acerbe. 

D’Ettore  al  cor  fu  morso  amaro  il  detto 
Di  Sarpedontc  si,  che  tostò  a terra 
Saltò  dal  cocchio  in  tutto  punto;  e l’asta 
Sentendo,  ad  animar  corse  veloce 
D’ogni  parte  i Trojani  alla  battaglia, 

E destò  mischia  dolorosa.  Allora 
Voltar  la  fronte  i Teucri,  e impetuosi 
Pèrsi  incontro  agli  Achei,  che  stretti  insieme 
Gli  aspettar  di  piè  fermo  c senza  tema. 

Come  allor  che  di  Zefii'o  lo  spiro 
Disperde  per  le  sacre  ajc  la  pula. 

Mentre  la  bionda  Cerere  la  scevra 
Dal  suo  frutto  gentil,  che  il  buon  villano 


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LIBRO  V 


V.  661-700 

Vien  ventilando^  lo  Icggier  spulezzo 
Tutta  imbianca  la  parte,  ove  del  vento 
Lo  sospinge  il  soffiar^  così  gli  Àehivi 
Inalbava  la  polve  al  cielo  alzata 
Dall' ugna  de’ cavalli  entrati  allora 
Sotto  la  sferza  degli  aurigfai  in  zuffa. 
Diblati  portavano  i Trojani 
Il  valor  delle  destre,  e furioso 
Li  soccorrea  Gradivo,  discorrendo 
Il  campo  tutto , e tutta  di  gran  bnjo 
Là  battaglia  coprendo.  E sì  di  Febo 
I precetti  adempia,  di  Febo  Apollo 
D’aurea  spada  precinto,  che  comando 
Dato  gli  avea  d’accendere  ne’ Teucri 
L’ardimento  guerrier,  vista  partire 
L’ajutatrice  degli  Achei,  Minerva. 

Fuori  intanto  de’pingui  aditi  sacri 
Enea  messo  da  Febo,  e per  lui  tutto 
Di  gagliardia  ripieno,  apprcsentossi 
A’ suoi  compagni,  che  gioir,  vedendò 
Vivo  c salvo  il  guerriero  c rintegrato 
Delle  pristine  forze.  Ma  gravarlo 
D’ alcun  dimando  il  fier  noi  consentia 
Lavor  dell’ armi,  che  dell’arco  il  divo 
Sire  eccitava,  c l’omicida  Marte, 

C la  Discordia  ognor  furente  e pazza. 

D’altra  parte  gli  Ajaci  e Diomede 
E il  re  Dulichio  anch’  essi  alla  battaglia 
Raccendono  gli  Achei  già  per  sè  stessi 
Nè  la  furia  tementi  nè  le  grida 
Dc’Dàrdani,  ma  fermi  ad  aspettarli. 

Quai  nubi,  che  de’ monti  in  su  la  cima 
Immote  arresta  di  Saturno  il  figlio 
Quando  l'aria  è tranquilla  e il  furor  dorme 
Degli  Aquiloni  b d’altro  impetuoso 
Di  nubi  fugator  vento  sonoro^ 

Di  piè  fermo  così,  senza  veruno 
Pensier  di  fuga,  attendono  gli  Achivi 
De’Trojani  l’assalto.  E Agamennone, 

Per  le  file  scorrendo,  e molte  cose 
Morti.  Iliade. 


8 


ii4 


ILIADE 


0.  701.7 '|0 


D’ogni  parte  avvertendo:  Àmie!,  ei  grida, 

Uomini  siate,  e di  cor  forte;  e ognuno 

Nel  calor  della  pugna  il  guardo  tema 

Del  suo  compagno.  De'guerrier,  che  infiamma 

Generoso  pudore,  i salvi  sono 

Più  che  gli  uccisi;  chi  rossor  di  fuga 

Non  sente,  ha  persa  coll'onor  la  forza. 

Scagliò  Pasta,  ciò  detto;  ed  un  guerriero 
Percosse  de' prima!,  commilitone 
Del  magnanimo  Enea,  Deicoonte, 

Di  Pérgaso  figliuol,  tenuto  in  pregio 
Dai  Teucri  al  paro  che  di  Priamo  i figli , 
Perché  presto  a pugnar  sempre  tra’ primi. 
Colpillo  Atride  nell’opposto  scudo. 

Che  difesa  non  fece.  Trapassollo 
Tutto  la  lancia,  e per  lo  cinto  all’imo 
Ventre  discese.  Strepitoso  ei  cadde, 

G l’armi  rimbombar  sovra  il  caduto. 

Enea  diè  morte  di  rincontro  a due 
Valentissimi,  Orsiloco  e Cretonc, 

Figli  a Didcle,  della  ben  costrutta 
Città  di  Fere  un  ricco  abitatore. 

Scendea  costui  dal  fiume  Alféo,  che  largo 
La  pitia  terra  di  bell’ acque  inonda; 

Alféo  produsse  Orsiloco,  di  molte 
Genti  signore , Orsiloco  Didcle, 

E Didcle  costor,  mastri  di  guerra 

D’un  sol  parto  acquistati.  Aveano  entrambi. 

Già  fatti  adulti,  navigato  a Troja 

Per  onor  degli  Atridi,  c qui  la  vita 

Entrambi  terminar.  Quai  due  leoni. 

Cui  la  madre  sul  monte  entro  i recessi 
D’alto  speco  educò,  fan  ruba  c guasto 
Delle  mandre,  de’ greggi  e delle  stalle. 

Finché  dal  ferro  dc’pastor  raggixmti 
Caggiono  aiicb’essi;  e tali  allor  dall’asta 
D’Enea  percossi  caddero  costoro 
Col  fragor  di  recisi  eccelsi  abeti. 

Strinse  pietà  dei  due  caduti  il  petto 
Del  prode  Menelao,  che  tosto  innanzi 


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LIBRO  V 


V.  7^1-780 


Si  spinse  di  lucenti  armi  vestito, 

L’asta  squassando.  E Marte,  che  domarlo 
Per  man  d’Enea  fa  stima,  il  cor  gli  attizza. 
Del  magnanimo  Nèstore  il  buon  figlio , 
Antiloco,  osscrvollo^  e,  un  qualche  danno 
Paventando  aH’Àtride,  un  qualche  grave 
Storpio  all’impresa  degli  Achei,  processe 
Nell’  antiguardo.  Già  s’ aveano  incontro 
Abbassate  le  picche  i due  campioni 
Pronti  a ferir,  quando  d’AtriJe  al  fianco 
Antiloco  comparve:  e di  due  tali 
Viste  le  forze  in  un  congiunte,  Enea, 
Benché  prode  guerriero,  retrocesse. 
Trassero  questi  tra  gli  Achei  gli  estinti 
Orsiloco  e Cretene;  c d’ ambedue 
Le  miserande  spoglie  in  man  depostc 
Degli  amici,  dier  volta,  e nella  pugna 
Novellamente  si  mischiar  tra’  primi. 

Fu  morto  il  duce  allor  de’ generosi 
Scudati  Paflagoni,  il  marziale 
Pilemene.  Il  ferì  d’asta  alla  spalla 
L’Atride  Menelao.  Lo  suo  sergente 
Ed  auriga,  Midon,  gagliai-do  figlio 
D’Antimnio,  cadde  per  la  man  d’Antiloco. 
Dava  questo  Midon , per  via  fuggirsi , 

La  volta  al  cocchio.  Antiloco  nel  pieno 
Del  cubito  il  ferì  con  tale  un  colpo 
Di  sasso,  che  gittógli  al  suol  le  belle 
Eburnee  briglie.  Gli  fu  tosto  sopra  ■ 

11  feritor  col  brando,  e su  la  tempia 
D’ un  dritto  l’ attastò , che  giù  dal  carro 
Lo  travolse , e ficcdgli  nella  sabbia 
Testa  e spalle.  Anelante  in  quello  stato 
Ei  restassi  gran  pezza,  chè  profondo 
Era  il  sabbion , finché  i destrier  del  tutto 
Lo  riversàr  calpesto  nella  polve. 

Diè  lor  di  piglio  Antiloco,  c veloce 
Col  flagello  li  spinse  al  campo  acheo. 

Com’Ettore  di  mezzo  all’ ordinanze 
Vide  lor  prove,  impetuoso  mosse 


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6 


ILUDE 


781-820 


Con  alte  grida  ad  investirli , e dietro 
De’ Teucri  si  traea  le  forti  squadre, 

Cui  Marte  è duce  e la  feral  Bellona. 

Bellona  in  compagnia  vien  dell’orrendo 
Tumulto  della  zuila;  e Marte  in  pugno 
Palleggia  un’asta  smisurata,  e or  dietro, 

Or  davanti  cammina  al  grande  Ettorre. 

Turbassi  a quella  vista  il  bellicoso 
Tidide;  e quale  della  strada  ignaro 
Vi'ator,  che,  trascorsa  un’ampia  landa. 
Giunge  a rapido  fiume,  che  muggbiantc 
L’onda  nel  mar  devolve,  c,  visto  il  flutto 
Che  freme  e spuma , di  fuggir  s’ aflretta , 
L’orme  sue  ricalcando^  a questa  guisa 
Retrocesse  il  Tidide,  c al  suo  drappello 
Volgendo  le  parole:  Amici,  ei  disse. 

Qual  fia  stupor  se  forte  d’asta  c audace 
Combattente  si  mostra  il  duce  Ettorre? 
Sempre  al  fianco  gli  viene  un  qualche  iddio, 
Che  alla  morte  l’invola:  ed  or  lo  stesso 
Marte  in  sembianza  d’un  mortai  l’assiste. 
Non  vogliate  attaccar  dunque  co’ numi 
Ostinata  contesa,  e date  addietro. 

Ma  col  viso  ognor  vólto  all’  inimico. 

Mentr’egli  sì  dicca,  scagliarsi  i Teucri 
Addosso  alla  sua  schiera.  E quivi  Ettorre 
A morte  mise  due  guerricr,  nell’ armi 
Assai  valenti  e in  un  sol  cocchio  ascesi, 
Anchìalo  c Mcneste.  Ebbe  di  loro 
Pictade  il  grande  Telamonio  Ajace, 

E fòssi  avanti  e stette,  e la  lucente 
Asta  lanciando,  Anfio  colpì,  che  figlio 
Di  Selago  tcnea  suo  seggio  in  Peso , 

Ricco  d’ampie  campagne.  Ma  la  nera 
Parca  ad  Ilio  il  menò  confederato 
Del  re  Trojano  e de’ suoi  figli.  11  colse 
Sul  cinto  il  lungo  telamonio  ferro, 

E nell’imo  del  ventre  si  confisse. 

Diè  cadendo  un  rimbombo,  e a dispogliselo 
Corse  l’illustre  vincitore  ma  un  nembo 


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V.  B»i-8fio  L'»»0  V 117 

I Trojaui  piovean  di  frecce  acute , 

Che  d’irta  selva  gli  coprir  lo  scudo. 

Ben  egli  al  morto  avvicioossi,  e il  petto 
Calcandogli  col  piè,  la  fulgid’asta 

Ne  sferrò;  ma  dall’ omero  le  belle 
Armi  rapirgli  non  poteo:  sì  densa 
La  grandine  il  premea  delle  saette. 

E temendo  l’eroe  noi  circuisse 
De’Trojani  la  piena,  che  ristretti 
Erano  e molti  e poderosi,  e tutti 
Con  armi  d’ogni  guisa  e d’ogni  tiro 
Ad  incalzarlo,  a repulsarlo  intesi, 

Ei,  benché  forte  e di  gran  corpo  c d’alto 
Ardir,  diè  volta,  e si  ritrasse  addietro. 

Mentre  questi  alle . mani  in  questa  parte 
Si  travaglian  così,  nemico  fato 
Contra  l’illustre  Sarpedon  sospinse 
L’Elraclide  Tlepdlemo,  guerriero 
Di  gran  persona  e di  gran  possa.  Or  come 
A fronte  si  trovàr  quinci  il  nepote 
E quindi  il  figlio  del  Tonante  Iddio, 

Tlepdlemo  primiero  così  disse: 

Duce  de’Licj  , Sarpedon,  qual  uopo 
Rozzo  in  guerra  a tremar  qua  ti  condusse? 

È mentitor  chi  dell’ Egioco  Giove 
Germe  ti  dice.  Dal  valor  dei  forti. 

Che  nell’andata  età  nacquer  di  lui. 

Troppo  lungi  se’ tu.  Ben  altro  egli  era 

II  mio  gran  genitor,  forza  divina. 

Cuor  di  leone.  Qua  venuto  un  giorno 
A via  menar  del  re  Laomedonte 

I promessi  destrieri,  egli  con  sole 
Sei  navi  e pochi  ai'mati  Ilio  distrusse, 

E vedovate  ne  lasciò  le  vie. 

Tu  sei  codardo,  tu  a perir  qui  traggi 
I tuoi  soldati,  tu  veruna  aita. 

Col  tuo  venir  di  Licia,  non  darai 
Alla  dardania  gente;  c quando  pure 
Un  gagliardo  ti  fossi,  il  braccio  mio 
Qui  stenderatti  e spingeratti  a Fiuto. 


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I 1 3 ILIADE 

E di  rimando  a lui  dc'Licj  il  duce: 
Tlcpólemo,  le  sacre  iliache  mura 
Ercole,  è ver,  distrusse,  e la  scempiezza 
Del  frigio  sire  il  meritò,  che  ingrato 
Al  beneficio  con  acerbi  detti 
Oltraggiollo,  e i destrieri,  alta  cagione 
Di  sua  venuta,  gli  negò.  Ma  i vanti 
Patemi  non  torran  che  la  mia  lancia 
Qui  non  ti  prostri.  Tu  morrai:  son  io 
Che  tei  p<redico^  e a me  l’onor  qui  tosto 
Darai  della  vittoria,  c Palma  a Fiuto. 

Ciò  detto  appena,  Sollcvaro  in  alto 
1 ferrati  lor  cerri"  ambo  i guerrieri , 

Ed  ambo  a un  tempo  gli  scagliar.  Percosse 
Sarpedontc  il  nemico  a mezzo  il  collo 
Si  che  tutto  il  passò  Pasta  crudele, 

E a lui  gli  occhi  coperse  eterna  notte. 

Ma  il  telo  uscito  nel  medesmo  istante 
Dalla  man  di  Tlepòlemo,  la  manca 
Coscia  ferì  di  Sarpedon.  Passolla 
Infino  alP  osso  la  fulminea  punta , 

Ma  non  diù  morte^  chò  vietollo  il  padre. 
Accorsero  gli  amici , c dal  tumulto 
Sotti-asscro  l’eroe,  che  del  confitto 
Telo  di  molto  si  dolca,  nò  niente 
V’avea  posto  verun,  nè  s’ avvisava 
Di  sconficcarlo  dalla  coscia  offesa. 

Onde  espedime  il  camminar:  tant’era 
Del  salvarlo  la  fretta  e la  faccenda. 

Dall’altra  parte  i coturnati  Achei  • 

Di  Tlcpólemo  anch’essi  dalla  pugna 
Ritraggono  la  salma.  Al  doloroso 
Spettacolo  la  forte  alma  d’ Ulisse 
Si  commosse  altamente^  c in  suo  pensiero 
Divisando  ne  vien,  s’ci  prima  insegua 
Di  Giove  il  figlio , o più  gli  tomi  il  darsi 
Alla  strage  dc’Licj.  Alla  sua  lancia 
Non  concedean  le  Parche  il  pon-e  a morte 
Del  gran  Tonante  il  valoroso  seme. 
Scagliasi  ci  dunque,  da  Minerva  spinto, 


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¥.  LIBRO  V ^ ^9 

Nella  folta  de'Licj,  e quivi  uccide 
L’un  sovra  l’altro  Àlastore,  Cerano, 

Cromio,  Pritani,  Alcandro  e Noemone 
Ed  Alio:  e più  n’avria  di  lor  prostrati 
Il  divino  guerrier,  se  il  grande  Ettorre 
Di  lui  non  s’accorgea.  Tra  i primi  ci  dunque 
Processe  di  corrusche  armi  splendente, 

E portante  il  terror  ne’  petti  argivi. 

Come  il  vide  vicin,  fc  lieto  il  core 
Sarpedonte,  c con  voce  lamentosa  : 

Generoso  Pri'amidc,  dicea. 

Non  lasciarmi  giacer  preda  al  nemico  ; 

Mi  soccorri,  e la  vita  m’abbandoni 
Nella  vostra  città , poiché  m’ è tolto 
Il  tornarmi  al  natio  dolce  terreno , 

E d’allegrezza  spargere  la  mia 
Diletta  moglie  e il  pargoletto  figlio. 

Non  rispose  l’eroe;  ma  desioso 
Di  vendicarlo  e ricacciar  gU  Achivi 
Colla  strage  di  molti,  oltre  si  spinse.  , 

In  questo  mezzo  la  pietosa  cura 

De’ compagni  adagiò  sotto  un  bel  faggio, 

A Giove  sacro , Sarpedonte,  e il  telo 
Dalla  piaga  gli  svelse  il  valoroso  * 

Diletto  amico  Pelagon.  Nell’opra 
Svenne  il  ferito,  e s’annebbiò  la  vista: 

Ma  l’ aura  borea!,  che  fresca  intorno 
Ventavagli,  tornò  nc’ primi  uffici 
Della  vita  gli  spirti,  e nell’anelo 
Petto  affannoso  ricrcógli  il  core. 

Da  Marte  intanto  e dall’ardente  Ettorre 
Assaliti  gli  Achei,  nè  paurosi 
Verso  le  navi  si  fuggian,  né  arditi 
Farsi  innanzi  sapean.  Ma  quando  il  grido 
Corse  tra  lor  che  Marte  era  co’ Teucri, 

Indietro,  si  piegar  sempre  cedendo. 

Or  chi  prima,  chi  poi  fu  l’abbattuto 
Dal  ferreo  Marte  e dall’audace  EttoiTc? 
Teatrante,  che  sembianza  avea  d'un  Dio, 
L’agitatore  di  cavalli  Oreste, 


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30  ILIADE  ,>. 

Il  vibrator  di  lancia  Etolio  Treco, 

E r Enopide  Eléno , cd  Enomào , 

E d’armi  adorno  di  color  diverso 
Oresbio,  che  a far  d’oro  alte  conserve 
Posto  il  pensier , tenea  suo  seggio  in  Ila 
Àppo  il  Iago  Ceiìsio , ov’  altri  assai 
Opulenti  Beozi  avean  soggiorno. 

Tale  e tanta  d’Àchivi  occisione 
Giuno  mirando  , a Pallade  si  volse  , 

E con  preste  parole  : Ohimè  ! le  disse  , 

Invitta  figlia  dell’  Egioco  Giove , 

Se  libera  lasciam  dell’  omicida 
Marte  la  furia , indarno  a Menelao 
Noi  promettemmo  dell’  iliache  torri 
La  caduta,  e felice  il  suo  ritorno. 

Or  via , scendiamo , e di  valor  noi  pure 
Facciam  prova  laggiù.  Disse  ^ e Minerva 
Tenne  l’invito.  Àllor  la  veneranda 
Saturnia  Giuno  ad  allestir  veloce 
Corse  i d’  oro  bardati  almi  destrieri. 
Immantinente  al  cocchio  Ebe  le  curve 
Ruote  innesta.  Un  ventaglio  apre  ciascuna 
D’otto  raggi  di  bronzo  , e si  rivolve 
Sovra  l’asse  di  ferro.  Il  giro  è tutto 
D’ incorruttibil  oro,  ma.  di  bronzo 
Le  salde  lame  de’  lor  cerchi  estremi. 

Maraviglia  a veder!  Son  puro  argento 

I rotondi  lor  mozzi , e yergolate 

D’  argento  e d’ ór  del  cocchio  anche  le  cinghie 
Con  ambedue  dell’orbe  i semicerchi, 

A cui  sospese  consegnar  le  guide. 

Si  dispicca  da  questo  e scoitc  avanti 
Pur  d’  argento  il  timone , in  cima  a cui 
Ebe  attacca  il  bel  giogo  e le  leggiadre 
Pettiere^  c queste  parimenti  c quello 
D'  auro  sono  contesti.  Desiosa 
Giuno  di  zuffe  e del  rumor  di  guerra  , 

Gli  alipedi  veloci  ai  giogo  adduce. 

Nè  Minerva  s' indugia.  Ella  , diffuso 

II  suo  peplo  immortai  sul  pavimento 


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r.  981-1010  LIBRO  V 12  1 

Delle  sale  paterne,  effigio 

Peplo , stupendo  di  sua  man  lavoro , 

E vestita  di  Giove  la  corazza, 

Di  tutto  punto  al  lagrimoso  ballo 
Armasi.  Intorno  agli  dmeri  divini 
Pon  la  rieca  di  flocchi  Egida  orrenda  , 

Che  il  Terror  d'  ogn’ intorno  incoronava. 

Ivi  era  la  Contesa,  ivi  la  Forza, 

Ivi  l’ atroce  Inseguimento , e il  diro 
Gorgonio  capo  , orribile  prodigio 
Dell’  Egioco  signore.  Indi  alla  fronte 
L’aurea  celata  impone,  irta  di  quattro 
Eiceelsi  coni,  a ricoprir  bastante 
Elserciti  e città.  Tale  la  Diva 
Monta  il  fulgido  cocchio,  c 1’  asta  impugna 
Pesante  , immensa  , poderosa  , und’  ella 
Intere  degli  croi  le  squadre  atterra. 

Irata  figlia  di  potente  iddio. 

Giuno,  al  governo  delle  briglie,  affretta 
Col  flagello  i corsieri.  Cigolando  , 

Per  sè  stesse  s’ aprir  l’ eteree  porte 
Custodite  dall’ Ore  , a cui  commessa 
Del  gran  cielo  è la  cura  e dclf  Olimpo  , 

Onde  serrare  e disserrar  la  densa 
Nube,  che  asconde  degli  Dei  la  sede. 

Per  queste  porte  dirizzar  le  Dive 
I docili  cavalli,  e ritrovare 
Scevro  dagli  altri  Sempiterni  e solo 
Su  l’alta  vetta  dell’Olimpo  assiso 
Di  Saturno  il  gran  figlio.  Ivi  i destrieri 
Sostò  la  Diva  dalle  bianche  braccia, 

E il  supremo  de’  numi  inten-ogando  : 

Giove  padre , gli  disse , e non  ti  prende 
Sdegno  de’  fatti  di  Gradivo  atroci  ? 

Non  vedi  quanta  e quale  il  furibondo 
Strage  non  giusta  degli  Achei  commette? 

Io  ne  son  dolorosa  : e queli  intanto 
Si  letiziano  Apollo  e Giteréa  , 

Essi , che  questo  d’  ogni  legge  schivo 
Forsennato  aizzar.  Padre,  s’io  scendo 


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I 23 


ILIADE 


ioai-ioC(j 


A rintuzzar  l'audace,  a discacciarlo 
Dalla  pugna , n'  andrai  tu  meco  in  ira  ? 

Va,  le  rispose  delle  nubi  il  sire^ 

Spingi  coulra  costui  la  predatrice 
Minerva,  a farlo  assai  dolente  usata. 

Di  ciò  lieta  la  Dea  fe  su  le  groppe 
De'  corsieri  sonar  la  sferza  ^ e quelli 
Infra  la  terra  e lo  stellato  cielo 
Desiosi  volaro^  e quanto  vede 
D’aereo  spazio  un  uom,  che  in  alto  assiso 
Stende  II  guardo  sul  mar,  tanto  d’un  salto 
Ne  varcàr  delle  Dive  i tempestosi 
Dcslrier.  Là  giunte , dove  l’ onde  amiche 
Confondono  davanti  all'alta  Troja 
Simocnta  c Scamaiidi'o  , ivi  rattenne 
Giuno  i cavalli,  gli  staccò  dal  cocchio  , 

E di  nebbia  li  cinse.  Il  Simocnta 
Loro  un  pasco  forni  d’  ambrosie  erbette. 

Tacite  allora,  e col  leggiero  incesso 
Di  timide  colombe,  ambe  le  Dive 
Appropinquàrsi  al  campo  acheo,  bramose 
Di  dar  soccorso  ai  copibattcnti.  E quando 
Arrivàr  dovè  molti  e valorosi , 

Come  stool  dì  cinghiali  o di  li’oni. 

Si  stavano  ristretti  intorno  al  forte 
Figliuolo  di  Tidéo  ,‘  presa  la  forma 
Di  Stèntorc , che  voce  avea  di  ferro , . 

E pareggiava  di  cinquanta  il  grido , 

Giuno  sciamò  : Vituperati  Argivi , 

Mere  apparenze  di  valor , vergogna  ! 
Finché  mostrossi  in  campo  la  divina 
Fronte. d’Achille , non  fur  osi  i Teucri 
Scostarsi  mai  dalle  dardanie  porte  : 
Cotanto  di  sua  lancia  era  il  terrore. 

Or  lungi  dalle  mura  insino  al  mare 
Vengono  audaci  a cimentar  la  pugna. 

Si  dicendo  , svegliò  di  ciascheduno 
E la  forza  e l'ardir.  Sorgiunse  In  questa 
La  cerula  Minerva  a Diomede , 

Cb’appo  II  carro  la  piaga  j onde  1’ offese 


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■IlOO 


LtBKO  V 


Di  Pindaro  lo  strai,  refrigerava^ 

E colla  stanca  destra  sollevando 
Dello  scudo  la  soga  tutta  molle 
Di  molesto  sudor , tergea  del  negro 
Sangue  la  tabe.  Colla  man  posata 
Sul  giogo  de'  corsier , la  Dea  sì  disse  ; 

Tidéo  per  certo  generossi  un  figlio, 

Che  poco  lo  somiglia.  Era  Tidéo 
Picciol  di  corpo , ma  guerriero  ^ e quando 

10  gli  vietava  di  pugnar , fremea  \ 

E quando  senza  compagnia  venuto 
Ambasciatore  a Tebe,  io  co’  Tcbani 
Ne'  regi  alberghi  a banchettar  1'  astrinsi , 
Non  depose  egli , no , la  bellicosa 
Alma  di  prima  ^ ma , sfidando  il  fiore 
De’  giovani  Cadméi , tutti  li  vinse 
Agevolmente  col  mio  nume  al  fianco. 

E al  tuo  fianco  del  pari  io  qui  ne  vegno, 
E ti  guardo  e t’  esorto  c ti  comando 
Di  pugnar  co'Trojani  arditamente. 

Ma  te  per  certo  o la  fatica  oppresse  , 

O qualche  tema  agghiaccia  ^ c tu  non  sci 
Più , no , la  prole  del  pugnace  Enide. 

Ti  riconosco,  o Dea  (tosto  rispose 

11  valoroso  eroe)^  ti  riconosco. 

Figlia  di  Giove , e di  buon  grado  c netta 
Mia  ragione  dirò.  Nè  vii  timore 
Nè  ignavia  mi  ratticn,  ma  il  tuo  comando. 
Non  se'  tu  quella,  che  pugnar  poc’  anzi 
Mi  vietasti  co’  numi  ? E se  la  figlia 
Di  Giove,  Giteréa,  nel  campo  entrava. 

Non  mi  dicesti  di  ferirla  ? il  feci. 

Ed  or  recedo,  c agli  altri  Achivi  imposi 
D’  accogliersi  qui  tutti , ora  che  Marte , 
Ben  lo  conosco , de’  Trojani  è il  duce. 

E a lui  la  Diva  dalle  luci  azzurre  : 
Diletto  Diomede  , alcuna  tema 
Di  questo  Marte  non  aver,  nè  d’altro 
Qualunque  iddio,  se  tua  difesa  io  sono. 
Sorgi  , e drizza  in  costui  gl’  impetuosi 


I 


ILIADE 


Tuoi  corridori , e stringilo  e il  percuoti  ^ 

Nò  riguardo  t’  arresti  nè  rispetto 
Di  questo  insano  ad  ogni  mal  parato 
E ad  ogni  parteggiar , che  a me  pur  dianzi 
E a Giuno  promettea , che  centra  i Teucri 
A prò  de’ Greci  arria  pugnato;  ed  ora, 
Immemore  de’ Greci,  i Teucri  ajuta. 

SI  dicendo , aOTeirò  colla  possente 
Destra  il  figliuol  di  Capanéo,  dal  carro 
Traendolo  ; nè  quegli  a dar  fu  tardo 
Un  salto  a terra;  ed  ella  stessa  ascese 
Sovra  il  coechio  da  canto  a Diomede 
Infiammata  di  sdegno.  Orrendamente 
L’ asse  al  gran  pondo  cigolò  ; chè  carco 
D’una  gran  Diva  egli  era  e d’un  gran  prode. 
Al  sonoro  flagello  ed  alle  briglie 
Diè  di  piglio  Minerva,  e senza  indugio 
Contra  Marte  sospinse  i generosi 
Cornipedi.  Lo  giunse  a]ipunto  in  quella , 

Che  atterrato  1’  enorme  Perifantc 
( Un  fortissimo  Ettìlo  , egregio  figlio 
D’Ochesio),  il  Dio  crudel  lordo  di  sangue 
Lo  trucidava.  In  arrivar,  si  pose 
Minerva  di  Pluton  l’ elmo  alla  fronte , 

Onde  celarsi  di  quel  fero  al  guardo. 

Come  il  nume  omicida  ebbe  veduto 
L’illustre  Diomede,  al  suol  disteso 
Lasciò  l’ immenso  Pcrifante , e dritto 
Ad  investir  si  spinse  il  cavaliere. 

E tosto  giunti  l’un  dell’altro  a fronte, 

Marte  il  primo  scagliò  1’  asta  di  sopra 
Al  giogo  de’corsier  lungo  le  briglie. 

Di  rapirgli  la  vita  desioso. 

Ma  prese  colla  man  l’asta  volante 
La  Dea  Minerva,  e la  stornò  dal  carro  , 

E vano  il  colpo  riuscì.  Secondo 
Spinse  1’  asta  il  Tidide  a tutta  forza  , 

La  diresse  Minerva , c al  Dio  l’ infisse 
Sotto  il  cinto  nell’  epa  , e vulnerollo , 

E , lacerata  la  divina  cute , 


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LIBBO  ▼ 


ll4l-Il8o 

L’asta  ritrasse.  Mugolò  il  ferito 
Nume , e ruppe  in  un  tuon  pari  di  nove 
O dieci  mila  combattenti  al  grido 
Quando  appiccan  la  zuffa.  1 Troi  1’  udirò , 
L’ udir  gli  Àchivi , e ne  tremàr  : sì  forte 
Fu  di  Marte  il  muggito.  E qual  pel  grave 
Vento,  che  spira  dalla  calda  terra, 

Si  fa  di  nubi  tenebroso  il  cielo; 

Tal  parve  il  ferreo  Marte  a Diomede, 
Mentre  avvolto  di  nugoli  alle  sfere. 
Dolorando  , salia.  Giunto  alla  sede 
Degli  Dei  su  l’Olimpo,  accanto  a Giove 
Mesto  s’  assise , discoperse  il  sangue 
Immortai,  che  scorrea  dalla  ferita, 

E in  suono  di  lamento:  O padre,  ci  disse, 
E non  t’adiri  a cotal  vista  , a fatti 
Sì  nequitosi?  Eisiziosa  sempre 
A noi  Divi  tornò  la  mutua  gara 
Di  gratuir  l’umana  stirpe;  e.  intanto 
Di  nostre  liti  la  cagion  tu  sei , 

Tu , che  una  figlia  generasti  insana , 

E di  sterminii  e di  malvage  imprese 
Invaghita  mai  sempre.  Obbedienti 
Hai  quanti  alberga  Sempiterni  il  cielo; 
Tutti  inchiniamo  a te.  Sola  costei 
Nè  con  fatti  frenar  nè  con  parole 
Tu  sai  per  anco , connivente  padre 
Di  pestifera  furia.  Ella  pur  dianzi 
Stimolò  di  Tidèo  1’  audace  figlio 
A pazzamente  guerreggiar  co’ numi; 

Ella  a ferir  Ciprigna;  ella  a scagliarsi 
Centra  me  stesso,  e pareggiarsi  a un  Dio. 
E se  più  tardo  il  piè  fuggia , sarei 
Steso  rimasto  fra  quei  tanti  uccisi 
In  lunghe  pene  ; nè  morir  potendo , 

M’  avria  de’ colpi  infranto  la  tempesta. 

Bieco  il  guatò  1’  adunator  de’  nembi 
Giove , c rispose  : Querimonie  c lai 
Non  mi  far  qui  seduto  ai  fianco  mio  , 
Fazioso  incostante , e a me  fra  tutti 


26 


tv  ii8i<mo9 


ILIADE,  LIBRO  V 

I Celesti  odiosa.  E risse  e zuffe 
E discordie  c battaglie,  ecco  le  care 
Tue  delizie.  Trasfuso  in  te  conosco 
Di  tua  madre  Giunon  l' intollerando 
Inflessibile  spirto,  a cui  mal  posso 
Pur  colle  dolci  riparar^  nè  certo 
D'altronde  io  penso,  che  il  tuo  danno  or  scenda. 
Che  dal  suo  torto  consigliar.  Non  io 
Vo’  per  questo  patir,  che  tu  sostegno 
Più  lungo  duolo:  mi  sei  figlio,  e caro 
La  Dea  tua  madre  a me  ti  parton'a. 

Se  malvagio,  qual  sci,  d'altro  qualunque 
Nume  nascevi,  da  gran  tempo  avresti 
Sorte  incorsa  peggior  degli  Uranidi. 

Così  detto  , a Peon  comando  ci  fece 
Di  risanarlo.  La  ferita  ei  sparse 
Di  lenitivo  medicarne,  e tolto 
Ogni  dolore  , il  tornò  sano  al  tutto  ', 

Ghè  mortale  ci  non  era.  E come  il  latte 
Per  lo  gaglio  sbattuto  si  rappiglia , 

E perde  il  suo  fluir  sotto  la  mano 
Del  presto  mescitor  ; presta  del  pari 
La  peonia  virtù  Marte  guaria. 

Ebe  poscia  lavello , e di  leggiadre 
Vesti  ravvolse 5 ed  egli  accanto  a Giove, 

Dell'  alto  onor  superbo,  si  ripose. 

Depressa  del  crudcl  Marte  la  strage , 

Tornàr  contente  alla  magion  del  padre 
Giuno  Argiva  c Minerva  Àlalcoménia. 


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LIBRO  SESTO 


ARGOMENTO 


Riliniisi  gli  Dei,  i Greci  mettono  • morte  molti  de' Trojani.  Etturr  , roiuiglùto  da 
Eletto  soofraleUo,  rìtoraa  io  Trop,  onde  tire  che  Erulo,  ncculte  le  nutroae  nel  tempio 
di  ÌHioerTa,  offra  alla  Dea  un  peplo  , e le  proroelta  de’  ugriliti,  perchè  atlonUai  ddU  pu< 
gna  Diomede.  Incontro  di  questo  eroe  con  Glauco.  Loro  mltoiiiiio.  Essendosi  rìcunnsriuti 
depili , ai  separano  dopo  arer  btto  il  cambio  delle  armature.  E^uba  e le  matrone  ai  avviano 
al  tempio  di  Minerva.  Ettore  ed  Eleua  rimproverano  a Parnle  la  sua  cudanlia.  Questi  ai 
dtapooe  di  ritornare  alla  pugna.  Incoolro , colloquio  c tenera  separaaiooe  di  Ettore  c di  Ad- 
dromaca.  Pittura  di  Aatianatte.  Ettore  e Paride  «cono  nel  campo. 


Soli  senz'  alcun  Dio  Teucri  ed  Achei 
Così  restaro  a battagliar.  Più  volte 
Tra  il  Simocnta  e il  Xanto  impetuosi 
Si  assalirò^  più  volte  or  da  quel  lato 
Ed  or  da  questo  con  incerte  penne 
La  Vittoria  volò.  Ruppe  di  Troi 
Primo  una  squadra  il  Telamoniu  Ajacc , 
Presidio  degli  Achivi,  e il  primo  raggio 
Portò  di  speme  a' suoi , ferendo  un  Trace, 
Fortissimo  guerriero  e di  gran  mòle , 
Acamante  d’ Eussòro.  Il  colse  in  fronte 
Nel  cono  dell’  elmetto  irto  d’  equine 
Chiome,  e nell’  osso  gli  piantò  la  punta 
SI , che  i lumi  gli  chiuse  il  bujo  eterno. 

Tolse  la  vita  al  Teutranide  Assilo 
Il  marzio  Diomede.  Era  D’Arisbe 
Bella  contrada  Assilo  abitatore , 

Uom  di  molta  ricchezza,  a tutti  ainico^ 
Che  tutti  in  sua  magion , posta  lunghesso 
La  via  frequente,  ricevea  cortese. 


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ILIADE 


ai-6o 


1 a8 

Ma  degli  ospiti , ahi  ! niuno  accorse  allora  ; 
Niun  da  morte  il  campò.  Solo  il  suo  fido 
Servo  Calesio , che  rcggcagli  il  cocchio , 
Morto  ei  pur  dal  Tidi'de,  al  fianco  cadde 
Del  suo  signore  , e con  lui  scese  a Fiuto. 

Eurialo  abbatte  Ofclzio  e Drcso^  e poscia 
Esepo  assalta  e Pòdaso  gemelli, 

Che  al  buon  Bucohone  un  di  produsse 
La  Nàjade  gentile  Àbarbaréa. 

Bucolion,  del  re  Laomedonte 
Primogenito  figlio  , ma  di  nozze 
Furtive  acquisto,  conducea  la  greggia  , 
Quando  alla  ninfa  in  amoroso  amplesso 
Mischiossi , e di  costor  madre  la  feo. 

Ma  quivi  tolse  ad  ambedue  la  vita 
E la  bella  persona  e 1’  armi  il  figlio 
Di  Mecistéo.  Fur  morti  a un  tempo  istesso 
Astialo  dal  forte  Polipete^ 

Il  Percosio  Pidite  dall'  acuta 
Asta  d’ Ulisse;  Aretaon  da  Teucro. 

D’ Antiloco  la  lancia  Ablero  atterra, 

Élato  quella  del  maggiore  Atride, 

Élato,  che  sua  stanza  avea  nell'  alta. 

Pédaso  in  riva  dell'  ameno  fiume 
Satniòente.  Eurìpilo  prostese 
Melanzio  ; e 1'  asta  dell'  eroe  Leito 
Il  fuggitivo  Filaco  trafisse. 

Ma  l' Atride  minor,  strenuo  guerriero. 
Vivo  Adrasto  pigliò.  Repente  ombrando 
Li  costui  corridori,  e via  pel  campo 
Paventosi  fuggendo,  in  un  tenace 
Cespo  implicàrsi  di  mirica;  e quivi 
Al  piede  del  timon  spezzato  il  carro, 

Volar  con  altri  spaventati  in  fuga 
Verso  le  mura.  Prono  nella  polve 
Sdrucciolò  dalla  biga  appo  la  ruota 
Quell'  infelice.  Colla  lunga  lancia 
Menelao  gli  fu  sopra;  e Adrasto,  a lui 
Abbracciando  i ginocchi  e supplicando  : 
Pigliami  vivo  , Atride;  c largo  prezzo 


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. 6i*I(k> 


LIBRO  VI 


lag 

Del  mio  riscatto  avrai.  Figlio  son  io 
Di  ricco  padre,  e gran  conserva  ci  tiene 
D’ auro , di  rame  e di  foggiato  ferro. 

Di  questi  largiratti  il  padre  mio 
Multi  doni,  se  vivo  egli  mi  sappia 
Nelle  argolicfae  navi.  A questo  prego 
Già  dell’Atride  il  cor  si  raddolcia; 

Già  fidavaio  al  servo,  onde  alle  navi 
L’ adducesse  ; quand’  ecco  Agamenndne , 

Che  a lui  ne  corre  minaccioso , c grida  : 

Debole  Menelao!  e qual  ti  prende 
De’  Trojani  pietà?  Certo  per  loro 
La  tua  casa  è felice!  Or  su,  nessuno 
De’  perfidi  risparmi  il  nostro  ferro, 

Nè  pur  l’infante  nel  materno  seno: 

Perano  tutti  in  un  con  Ilio,  tutti 
Senza  onor  di  sepolcro  c senza  nome. 

Cangiò  di  Menelao  la  mente  il  fiero, 

Ma  non  torto  parlar,  sì,  eh’ ci  respinse 
Da  sè  con  mano  il  supplicante^  e lui 
Ferì  tosto  nel  fianco  Agamenndne, 

E .supino  lo  stese.  Indi,  col  piede 
Calcato  il  petto  , nc  ritrasse  il  telo. 

Nestore  intanto  in  altra  parte  accende 
L’ acheo  valor,  gridando:  Amici  eroi, 

Danai,  di  Marte  alunni,  alcun  non  sia, 

Ch’  ora  badi  alle  spoglie,  e per  tornarne 
Carco  alle  navi  si  rimanga  indietro. 

Non  bàdiam  che  ad  uccidere;  e gli  uccisi 
Poi  nel  campo  a bell’  agio  ispoglicremo. 

Fatti  animosi  a questo  dir  gli  Achei, 

Piombàr  su  i Teucri , che  scorati  e domi 
Di  nuovo  in  Ilio  si  sarian  racchiusi, 

Se  il  prestante  indovino  Eleno , figlio 
Del  re  trojano,  non  volgea  per  tempo 
Ad  Ettore  e ad  Enea  queste  parole: 

Poiché  tutta  si  folce  in  voi  la  speme 
De’  Trojani  e de’  Licj , e che  voi  siete 
I miglior  nella  pugna  e nel  consiglio. 

Voi,  Ettore  ed  Einea,  qui  state,  e i nostri 
Mosti.  Iliade.  9 


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3o 


ILIADE 


101-1^0 


Alle  porte  fuggenti  rattcnete  , 

Pria  che , con  riso  del  nemico , in  braccio 
Si  salvin  delle  mogli.  E come  tutte 
Ben  rincorate  le  falangi  avrete, 

Noi  di  piè  fermo,  benché  lassi  e in  dura 
Necessitade,  qui  farem  coll’  armi 
Buon  ripicco  agli  Achei.  Ciò  fatto , a Troja 
Tu,  Ettore,  tcn  vola,  ed  alla  madre 
Di’  che  salga  la  rócca,  e del  delubro 
A Minerva  sacrato  apra  le  porte, 

E vi  raccolga  le  matrone^  e il  peplo 
Il  più  grande,  il  più  bello,  e a lei  più  caro 
Di  quanti  in  serbo  ne’  regali  alberghi 
Ella  ne  tien,  deponga  umilemente 
Su  le  ginocchia  della  Diva,  e dodici 
Giovenche  le  prometta  ancor  non  dome. 

Se  la  nostra  città  comipberando 
E le  consorti  e i figli,  ella  dal  sacro 
Ilio  allontana  il  fiero  Diomede, 

Combattente  crudele,  e violento 
Artefice  di  fuga,  e per  mio  senno 
D più  gagliardo  degli  Achei.  Nè  certo 
Noi  tremammo  giammai  tanto  il  Pelidc, 
Benché  figlio  a una  Dea  , quanto  costui , 
Che  fuor  di  modo  inferocisce , c nullo 
Vien  di  forze,  con  esso-  a paragone. 

Disse;  e al  cenno  fraterno  obbediente 
Ettore  armato  si  lanciò  dal  carro 
Con  due  dardi  alla  mano;  e via  scorrendo 
Per  lo  campo  e animando  ogni  guerriero , 
Rinfrescò  la  battaglia:  e tosto  i Teucri 
Voltàr  la  faccia,  e coraggiosi  incontro 
Pèrsi  al  nemico.  S’arretràr  gli  Achivi, 

E la  strage  cessò  ; eh’  essi,  mirando 
Si  audaci  i Teucri  convertir  le  fronti , 
Stimar  disceso  in  lor  soccorso  un  Dio. 

E tuttavolla , le  sue  genti  Ettorre 
Confortando , gridava  ad  alta  voce  : 
NLiguanimi  Trojani,  e voi  di  Troja 
Generosi  alleati,  ah!  siate,  amici, 


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i>i8o 


LIBRO  VI 


3i 


Siatemi  prodi,  e fuor  mettete  intera 
La  vostra  gagliardia  , meutr’  io  per  poco 
Men  volo  in  Ilio  ad  intimar  de'  padri 
E delle  mogli  i preghi  e le  votive 
Ecatombi  agli  Dei.  — Parte , ciò  detto. 
Ondeggiano  all’eroe,  mentre  cammina, 
L’alte  creste  dell’elmo^  e il. negro  cuojo. 
Che  gli  orli  attorna  dell’  immenso  scudo , 
La  cervice  gli  batte  ed  il  tallone. 

Di  duellar  bramosi  allor  nel  mezzo 
Dell’  un  campo  c dell’  altro  appreseutàrsi 
Glauco,  prole  d’Ippóloco,  e il  Tidide. 
Come  al  tratto  dell’ armi  ambo  fur  giunti. 
Primo  il  Tidide  favellò:  Guerriero, 

Chi  se’  tu?  Non  ti  vidi  unqua  ne’  campi 
Della  gloria  finor.  Ma  tu  d’ardire 
Ogni  altro  avanzi,  se  aspettar  non  temi 
La  mia  lancia.  È figliuol  d’  un  infelice 
Chi  fassi  incontro  al  mio  valor.  Se  poi 
Tu  se’  qualche  Immortai,  non  io  per  certo 
Co’  numi  pugnerò^  che  lunghi  giorni 
Nò  pur  non  visse  di  Driantu  il  forte 
Figlio,  Licurgo,  che  agli  Dei  fe  guerra. 

Su  pel  sacro  Nissejo  egli  di  Bacco 
Le  nudiici  insegui'a.  Dal  rio  percosse 
Con  pungolo  crudel,  giltaro  i tirsi 
Tutte  insieme,  e fuggir;  fuggi  lo  stesso 
Bacco,  c nel  mar  s’ascose,  ove  del  fero 
Minacciar  di  Licurgo  paventoso 
Teti  l’accobe.  Ma  sdegnarsi  i numi 
Con  quel  superbo.  Della  luce  il  caro 
Raggio  gli  tolse  di  Saturno  il  figlio, 

E detestato  dagli  Eterni  tutti 
Breve  vita  egli  visse.  All’  armi  io  dunque 
Non  verrò  con  gli  Dei.  Ma  se  terreno 
Cibo  ti  nutre,  accostati;  e più  presto 
Qui  della  morte  toccherai  le  mete. 

E d’ Ippóloco  a lui  l’ inclito  figlio  : 
Magnanimo  Tidide,  a che  dimandi 
Il  mio  lignaggio?  Quale  delle  foglie. 


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ILIADE 


9.  181*330 


1 3a 

Tale  è la  stirpe  degli  umani.  Il  vento 
Brumai  le  sparge  a terra,  e le  ricrea 
La  germogliante  selva  a primavera. 

Così  l'uom  nasce,  così  muor.  Ma  s’ oltre 
Brami  saper  di  mia  prosapia,  a molti 
Ben  manifesta,  ti  farò  contento. 

Siede  nel  fondo  del  paese  argivo 
Efira , una  città,  natia  contrada 
Di  Sisifo,  die  ognun  vincea  nel  senno. 

Dall’  Eolide  Sisifo  fu  nato 

Glauco^  da  Glauco  il  buon  Bellcrofontc, 

Cui  largirò  gli  Dei  somma  beltade  , 

E quel  dolce  valor,  che  i cuori  acquista. 

Ma  Preto  macchinò  la  sua  mina; 

E potente  signor  d’Argo  che  Giove 
Sottomessa  gli  avea,  d’Argo  l’espulse 
Per  cagione  d’Antòa,  sposa  al  tiranno. 
Furiosa  costei  ne  desiava 
Segretamente  1’  amoroso  amplesso  ; 

Ma  non  valse  a crollar  del  saggio  e casto 
Bellerofonte  la  virtù.  Sdegnosa 
Del  magnanimo  niego , l’ impudica 
Volse,  l’ingegno  alla  calunnia,  e disse 
Al  marito  così:  BeUeroJbnte 
Meco  in  amor  tentò  meschiarsi  a forza: 
Muori  dunque,  o P uccidi.  Arse  di  sdegno 
Preto  a questo  parlar,  ma  non  l’uccise, 

Di  sacro  orror  compreso.  In  quella  vece 
Spedillo  in  Licia  apportator  di  chiuse 
Funeste  cifre  al  re  suocero,  ond’ egli 
Perir  lo  fésse.  Dagli  Dei  scortato, 

Parti  Bellerofonte  , al  Xanto  giunse , 

Al  re  de’  Licj  appresentossi , c lieta 
N’  ebbe  acooglìenza  ed  ospitai  banchetto. 
Nove  giorni  fumò  su  1’  are  amiche 
Di  nove  tauri  il  sangue.  E quando  apparve 
Della  decima  aurora  il  roseo  lume, 
liitcrrogollo  il  sire,  e a lui  la  tèssera 
Del  genero  chiedea.  Viste  le  crude 
Note  di  Preto,  cornandogli  in  prima 


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LIBRO  TI 


l33 


9.  111-100 

Di  dar  morte  all’indomita  Chimera. 

Era  il  mostro  d’ origine  divina , 

Li'on  la  testa,  il  petto  capra,  e drago 
La  coda^  e dalla  bocca  orrende  vampe 
Vomitava  di  foco:  c nondimeno 
Col  favor  degli  Dei  l’eroe  la  spense. 

Pugnò  poscia  co’  Sdlimi:  e fu  questa. 

Per  lo  stesso  suo  dir,  la  più  feroce 
Di  sue  pugne.  Domò  per  terza  impresa 
Le  Amazzoni  virili.  ÀI  suo  ritorno 
Il  re  gli  tese  un  altro  inganno  , e scelti 
Della  Licia  i più  forti,  in  fosco  agguato 
Li  collocò^  ma  non  redinne  un  solo: 

Tutti  gli  uccise  l’ innocente.  Allora 
Chiaro  reggendo,  che  d’un  qualche  Iddio 
Illustre  seme  egli  era,  a sé  Io  tenne, 

E diegli  a sposa  la  sua  figlia,  e mezza 
La  regai  potestade.  Ad  esso  inoltre 
Costituirò  i Licj  un  separato 
Ed  ameno  tenér,  di  tutti  il  meglio. 

D’alme  viti  fecondo  e d’auree  messi, 

Ond’egli  a suo  piacer  lo  si  coltivi. 

Partorì  poi  la  moglie  al  virtuoso 
Bellerofonte  tre  figliuoli,  Isandro 
E Ippdloco  , ed  alfin  Laodamia , 

Che  al  gran  Giove  soggiacque,  e padre  il  fece 
Del  bellicoso  Sarpedon.  Ma  quando 
Venne  in  odio  agli  Dei  Bellerofonte  , 

Solo  e consunto  da  tristezza  errava 
Pel  campo  Aleio  l’ infelice  , e Torme 
De’  viventi  fuggia.  Da  Marte  ucciso, 

Cadde  Isandro  co’  Sdlimi  pugnando; 
Laodamia  perì  sotto  gli  strali 
Dell’  irata  Diana;  e a me  la  vita 
Ippdloco  donò , di  cui  m’  è dolce 
Dirmi  disceso.  Il  padre  alle  trojane 
Mura  spedimmi,  e generosi  sproni 
M’ aggiunse  di  lanciarmi  innanzi  a tutti 
Nelle  vie  del  valore , onde  de’  miei 
Padri  la  stirpe  non  macchiar,  che  fùro 


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ILIADE 


».  361 -Silo 


D’  Efira  e delle  licic  ampie  contrade 

I più  famosi.  Eeeo  la  schiatta  c il  sangue, 

Di  clic  nato  mi  vanto,  o Diomede. 

Allegrossi  di  Glauco  alle  parole 

II  marzial  Tidide;  e,  l'asta  in  terra 
Conficcando,  all'eroe  dolce  rispose: 

Un  antico  paterno  ospite  mio. 

Glauco,  in  te  riconosco.  Eneo,  già  tempo  , 
Ne'  suoi  palagi  accolse  il  valoroso 
Bcllerofonte , e lui  ben  venti  interi 
Giorni  ritenne,  e di  bei  doni  entrambi 
Si  presentare.  Una  purpurea  cinta 
Eneo  donò,  Bellerofonte  un  nappo 
Di  doppio  seno  e d’ór,  che  in  serbo  io  posi 
Nel  mio  partir^  ma  di  Tldéo  non  posso 
Farmi  ricordo^  chè  bambino  io  m'era 
Quando  ei  lasciommi  per  seguire  a Tebe 
Gli  Achei,  che  rotti  vi  perirò.  Io  dunque 
Sarotti  in  Argo  ed  ospite  ed  amico. 

Tu  in  Licia  a me,  se  nella  Licia  avvegua 
Ch'  io  mai  porti  i mici  passi.  Or  nella  pugna 
Evitiamei  l'un  l’altro.  Assai  mi  resta 
Di  Teucri  e d'alleati,  a cui  dar  morte. 
Quanti  a’  mici  teli  n’  offriranno  i numi , 

Od  il  mio  piè  ne  giungerà.  Tu  pure 
Troverai  fra  gli  Achivi  in  chi  far  prova 
Di  tua  prodezza.  Di  nostr'  armi  il  cambio 
Mostri  intanto  a costor,  che  1’  uno  c 1’  altro 
Siam  ospiti  paterni.  Cosi  detto. 

Dal  cocchio  entrambi  dismontàr  d’ un  salto. 
Strinscr  le  destre , e si  dicr  mutua  fede. 

Ma  nel  cambio  dell’  armi  a Glauco  tolse 
Giove  lo  senno.  Aveale  Glauco  d’oro, 
Diomede  di  bronzo:  cran  di  quelle 
Cento  tauri  il  valor,  nove  di  queste. 

Al  faggio  intanto  delle  porte  Sccc 
Ettore  giunge.  Gli  si  fanno  intorno 
Le  trojanc  consorti  e le  fanciulle 
Per  saper  de’  figliuoli  e de’  mariti 
E de’  fratelli  c degli  amici  ^ ed  egli  : 


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LIBRO  TI 


¥.  3oi-34o 


■ 35 


Ite,  risponde,  a supplicar  gli  Dei 
In  devota  ordinanza;  itene  tutte; 

Ch’  oggi  a molte  sovrasta  alta  sciagura. 

De'  regali  palagi  indi  s'  avvia 
Ài  portici  superbi.  Àvea  cinquanta 
Talami  la  gran  reggia  edificati 
L'un  presso  all’  altro,  e di  polita  pietra 
Splendidi  tutti.  Accanto  alle  consorti 
Dormono  in  questi  i Priamidi.  À fronte 
Dodici  altri  ne  serra  il  gran  cortile 
Per  le  regie  donzelle,  al  par  de'  primi 
Di  bel  mal'mo  lucenti,  e posti  in  fila. 

Di  Priamo  in  questi  dormono  gl'  illustri 
f Generi  al  fianco  delle  caste  spose. 

Qui  giunto  Ettorre,  ad  incontrarlo  corse 
L'inclita  madre,  che  a trovar  sen  già 
Laodice , la  più  delle  sue  figlie 
Avvenente  é gentil.  Chiamollo  a nome; 

E strettolo  per  mano:  O figlio,  disse, 

Perché,  lasciato  il  guerreggiar,  qua  vieni? 
Ohimè!  per  certo  i detestati  Achei 
Son  già  sotto  alle  mura,  e te  qui  spinge 
Reli^oso  zelo  ad  innalzare 
Là  su  la  rocca  le  pie  mani  a Giove. 

Ma  deh  ! rimanti  alquanto , ond'  io  d' un  dolce 
'Vino  la  spuma  da  libar  ti  rechi 
Primamente  al  gran  Giove  e agli  altri  Eterni; 
Indi  a rifar  le  tue,  se  ne  berai. 

Esauste  forze.  Di  gucrrier  già  stanco 
Rinfranca  Bacco  il  cure,  e te  pugnante 
Per  la  tua  patria  la  fatica  oppresse. 

No,  non  recarmi,  veneranda  madre. 

Dolce  vino  verun,  rispose  Ettorre; 

Ch'egli  scemar  potfia  mie  forze,  e in  petto 
Addormentarmi  la  natia  virtude. 

Aggiungi,  che  libar  non  oso  a Giove 
Pria  che  di  divo  fiume  onda  mi  lavi  ; 

Nè  certo  lice  colle  man,  di  polve 
Lorde  e di  sangue,  offerir  voti  al  sommo 
De'  nembi  adunator.  Ma  tu  di  Palla 


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l36  lUàDK  V 341-180 

Preclatrioe  t’ invia,  deh!  tosto  al  tempio, 

E rl:cavi  i profami,  accompagnata 
Dalle  auguste  matrone 4 e qual  nell'arca 
Peplo  ti  serbi  più  leggiadro  c caro. 

Prendilo,  e umile  della  Diva  il  poni 
Su  le  sacre  ginocchia , e sei  le  vdta 
Giovenche  e sei  di  collo  ancor  non  tocco , 

Se  la  cittade  e le  consorti  e i figli 
Commiscrando,  dall'  iliache  mura 
Allontana  il  feroce  Diomede  , 

Artefice  di  fuga  e di  spavento. 

Corri  dunque  a placarla.  Io  ratto  intanto 
A Paride  ne  vado , onde  svegliarlo 
Dal  suo  letargo , se  darammi  orecchio. 

Oh  I gli  s’  aprisse  il  suolo , ed  ingojassc 
Questa  del  mio  buon  padre  e di  noi  tutti 
Inviata  da  Giove  alta  sciagura. 

Nè  penso,  che  dal  cor  mi  fia  mai  tolta 
Di  sì  spiacenti  guai  la  rimembranza. 

Se  pria  non  veggo  costui  spinto  a Plutu. 

Disse^  e ne' regj  alberghi  Ecuba  entrata, 
Chiama  le  ancelle,  e a ragunar  le  manda 
Per  la  cittade  le  matrone.  Ed  ella 
Nell’  odorato  talamo  discende , 

Ove  di  pepli  istoriati  un  serbo 
Tenea,  lavor  delle  fenicie  donne. 

Che  Paride,  solcando  il  vasto  mare. 

Da  Sidon  conducea,  quando  la  figlia 
Di  Tindaro  rapio.  Di  questi  Ecuba 
Un  ne  toglie  il  più  grande , il  più  riposto , 
Fulgido  come  stella,  ed  a Minerva 
Oiferta  lo  destina.  Indi  s’  avvia 
Dalle  gravi  matrone  accompagnata. 

Al  tempio  giunte  di  Minerva  in  vetta 
All'  ardua  rócca,  apei'sc  loro  i sacri 
Claustri  la  figlia  di  Cisséo,  la  bella 
D’alme  guance  Teano,  che  lodata 
D'Àntènore  consorte  i giusti  Teucri 
Di  Minerva  nomàr  sacerdotessa. 

Tutte  allora  levór  con  alti  pianti 


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LIBRO  TI 


¥.  38t-4>o 


A Pallade  le  palme;  e preso  il  peplo, 

Su  le  ginocchia  della  Diva  il  pose 
La  modesta  Teano;  indi  di  Giove 
Alla  gran  figlia  orò  con  questi  accenti: 

Veneranda  Minerva,  inclita  Dea, 

Delle  città  custode,  ah!  tu  del  fiero 
Tidide  l’asta  infrangi , e di  tua  mano 
Stendilo  anciso  sulle  porte  Scee, 

Che  noi  tosto  su  Pare  a te  faremo 
Di  dodici  giovenche  ancor  non  dome 
Scorrere  il  sangue,  se  di  queste  mura 
E delle  teucre  spose , e de’  lor  cari 
Figli  innocenti  sentirai  pietade. 

Così  pregar;  ma  non  udia  la  Diva 
Delle  misere  i voti.  Ettore  intanto 
Di  Paride  cammina  alle  leggiadre 
Case,  di  ehe  egli  stesso  il  prence  avea 
Divisato  il  disegno,  al  magistero 
De’  più  sperti  di  Troja  architettori 
Fidandone  l’ effetto.  E questi  a lui 
E stanza  ed  atrio  e corte  edificare 
Sul  sommo  della  rócca,  appo  i regali 
Di  Priamo  stesso  e del  maggior  fratello 
Risplendenti  soggiorni.  Entrovvi  Ettorre, 
Nelle  mani  la  lunga  asta  tenendo 
Di  ben  undici  cubiti.  La  punta 
Di  terso  feiTo  colla  ghiera  d’ oro 
Al  mutar  de’  gran  passi  scintillava. 

Nel  talamo  il  trovò,  che  le  sue  belle 
Armi  assettava,  i curvi  archi  e lo  scudo 
E l’usbergo.  L’ argiva  Elena,  in  mezzo 
All’  ancelle  seduta,  i bei  lavori 
Ne  dirigea.  Com’  ebbe  in  lui  gli  sguardi 
Fisso  il  grande  guerrier,  con  detti  acerbi 
Cosi  l’ invase  : Sciagurato  ! il  core 
Ira  ti  rode,  il  so;  ma  non  ò bello 
Il  coltivarla.  Intorno  all’ alte  mura 
Cadono  combattendo  i cittadini, 

E tanta  strage  c tanto  affar  di  guerra 
Per  te  solo  s’  accende  ; e tu  sei  tale , 


■ 37 


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ILIADE 


Clic  altrui  vedendo  abbandonar  la  pugna, 
Rampognarlo  oseresti.  Or  su,  ti  seuoti; 

E.sei  di  qua  pria  che  da’  Greei  aeeesa 
Venga  a snidarti  jd’Ili'on  la  fiamma. 

Bello,  siecome  un  Dio,  Paride  allora 
Cosi  rispose:  Tu  mi  fai,  fratello. 

Giusti  rimprocei;  e giusto  al  par  mi  sembra, 
Cb’  io  ti  risponda , e tu  mi  porga  aseolto. 

Nè  sdegno  nè  rancor  eontra  i Trojani 
Nel  talamo  regai  mi  rattenea , 

Ma  desir  solo  di  distrarre  un  mio 
Dolor  segreto.  E in  questo  punto  istesso 
Con  tenere  parole  aneo  la  moglie 
M’esortava  a tornar  nella  battaglia, 

E il  eor  mio  stesso  mi  dieea,  ehe  questo 
Era  lo  meglio^  perocché  nel  campo 
Le  palme  alterna  la  vittoria.  Or  dunque 
Attendi,  che  dell’ armi  io  mi  rivesta, 

O mi  precorri  ; eh’  io  ti  seguo , e tosto 
Raggiungerti  mi  spero.  — Cosi  disse 
Paride:  e nulla  gli  rispose  Ettorre^ 

A cui  molli  volgendo  le  parole, 

Elena  soggiugnea:  Dolce  cognato. 

Cognato  a me  proterva , a me  primiero 
De’  vostri  mali  detestando  fonte. 

Oh  m’avesse  il  di  stesso,  in  che  la  madre 

Mi  partoriva,  un  turbine  divelta 

Dalle  sue  braccia,  ed  alle  rupi  infranta, 

0 del  mar  nell’ irate  onde  sommersa 
Pria  del  bieco  mio  fallo!  E poiché  tale 
E tanto  danno  statuir  gli  Dei , 

Stata  almeno  foss’  io  consorte  ad  uomo 
Più  valoroso , e che  nel  cor  più  addentro 

1 dispregi  sentisse  c le  rampogne. 

Ma  di  presente  a costui  manca  il  fermo 
Carattere  dell’  alma , e non  ho  speme , 

Ch’  ei  lo  s’  acquisti  in  avvenir.  M’ avviso 
Quindi,  che  presto  pagheranno  il  fio. 

Ma  tu  vien  oltre,  amato  Ettorrc,  c siedi 
Su  questo  seggio,  e il  cor  stanco  ricrea 


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i-Soo 


LIBRO  VI 


Dal  no  travaglio  che  per  me  sostieni, 

Per  me  d’  obbrobrio  carca , e per  la  colpa 
Del  tuo  fratello.  Ahi  lassa!  un  duro  fato 
Giove  n'impose,  e tal  eh’ anco  ai  futuri 
Darcm  materia  di  canzon  famosa. 

Cortese  donna,  le  rispose  Ettorre, 

Non  rattenermi.  Il  core,  impaziente 
Di  dar  soccorso  a’  miei,  che  me  lontano 
Richiamano,  fa  vano  il  dolce  invito. 

Ma  tu  di  cotestui  sprona  il  coraggio. 

Onde  s’  agretti  ei  pure , e mi  raggiunga 
Anzi  eh’  io  m’  esca  di  città.  Veloce 
Corro  intanto  a’  miei  lari  a veder  1’  uopo 
Di  mia  famiglia,  e la  diletta  moglie 
E il  pargoletto  mio,  non  mi  sapendo. 

Se  alle  lor  braccia  tornerò  più  mai, 

O s’oggi  è il  di,  che  decretàr  gli  Eterni 
Sotto  le  destre  achee  la  mia  caduta. 

Parte,  ciò  detto ^ e giunge  in  un  baleno 
Alla  eccelsa  magione  ma  non  vi  trova 
La  sua  dal  bianco  seno  alma  consorte  ^ 
Ch’  ella  col  caro  figlio  e coll’  ancella 
In  elegante  peplo  tutta  chiusa 
Sull’alto  delia  torre  era  salita; 

E là  si  stava  in  pianti  ed  in  sospiri. 

Come  deserta  Ettór  vide  la  staiua, 
Arrestossi  alla  soglia , ed  all’  ancelle 
Volto  il  parlar:  Porgete  il  vero,  ei  disse', 
Andromaca  dov’è?  Forse  alle  case 
Di  qualcheduna  delle  sue  congiunte, 

O di  Palla  recossi  ai  santi  altari 
A placar  colle  troiche  matrone 
La  terribile  Dea?  — No,  gli  rispose 
La  guardiana',  e poiché  brami  il  vero, 
n vero  parlerò.  Nè  alle  cognate 
Ella  n’  andò  , nè  di  Minerva  all’  are , 

Ma  d’ilio  alla  gi'an  torre.  Udito  avendo 
Dell’  inimico  un  furioso  assalto 
E de’ Teucri  la  rotta,  la  meschina 
Corre  verso  le  mura  a simiglianza 


ILIADE 


Di  forsennata,  e la  fcdcl  nutrice 
Col  pargoletto  in  braccio  l’accompagna. 

Finito  non  avea  queste  parole 
La  guardiana,  che  veloce  Ettorrc 
Dalle  soglie  si  spicca,  e ripetendo 
Il  già  corso  scntier , fende  diritto 
Del  grand’  Ùio  le  piazze  ^ ed  alle  Scee , 
Onde  al  campo  è 1’  uscita,  ecco  d’incontro 
Andromaca  venirgli,  illustre  germe 
D’  Eezione , abitator  dell’  alta 
Ipóplaco  selvosa,  c de’  Cilici 
Dominator  nell’  ipoplacia  Tebe. 

Ei  ricca  di  gran  dote  al  grande  Ettorre 
Diede  a sposa  costei,  ch’ivi  allor  corse 
Ad  incontrarlo^  c seco  iva  l’ancella. 

Tra  le  braccia  portando  il  pargoletto 
Unico  tìglio  dell’eroe  trojano, 

Bambin  leggiadro  come  stella.  11  padre 
Scamandrio  lo  nomava,  il  vulgo  tutto 
Asti'anatte,  perchè  il  padre  ei  solo 
Era  dell’  alta  Troja  il  difensore. 

Sorrise  Ettorre  nel  vederlo , c tacque. 

Ma  di  gran  pianto  Andrdmaca  bagnata , 
Accostossi  al  marito,  c per  la  mano 
Stringendolo,  e per  nome  in  dolce  suono 
Chiamandolo,  proruppe:  Oh  troppo  ardito! 
Il  tuo  valor  ti  perderà:  nessuna 
Pietà  del  figlio  nè  di  me  tu  senti. 

Crude],  di  me,  che  vedova  infelice 
RiraaiTommi  tra  poco,  perchè  tutti 
Di  conserto  gli  Achei  contro  te  solo 
Si  scaglieranno  a trucidarti  intesi  j 
E a me  fia  meglio  allor,  se  mi  sei  tolto. 
L’andar  sotterra.  Di  te  priva,  ahi  lassa! 

Ch’  altro  mi  resta,  che  perpetuo  pianto  ì 
Orba  del  padre  io  sono  e della  madre. 

M’ uccise  il  padre  lo  spietato  Achille 
Il  dì  che  de’  Cilici  egli  1’  eccelsa 
Popolosa  città  Tebe  distrusse; 

M’uccise,  io  dico,  Eezi'on  quel  crudo; 


LIBRO  Vt 


V. 


Ma  dispogliarlo  non  osò,  compreso 
Da  divino  tcrror.  Quindi  con  tutte 
L’ armi  sul  rogo  il  corpo  ne  compose , 

E un  tumulo  gli  alzò,  cui  di  frondosi 
Olmi  le  6g1ie  dell’  Egioco  Giove  , 

L’Oreadi  pietose,  incoronavo. 

Di  ben  sette  fratelli  iva  superba 
La  mia  casa.  Di  questi  in  un  sol  giorno 
Lo  stesso  figlio  della  Dea  sospinse 
L’  anime  a Fiuto , e li  trafisse  in  mezzo 
Alle  mugghianti  mandre  ed  alle  gregge. 

Della  boscosa  Ipdplaco  reina 
Mi  rimanea  la  madre.  11  vincitore 
Coll’  altre  prede  qua  l’ addusse , e poscia 
Per  largo  prezzo  in  libertà  la  pose. 

Ma  questa  pure,  ahimè!  nelle  paterne 
Stanze  lo  . strai  d’Artémide  trafisse. 

Or  mi  resti  tu  solo , Ettore  caro; 

Tu  padre  mio,  tu  madre,  tu  fratello. 

Tu  florido  marito.  Abbi  deh!  dunque 
Di  me  pietade,  e qui  rimanti  meco 
A questa  torre;  nè  voler  che  sia 
Vedova  la  consorte,  orfano  il  figlio. 

Al  caprifico  i tuoi  guerrieri  aduna, 

Ove  il  nemico  alla  città  scoperse 
Più  agevole  salita  e più  spedito 
Lo  scalar  delle  mura.  O che  agli  Achei 
Abbia  mostro  quel  varco  un  indovino, 

O che  spinti  ve  gli  abbia  il  proprio  ardire. 
Questo  ti  basti,  che  i più  forti  quivi 
Già  fér  tre  volte  di  valor  periglio. 

Ambo  gli  Ajaei,  ambo  gli  Atridi,  e il  chiaro 
Sire  di  Creta , ed  il  fatai  Tidide. 

Dolce  consorte,  le  rispose  Ettorre, 

Ciò  tutto,  che  dicesti,  a me  pur  anco 
Ange  il  pensier;  ma  de’  Trojani  io  temo 
Fortemente  lo  spregio,  e dell’ altere 
Trojane  donne,  se  guerrier  codardo 
Mi  tenessi  in  disparte,  e della  pugna 
Evitassi  i cimenti.  Ah!  noi  consente, 


■4* 


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ILUDE 


V.  58i-6so 


No,  questo  cor.  Da  lungo  tempo  appresi 
Ad  esser  forte,  ed  a volar  tra’  primi 
Negli  acerbi  conflitti  alla  tutela 
Della  paterna  gloria  e della  mia. 

Giorno  verrà,  presago  il  cor  mcl  dice. 
Verrà  giorno , che  II  sacro  iliaco  muro 
E Priamo  e tutta  la  sua  gente  cada. 

Ma  nè  de’  Teucri  il  rio  dolor,  nò  quello 
D’ Ecuba  stessa,  nè  del  padre  antico. 

Nè  de’  fratei , che  molti  c valorosi 
Sotto  il  ferro  nemico  nella  polve 
Cadran  distesi,  non  mi  accora,  o donna. 
Si  di  questi  il  dolor,  quanto  il  crudele 
Tuo  destino,  se  fia  che  qualche  Achco , 
Del  sangue  ancor  de’  tuoi  lordo  l’ usbergo  , 
Lagrimosa  ti  tragga  in  scrvitudc. 

Misera!  in  Argo  all’insolente  cenno 
D’una  straniera  tesserai  le  tele. 

Dal  fonte  di  Messide  o d’ Ipcrèa, 

( Ben  rcpugnantc , ma  dal  fato  astretta  ) 
Alla  superba  recherai  le  linfe; 

E,  vedendo  talun  piovere  il  pianto 
Dal  tuo  ciglio,  dirà:  Quella  è d’Ettorre 
L’  alta  consorte , di  quel  prode  Ettorrc , 
Che  fra’  trojani  eroi  di  generosi 
Cavalli  agitatori  era  il  primiero. 

Quando  intorno  a Illon  si  combattea. 

Cosi  dirassi  da  qualcuno;  e allora 
Tu  di  nuovo  dolor  1’  alma  trafitta, 

Più  viva  in  petto  sentirai  la  brama 
Di  tal  marito  a scior  le  tue  catene. 

Ma  pria  morto  la  terra  mi  ricopra , 

Ch’io  di  te  schiava  i lai  pietosi  intenda. 

Cosi  detto,  distese  al  caro  figlio 
L’  aperte  braccia.  Acuto  mise  un  grido 
Il  bambinello;  c,  declinato  il  volto, 

Tutto  il  nascose  alla  nudrice  in  seno, 

Dalle  fiere  atterrito  armi  paterne, 

E dal  cimiero,  che  di  chiome  equine 
Alto  su  1’  elmo  orribilmente  ondeggia. 


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V.  62I-€6o  libro  vi 

Sorrise  il  gcnitor,  sorrise  anch’  ella 
La  veneranda  madre;  e dalla  fronte 
L’ intenerito  eroe  tosto  si  tolse 
L'elmo,  e raggiante  sul  terreo  lo  pose. 

Indi  baciato  con  immenso  affetto, 

E doleemente  tra  le  mani  alquanto 
Palleggiato  l’infante,  alaollo  al  cielo, 

E supplice  sdamò:  Giove  pietoso, 

E voi  tutti,  o Celesti,  ah!  concedete. 

Che  di  me  degno  im  dì  questo  mio  figlio 
Sia  splendor  della  patria , e de'  Trojani 
Forte  e possente  regnator.  Deh  ! fate , 

Che  il  veggendo  tornar  dalla  battaglia 
Dell’  armi  onusto  de'  nemici  uccisi , 

Dica  talun;  Non  Ju  sì  forte  il  padre-.  . 

E il  cor  materno  nell’ udirlo  esulti. 

Così  dicendo,  in  braccio  alla  diletta 
Sposa  egli  cesse  il  pargoletto;  ed  ella, 

Con  un  misto  di  pianti  almo  sorriso. 

Lo  si  raccolse  all’  odoroso  seno. 

Di  seci*eta  pietà  l’alma  percosso 
Riguardolla  il  marito,  e colla  mano 
Accarezzando  la  dolente:  Oh!  disse. 

Diletta  mia,  ti  prego;  oltre  misura 
Non  attristarti  a mia  cagion.  Nessuno, 

Se  il  mio  punto  fatai  non  giunse  ancora, 
Spingerammi  a Pluton;  ma  nullo  al  mondo. 
Sia  vii,  sia  forte,  si  sottraggo  al  fato. 

Or  ti  rincasa , c a’  tuoi  lavori  intendi , 

Alla  spola,  al  pennecchio,  e delle  ancelle 
Veglia  su  1’  opre  ; e a noi , quanti  nascemmo 
Fra  le  dardanic  mura,  a me  pnmiero 
Lascia  i doveri  dell’acerba  guerra. 

Raccolse,  al  terminar  di  questi  accenti. 
L’elmo  dal  suolo  il  generoso  Ettorre; 

E muta  alla  magion  la  via  riprese 
L’amata  donna,  riguardando  indietro, 

E amaramente  lagrimando.  Giunta 

Agli  cttorci  palagi,  ivi  raccolte 

Trovò  le  ancelle , e le  commosse  al  pianto. 


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ILUDE 


6Al- 


Ploravan  tutte  T ancor  vivo  Ettorre 
Nella  casa  d’  Ettór  le  dolorose, 

Rivederlo  più  mai  non  si  sperando 
Reduce  dalla  pugna , e dalle  fiere 
Mani  scampato  de'  robusti  Achei. 

Non  producea  gl’  indugi  in  questo  mezzo 
Dentro  1’  alte  sue  soglie  il  Priiamidc 
Paride:  e già  di  tutte  rivestito 
Le  sue  bell’ armi,  d’IIio,  folgorando. 
Traversava  le  vie  con  presto  piede. 

Come  destriero,  che  di  largo  cibo 
Ne’  presepi  pasciuto , cd  a lavarsi 
Del  fiume  avvezzo  alla  bell’onda,  alfine. 
Rotti  i legami,  per  l’aperto  corre. 
Stampando  con  sonante  ugna  il  terreno; 
Scherzati  sul  dosso  i crini , alta  s’  estolle 
La  superba  cervice , ed  esultando 
Di  sua  bellezza,  ai  noti  paschi  ei  vola. 

Ove  amor  d’  erbe  o di  puledre  il  tira; 

Tale  di  Priamo  il  figlio  dalla  ròcca 
Di  Pergamo  scendea  tutto  nell’ armi 
Eisultante  e corrusco  come  sole. 

SI  ratti  i piedi  lo  portàr,  ch’ei  tosto 
Il  germano  raggiunse  appunto  in  quella. 

Che  dal  tristo  parlar  si  dipartia 
Della  consorte.  Favellò  primiero 
Paride,  e disse:  Alla  tua  giusta  fretta 
Fui  di  lungo  aspettar  forse  cagione. 
Venerando  fratello,  e non  ti  giunsi 
Sollecito,  tem’io,  come  imponesti. 

Generoso  timor!  rispose  Ettorre; 
NuU’uom,  che  l’opre  drittamente  estimi. 
Darà  biasmo  alle  tue  nel  glorioso 
Mestier  dell’  armi  ; chè  tu  pur  se’  prode. 

Ma,  colpa  del  voler,  spesso  s’allenta 
La  tua  virtude,  e inoperosa  giace. 

Quindi  è r alto  mio  duol  quando  de’  Teucri , 
Per  te  solo  infelici,  odo  in  tuo  danno 
Le  contumche.  Ma  partiam;  chè  poscia 
Comporremo  tra  noi  questa  contesa, 


LIBRO  VI 


>45 


r.  70|'7o4 

Se  grazia  ne  farà  Giove  benigno 
Di  poter  lieti  nelle  nostre  case 
Ai  Celesti  immortali  offi-ir  la  coppa 
Dell’alma  libertà,  vinti  gli  Achei. 


Moirri.  Iliiute. 


IO 


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LIBRO  SETTIMO. 


àRGOMBNTO 


Ettore  e Paride  rìaftofooo  i Gred.  EU  do,  per  ùpinnaoe  ditina,  eooeiglù  Ettore,  ebe, 
Utu  eetfve  U betUgUa,  iddi  a liogoUr  leoaooe  il  più  ealeate  de’GracL  Ettore  accoglie  b 
propoftU.  I Greci  eùtaoo  alqQaalo  ad  accettare  b ditfda.  Qaiodi,  rioyoeerati  da  If^ttore  , 
oott  di  bro  o&ocui  proati  a oomlnttere.  Fotte  b aorta  « caca  ^Ib  di  Ajace  Tebmoaùo. 
DeimiioDe  del  dttelb.  1 oombaltenti,  aupraveeoeodo  b notte,  aoao  aeparati  dagli  araldi.  1 
Greci , per  oomiglb  di  NAiore , aoiprodooo  le  armi , onde  attendere  aUa  aepoltun  de’  mort  i 
cd  alb  coatruaione  d’ un  muro  per  difna  dd  campo.  de’  Trojaoi.  Iddo  vbne  nel 

campo  greco  a proporre  condiaioni  di  pece,  e a domandare  una  fregna  per  aeppeOire  i morti. 
Le  prime  aooo  rigettate,  b aecooda  b accordata.  Muro  coitmUo  dai  Croci.  Sd^no  di  Netr 
Uiano.  Gtoriti  notturni  de' Greci  e de’  Troiani.  Segni  iaboatì  mandati  da  Gbre  duraob 
b notte. 


Così  dicendo,  dalle  porte  eruppe, 

Seguito  dal  fratello,  il  grande  Ettorre. 

Ardono  entrambi  di  far  pugna  : e quale 
I naviganti  allégra  amico  vento. 

Che  un  Dio  lor  manda  allor  che  stanchi  ei  sono 
D' agitar  le  spumanti  onde  co’  remi , 

C cascano  le  membra  di  fatica  ^ 

Tali  al  desio  de’ Teucri  essi  apparirò. 

A prima  giunta  Paride  stramazza 
Menestio , d’Ama  abitatore,  e 6glio 
Del  portator  di  clava , Arè'itóo , 

A cui  lo  partoria  Filomedusa , 

Per  grand’  occhi  lodata.  Ettore  attasta 

Eionéo  di  lancia  alla  cervice 

Sotto  l’elmetto,  e morto  lo  distende. 

Glauco,  duce  de’Licj,  a un  tempo  istcsso 
D’un  colpo  di  zagaglia  ad  Ifindo , 

Prole  di  Déssio , l’ òmero  trafigge 
Appunto  in  quella  che  salia  sul  cocchio^ 

E dal  cocchio  al  terren  morto  il  trabocca. 


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V.  3I-60 


47 


ILIADE,  LIBRO  VII  | 

Vista  la  strage  degli  Achei,  Minerva 
Dall’Olimpo  calessi  impetuosa 
Verso  il  sacro  Uion.  La  vide  Apollo 
Dalla  pergàmea  ròcca  ^ e , vincitori 
Bramando  i Teucri,  le  si  fece  incontro 
Vicino  al  faggio  , e favellò  primiero  : 

Figlia  di  Giove,  e quale  il  cor  t’invade 
Furia  novella?  E qual  sì  grande  affetto 
Dall’Olimpo  ti  spinge?  a portar  forse 
Della  pugna  agli  Achei  la  dubbia  palma. 

Poiché  niuna  ti  tocca  il  cor  pietade 
Dello  strazio  de’  Teucri  ? Or  su , m’ ascolta  , 

E fia  lo  meglio  : si  sospenda  in  questo 
Giorno  la  zuffa , e alla  novella  aurora 
Si  ripigli  e s’ incalzi  infin  che  Troja 
Cada;  da  che  la  sua  caduta  a voi. 

Possenti  Dive , il  cor  cotanto  invoglia. 

Sia  così.  Palla  gli  rispose:  io  scesi 
Fra  i Trojani  e gli  Achei  con  questa  mente. 

Ma  come  avvisi  di  quetar  la  pugna  ? 

Suscitiam  , replicava  il  saettante 
Figlio  di  Giove , suscitiam  la  forte 
Alma  d’  Ettorre  a provocar  qualcuno 
De’  prodi  Achivi  a singoiar  tenzone  ; 

E indignati  gli  Achivi  un  valoroso 
Spingano  anch’  essi  a cimentarsi  in  campo 
Da  solo  a solo  col  trojan  guerriero. 

Disse;  e Minerva  acconsentia.  Conobbe 
De’  consultanti  iddii  tosto  il  disegno 
D Prìamide  Eléno  in  suo  pensiero, 

E ad  Ettore  venuto:  Ettore , ei  disse  . 

Pari  a quello  d’ un  nume  è il  tuo  consiglio; 

Ma  udir  vuoi  tu  del  tuo  fratello  il  senno  ? 

Fa  dall’ armi  cessar  Teucri  ed  Achei, 

E degli  Achei  tu  s6da  il  più  valente 
A singoiar  certame.  Io  ti  fo  certo  , 

Che  il  tuo  giorno  fatai  non  giunse  ancora  : 

Così  mi  dice  degli  Dei  la  voce. 

Esultò  di  letizia  all’  alto  invito 
11  valoroso;  e presa  per  lo  mezzo 


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ILIADE 


i4d 


¥.  6ioioo 


La  sua  gran  lancia , e tra  l' un  campo  e P altro 
Procedendo,  fe  alto  alle  trojane 
Falangi  ; ed  elle  soffermarsi  tutte* 

Soffermarsi  del  pari  al  riverito 
Cenno  d’Àtride  i coturnati  Achivi^ 

E in  forma  d’ avoltoi  Minerva,  e Febo 
Sull’  alto  faggio  s’  arrestàr  di  Giove , 

Con  diletto  mirando  de’ guerrieri 
Quinci  e quindi  seder  dense  le  &le 
D’ elmi  orrende  c di  scudi  e d’  aste  erette. 

Quale  è 1’  orror , che  di  Favonio  il  soSSo 
Mei  suo  primo  spirar  spande  sul  mare , 

Che  destato  s’arruffa  e Fonde  imbruna; 

Tale  de’  Teucri  c degli  Achei  nel  vasto 
Campo  sedute  comparian  le  file. 

Trasse  Ettorre  nel  metzo , e cosi  disse  : 

Udite , o Teucri  ; udite  attenti  , o Achivi , 
Ciò  che  nel  petto  mi  ragiona  il  core. 

Ratificar  non  piacque  all’  alto  Giove 
I nostri  giuramenti,  e in  suo  segreto 
Agli  uni  e agli  altri  macchinar  ne  sembra 
Grandi  infortunj , finché  1’  ora  arrivi , 

Ch’  Ilio  per  voi  s’  atterri , o che  voi  stessi 
Atterrati  restiate  appo  le  navi. 

Or  quando  il  vostro  campo  il  fior  racchiude 
Degli  achivi  guerrieri,  esca  a duello 
Chi  cuor  si  sente  : lo  disfida  Ettorre. 

Elccovi  i patti  del  certame,  e Giove 
Testimonio  ne  sia  : se  il  mio  nemico 
M’  ucciderà  , dell’  armi  ei  mi  dispogli , 

E le  si  porti  ; ma  il  mio  corpo  renda , 

Onde  i Trojani  e le  trojane  spose 
M’  onorino  del  rogo.  Ov’  io  lui  spegna  , 

Ed  Apollo  la  palma  a me  conceda , 

Porteronne  le  tolte  armi  nel  sacro 

Ilio , e del  nume  appenderolle  al  tempio  ; 

Ma  1’  intatto  cadavere  alle  navi 
*Vi  sarà  rimandato , onde  d’  esequie 
L’  orni  l’ achea  pietade  c di  sepolcro 
Su  F Ellesponto.  Lo  vedrà  de’ posteri 


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».  lOI-I^O  LIBRO  VII  I 

Navigaoti  qualcuno , e ila  che  dica  : 

Ecco  la  tomba  d' un  antico  prode , 

Che  combattendo  coll'illustre  Cttorre, 

Glorioso  per).  Questo  6a  detto 
Ed  eterno  vivrassi  il  nome  mio. 

All’audace  disfida  ammutolirò 
Gli  Achei,  tementi  d’ accettarla , e insieme 
Di  recusarla  vergognosi.  Alfine 
In  piè  rìzzossi  Menelao , nell’  imo 
Del  cor  gemendo  ; ed  in  acerbi  detti 
Prorompendo,  gridò:  Vili  superbi, 

Achive , non  Achei  I Fia  questo  il  colmo 
Dell’  ignominia , se  tra  voi  non  trova 
Quell’ audace  Trojan  chi  gli  risponda. 

Oh!  possiate  voi  tutti  in  nebbia  e polve 
Resoluti  sparir,  voi,  che  vi  state 
Qui  senza  core  immoti  e senza  onore. 

Ma  io  medesmo , io  s: , contra  costui 
Scenderò  nell’arena.  In  man  de’  numi 
Della  vittoria  i termini  son  posti. 

Ciò  detto,  l’armi  indossa.  E certo  allora 
Per  le  mani  d’  Ettorre , o Menelao , 

Trovato  avresti  di  tua  vita  il  fine , 

( Ch’  egli  di  forza  ti  vincea  d’  assai  ) 

Se  subito  in  piè  surti  i prenci  achivi 
Non  rattenean  tua  foga.  Egli  medesmo 
n regnatore  Atride  Agamennòne 
L’aflerrò  per  la  mano  , e:  Tu  deliri. 

Disse,  e il  delirio  non  ti  giova.  Or  via. 

Fa  senno,  e premi  il  tuo  dolor,  nè  spinto 

Da  bellicosa  gara  avventurarti 

Con  un  più  prode,  di  cui  tutti  han  tema , 

Col  Priamide  Ettorre.  Anco  il  PeU'de, 

S)  più  forte  di  te,  lo  scontro  teme 
Di  quella  lancia  nel  conflitto.  Or  dunque 
Ritorna  alla  tua  schiera,  e statti  in  posa. 

Gli  desteranno  incontra  altro  più  fermo 
Duellator  gli  Achivi , e tal  eh’  Ettorre , 

Intrepido  quantunque  ed  indefesso. 

Metterà  volentier,  se  dritto  io  veggo, 


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l5o  ILIADE  ».  l4l.|go 

Le  ginocchia  in  riposo,  ove  pur  sia, 

Che  netto  egli  esca  dalla  gran  tenzone. 

Svolse  il  saggio  parlar  del  sommo  Àtride 
Del  fratello  il  pensier,  che  obbediente 
Quetossi,  c lieti  gli  levàr  di  dosso 
Le  bell'arme  i sergenti.  Àllor  nel  mezzo 
Surse  Nestore,  c disse:  Eterni  Dei  ! 

Oh  di  che  lutto  ricoprirsi  io  veggio 
La  rasa  degli  eroi,  l’achea  contrada! 

Oh  quanto  in  cor  ne  gemerà  l'antico 
Di  cocchi  agitator,  Pcléo , di  lingua 
Fra'Mirmidón  sì  chiaro  e di  consiglio^ 

Egli,  che  in  sua  magion  solca  di  tutti 
Gli  Achei  le  schiatte  dimandarmi  e i figli , 

E giubilava  nell' udirli!  Ed  ora. 

Se  per  Ettorre  ei  tutti  li  sapesse 
Di  terror  costernati,  oh  come  al  cielo 
Alzerebbe  le  mani,  c pregherebbe 
Di  scendere  dolente  anima  a Fiuto  ! 

O Giove  padre,  o Palladc,  o divino 
Di  Latona  figliuoli  che  non  son  io 
Nel  fior  degli  anni,  come  quando  in  riva 
Pugnàr  del  ratto  Celadonte  i Pilj 
Con  la  sperta  di  lancia  arcade  gente 
Sotto  il  muro  di  Fca  verso  le  chiare 
Del  Jàrdano  cori-enti?  Alla  lor  testa 
Ereutalion  venia,  che  pari  a nume 
L'armatura  regai  d’Areitóo 
Indosso  avea,  del  divo  Areitóo, 

Che  gli  iiomin  tutti  c le  ben  cinte  donne 
Clavigero  nomar ^ perchè  non  d'arco. 

Nè  di  lunga  asta  armato  ei  combattea, 

Ma  con  clava  di  ferro  poderosa 
Rorapea  le  schiere.  A lui  diè  morte  poscia. 

Pel  valore  non  già,  ma  per  inganno 
Licurgo  al  varco  d'un  angusto  calle. 

Ove  il  rotar  della  ferrata  clava 
Al  suo  scampo  non  valse ^ chè  Licurgo, 
Prevenendone  il  colpo,  traforógli 
L'epa  coll'asta,  c stramazzollo;  c Tarmi 


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Così  gli  tolse,  che  da  Marte  egli  ebbe, 

Armi,  che  poscia  l’uccisor  portava 
Ne’ fervidi  conflitti,  insin  che,  fatto 
Per  vecchiezza  impotente,  al  suo  diletto 
Prode  scudiero  Ereutalion  le  cesse. 

Di  queste  dunque  altero  iva  costui. 

Disfidando  i più  forti^  ed  atterriti 
N’cran  sì  tutti,  che  nessun  si  mosse. 

Ma  io  mi  mossi  audace  core,  e d’anni 
Minor  di  tutti,  m’azzuffai  con  esso, 

E col  favor  di  Pallade  lo  spensi: 

Forte,  eccelso  campion,  che  in  molta  arena 
Giaceami  steso  al  piede.  Oh  mi  fiorisse 
Or  quell’ etadc  c la  mia  forza  intégra! 

Per  certo  Ettorre  trovcria  qui  tosto 
Chi  gli  risponda.  E voi  del  campo  acheo 
I più  forti,  i più  degni,  ad  incontrarlo 
Voi  non  andrete  con  allegro  petto? 

Tacque^  e rizzàrsi  subitani  in  piedi 
Nove  guerrieri.  Si  rizzò  primiero 
n re  de’ prodi  Àgamennón^  rizzossi 
Dopo  lui  Diomede^  indi  ambedue 
Gli  impetuosi  Àjaci*,  indi,  col  fido 
Merìon  bellicoso,  Idomenéo^ 

E poscia  d’Evemon  l’inclito  figlio, 

Eurìpilo,  e Toànte  Àndremonidc, 

E il  saggio  Ulisse  finalmente  ; ognuno 
Chiese  il  certame  coll’eroe  trojano. 

Disse  allora  il  buon  veglio:  Arbitra  sia 
Della  scelta  la  sorte;  e sia  l’eletto. 

Salvo  tornando  dall’ardente  agone, 

Degli  Achei  la  salute  e di  sé  stesso. 

Segna  a quel  detto  ognun  sua  sorte,  e dentro 
L’elmo  la  gitta  del  maggiore  Atride. 

La  turba  intanto  supplieante  ai  numi 
Sollevava  le  palme;  e con  gli  sguardi 
Fissi  nel  cielo,  udiasi  dire:  O Giove, 

Fa  che  la  sorte  il  Telamònio  Ajace 
Nómi,  o il  Tidide,  o di  Mieene  il  sire. 

Così  pregava;  e il  cavalier  Nestorre 


ILIADE 


«*.  aa  1*960 


53 

Agitava  le  sorti:  c«l  ecco  uscirne 
Quella,  che  tutti  desiar.  La  prese, 

E a dritta  e a manca  ai  prenci  achivi  in  giro 
La  mostrava  l’araldo,  e nullo  ancora 
La  conoscea  per  sua.  Ma  come,  andando 
Dall’uno  all’altro,  il  banditor  pervenne 
Al  Telamdnio  Ajace,  e gliela  porse, 

Riconobbe  l’eroe  lieto  il  suo  segno ^ 

E,  gittatolo  in  mezzo:  Amici,  è mia. 

Gridò,  la  sorte,  e ne  gioisce  il  core. 

Che  su  l’illustre  Ettór  spera  la  palma. 

Voi,  mentre  l’armi  io  vesto,  al  sommo  Giove 
Supplicate  in  silenzio,  onde  non  sia 
Dai  teucri  orecchi  il  vostro  prego  udito  ^ 

O supplicate  ad  alta  voce  ancora. 

Se  si  vi  piace;  chè  nessuno  io  temo. 

Nè  guerriero  v’avrà,  che,  mio  malgrado. 

Di  me  tii'onG,  nè  per  fallo  mio. 

SI  rozzo  in  guerra  non  lasciommi,  io  spero. 
La  marzial  palestra  in  Salamina, 

Nè  il  chiaro  sangue,  di  che  nato  io  sono. 

Disse;  e gli  Achivi  àlzàr  gli  sguardi  al  cielo, 
E a Giove  supplicar  con  questi  accenti: 
Saturnio  padre,  che  dall’ Ida  imperi 
Massimo,  augusto,  vincitor  deh!  rendi 
E glorioso  Ajace;  o se  pur  anco 
T’è  caro  Ettorre  e lo  proteggi,  almeno 
Forza  ad  entrambi  e gloria  ugual  concedi. 

Di  splendid’ armi  frettoloso  intanto 
Ajace  si  vestiva:  e poiché  tutte 
L’ ebbe  assunte  dintorno  alla  persona. 
Concitato  avviossi , c camminava 
Quale  incede  il  gran  Marte  allor  che  scende 
Tra  fiere  genti  stimolate  all’ armi 
Dallo  sdegno  di  Giove,  e dall’insana 
Roditrice  dell’ alme  empia  Contesa. 

Tale  si  mosse,  degli  Achei  trincierà. 

Lo  smisurato  Ajace,  sorridendo 
Con  terribile  piglio;  c misurava 
A vasti  passi  il  suol,  l’asta  crollando. 


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LIBIIO  TU 


i53 


f.  >6i-3oo 

Che  lunga  sul  terren  l'ombra  spandea. 

Di  letizia  esultavano  gli  Acliivi 
A riguardarlo  ; ma  per  l’ossa  ai  Teucri 
Corse  subito  un  gelo.  Palpitonne 
Lo  stesso  Ettòr;  ma  nè  schivar  per  tema 
Il  fier  cimento,  nè  tra' suoi  ritrarsi 
Più  non  gli  lice^  cbè  fu  sua  la  sfida. 

E già  gli  è sopra  Ajace  coll'immenso 
Pavese,  che  parea  mobile  torre ^ 

Opra  di  Tichio,  d'ila  abitatore, 
Prestantissimo  fabbro,  che  di  sette 
Costruito  l' avea  ben  salde  e grosse 
Cnoja  di  tauro,  c indottavi  di  sopra 
Una  falda  d'acciar.  Con  questo  al  petto 
Enorme  scudo  il  Telamónio  eroe 
Féssi  avanti  al  Trojano,  e minaccioso 
Mosse  queste  parole:  Ettore,  or  chiaro 
Saprai  da  solo  a sol  quai  prodi  ancora 
Rimangono  agli  Achei  dopo  il  Pelide, 

Cuor  di  bone  e rompitor  di  schiere. 

Irato  coll' Atride , egli  alle  navi 
Neghittoso  si  sta;  ma  noi  siam  tali. 

Che  non  temiamo  lo  tuo  scontro,  e molti. 
Comincia  or  tu  la  pugna,  e tira  il  primo. 

Nobile  prence  Telamdnio  Ajace, 

Rispose  Ettorre,  a che  mi  tenti,  e parli 
Come  a imbelle  fanciullo  o femminetta. 

Cui  dell' armi  il  mestiere  è pellegrino? 

E anch'io  trattar  so  il  ferro  e dar  la  morte, 
E a dritta  e a manca  anch'io  girar  lo  scudo, 
E infaticato  sostener  l’attacco, 

E a piè  fermo  danzar  nel  sanguinoso 
Ballo  di  Marte,  o d’un  salto  sul  cocchio 
Lanciarmi,  e concitar  nella  battaglia 

I veloci  destrier.  Nè  già  vogl’  io 
Un  tuo  pari  ferire  insidioso. 

Ma  discoperto,  se  arrivar  ti  posso. 

Ciò  detto,  bilanciò  colla  man  forte 
La  lunga  lancia,  e saettò  d’ Ajace 

II  settemplice  scudo.  Furiosa 


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|54 


ILlàDE 


f.  3oi*3^o 


La  punta  trapassò  la  ferrea  falda, 

Che  di  fuor  Io  copriva^  e via  scorrendo, 
Squarciò  sei  g:iri  del  bovin  tessuto, 

E al  settimo  fermossi.  Allor  secondo 
Trasse  Ajace,  e colpì  di  Priamo  il  figlio 
Nella  rotonda  targa.  Traforolla 
II  frassino  veloce,  e nell'usbergo 
Sì  addentro  si  ficcò,  che  presso  al  lombo 
Lacerògli  la  tunica.  Piegossi 
Ettore  a tempo,  ed  evitò  la  morte. 

Ricovrò  l’uno  e l’altro  il  proprio  telo, 

E all’assalto  tornàr  come  per  fame 
Fieri  leoni,  o per  vigor  tremendi 
Armfiati  cinghiali  alla  montagna. 

Di  nuovo  Ettorre  coll’acuto  cerro 
Colpì  lo  scudo  osti],  ma  senza  offesa^ 

Ch’ivi  la  punta  si  curvò:  di  nuovo 
Trasse  Ajace  il  suo  tcloj  ed  alla  penna 
Dello  scudo  ferendo,  a parte  a parte 
Lo  trapassò,  gli  punse  il  collo,  e vivo 
Sangue  spiccionne.  Nè  per  ciò  l’attacco 
Lasciò  l’audace  Ettorre.  Era  nel  campo 
Un  negro  ed  aspro  enorme  sasso:  a questo 
Diè  di  piglio  il  Trojano,  e contra  il  Greco 
Lo  fulminò.  Percosse  il  duro  scoglio 
Il  colmo  dello  scudo,  e orribilmente 
Ne  rimbombò  la  ferrea  piastra  intorno. 

Seguì  l’esempio  il  gran  Telamonide; 

Ed  aflerrato  e sollevato  ei  pure 
Un  altro  più  d’assai  rude  macigno. 

Con  forza  immensa  lo  rotò,  lo  spinse 
Contra  il  nemico.  11  molar  sasso  infranse 
L' ettoreo  scudo  ^ e di  tal  colpo  offese 
Lui  nel  ginocchio,  che  riverso  ci  cadde 
Con  lo  scudo  sul  petto  ^ ma  rizzollo 
Immantinente  di  Latona  il  figlio. 

E qui  tratte  le  spade  i due  campioni. 

Più  da  vicino  si  ferian,  se  ratti, 

Messaggieri  di  Giove  e de’  mortali , 

Non  accorrean  gli  araldi,  il  teucro  Idèo, 


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LIBRO  VII 


|55 


V.  34i-38o 

E l'achivo  Taltibio,  ambo  lodati 
Di  prudente  consiglio.  Entrar  costoro 
Con  securtade  in  mezzo  ai  combattenti; 

Ed  interposto  fra  le  nude  spade 
Il  pacifico  scettro,  il  saggio  Idèo 
Così  primiero  favellò:  Cessate, 

Diletti  figli,  la  battaglia.  Entrambi 

Siete  cari  al  gran  Giove,  entrambi  {e  chiaro 

Ognun  sei  vede)  acerrimi  guerrieri; 

Ma  la  notte  discende,  e giova,  o figli. 

Alla  notte  obbedir.  — Dimandi  Ettorre 
Questa  tregua,  rispose  il  fiero  Ajace: 

Primo  ei  tutti  sfidonne,  e primo  ei  chiegga. 
Ritirerommi,  se  F esempio  ei  porga. 

E l’illustre  rivai  tosto  riprese: 

Ajace,  i numi  ti  largir  cortesi 
Pari  alla  forza  ed  al  valore  il  senno. 

E nel  valor  tu  vinci  ogni  altro  Acheo. 

Abbian  riposo  le  nostr’armi,  e cessi 
La  tenzon.  Pugneremo  altra  fiata 
Finché  la  Parca  ne  divida,  e intera 
All’  uno  0 all’  altro  la  vittoria  dóni. 

Or  la  notte  già  cade,  e della  notte 
Romper  non  déssi  la  ragion.  Tu  riedi 
Dunque  alle  navi  a rallegrar  gli  Achivi. 

I congiunti,  gli  amici,  lo  nella  sacra 
Città  riéntro  a serenar  de' Teucri 

Le  meste  fironti  e le  dardanie  donne. 

Che  in  lunghi  pepli  avvolte  appiè  dell’ are 
Per  me  si  stanno  a supplicar.  Ma  pria 
Di  dipartirci,  un  mutuo  dono  attesti 
La  nostra  stima;  e gli  Achei  poscia  e i Teucri 
Diran:  Costoro  duellàr  coll’ira 
Di  fier  nemici,  c separàrsi  amici. 

Così  dicendo,  la  sua  propria  spada 
Gli  presentò  d’argentei  chiovi  adorna 
Con  fulgida  vagina,  ed  un  pendaglio 
Di  leggiadro  lavoro;  Ajace  a lui 

II  risplendente  suo  purpureo  cinto. 

Così  divisi,  agli  Achei  l’uno,  ai  Teucri 


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i56 


ILIADE 


r.  18l*4iO 


L'altro  avriossi.  Esilaràrsi  i Teucri, 

Vivo  il  lor  duce  ritornar  veggendo 
Dalla  forza  scampato  e dall’ invitte 
Mani  d’Ajace;  e trepidanti  ancora 
Del  passato  periglio  alla  cittadc 
L’accompagnaro.  Dall’opposta  parte 
Della  palma  superbo  il  lor  campione 
Guidar  gli  Àchivi  al  padigliou  d’Atride, 
Che,  per  tutti  onorar,  tosto  al  Tonante 
Un  bue  quinquenne  in  sacriheio  offerse. 
Lo  scuojdr,  lo  spaccir,  lo  fóro  in  brani 
Acconciamente,  e negli  spiedi  infisso, 
L’abbrustolàr  con  molta  cura^  e tolto 
Il  tutto  al  foco,  l’apprestlr  sul  desco, 

E banchettando  ne  cibò  ciascuno 
A pien  talento.  Ma  l’immenso  tergo 
Del  sacro  bue  donoUo  Agamenndnc, 
D’onore  in  segno,  al  vincitor  guerriero. 

Del  cibarsi  e del  ber  spento  il  desio, 

Il  buon  veglio  Nestorre,  di  cui  sempre 
Ottimo  uscia  l’avviso,  in  questo  dire 
Svolse  il  suo  senno:  Atride  e duci  achei. 
Questo  giorno  fatai  la  vita  estinse 
Di  molti  prodi,  del  cui  sangue  rossa 
Fe  l’aspro  Marte  la  scamandria  riva, 

E all’Orco  ne  passar  l’ombre  insepolte. 

Al  nuovo  sole  le  nostr’armi  adunque 
Si  restino  tranquille^  e noi,  sul  campo 
Convenendo,  imporrem  le  salme  esangui 
Su  le  carrette;  e muli  oprando  e buoi. 
Qui  ne  faremo  il  pio  trasporto,  e al  rogo 
Le  darem  lungi  dalle  navi  alquanto , 

Onde  al  nostro  tornar  nel  patrio  suolo 
Le  ceneri  portarne  ai  mesti  figli: 

E dintorno  alla  pira  una  comune 
Tomba  ergeremo;  e di  muraglia  e d’alte 
Torri,  a difesa  delle  navi  e nostra, 

Con  rapido  lavor  la  cingeremo , 

E salde  vi  apriremo  e larghe  porte 
Per  l’egresso  de’ cocchi.  Indi  un’esterna 


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Lnwo  TU 


r. 


Profonda  fossa  scaverem,  che  tutta 
Circondi  la  muraglia,  e de' cavalli 
L’impeto  affireni  e de’pedon,  se  mai 
De’ Teucri  irrompa  l’orgoglioso  ardire. 

Disse^  e tutti  annuirò  i prenci  achei. 

Di  Prìamo  alle  soglie  in  questo  mentre 
Su  l’alta  iliaca  ròcca  i Teucri  anch’essi 
Tenean  confusa  e trepida  consulta. 

Primo  il  saggio  Àntendr  si  prese  a dire: 
Dardànidi,  Trojani,  e voi  venuti 
In  sussidio  di  Troja,  i sensi  udite, 

Che  il  cor  mi  porge.  Rendasi  agli  Àtridi 
Con  tutto  il  suo  tesor  l’ argiva  Eléna. 
Violammo  noi  soli  il  giuramento; 

E quindi  inique  le  nostr’armi  sono. 

Se  non  si  rende,  non  avrem  che  danno. 

Cosi  detto,  s’ assise.  E,  surlo  in  piedi 
Il  bel  marito  della  bella  Argiva, 

Cosi  Pari  rispose:  ÀI  cor  m’è  grave, 
Antenore,  il  tuo  detto;  e so  che  porti 
Una  miglior  sentenza  in  tuo  segreto. 

Chè  se  parli  dawer,  davvero  i numi 
Ti  han  tolto  il  senno.  Ma  ben  io  qui  schietti 

I miei  sensi  aprirò.  La  donna  io  mai 
Non  renderò,  giammai.  Quanto  alle  ricche 
Spoglie,  che  d’Argo  a queste  rive  addussi. 
Tutte  render  le  voglio , ed  altre  ancora 
Aggiungeronne  di  mio  proprio  dritto. 

Tacque;  e sul  seggio  si  raccobe.  Allora 
In  sembianza  d’un  Dio  levossi  in  mezzo 

II  Dardànide  Prìamo;  ed:  Udite, 

Teucri,  ei  disse,  e alleati,  il  mio  pensiero. 

Quale  il  cor  Io  significa.  Pel  campo 

Del  consueto  cibo  si  rbtauri 

Ognuno,  e attenda  alla  sua  scolta,  e vegli. 

Col  nuovo  sole  alle  nemiche  navi 

Idèo  sen  vada , c ad  ambedue  gli  Atridi 

Di  Paride,  cagion  della  contesa. 

Riferisca  la  mente,  e una  discreta 
Proposta  aggiunga  di  cessar  la  guerra , 


iSy 


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58 


lUADE 


•.  4^i-5oo 


Finché  il  rogo  consunte  abbia  le  morte 
Salme  de’  nostri , per  pugnar  di  poi 
Finché  la  Parca  ne  spartisca , e agli  uni 
Conceda  o agli  altri  la  vittoria  integra. 

Tutti  assentirò  riverenti  al  detto  ; 

Indi  pel  campo  procuràr  le  cene 
In  divisi  drappelli.  Il  di  novello 
Alle  navi  s’avvia  l’araldo  Idèo, 

E raccolti  ritrova  a parlamento 
1 bellicosi  Achei  davanti  all’  alta 
Agamennónia  poppa.  Appresentossi 
Tosto  il  canoro  banditore , e disse  : 

Atridi  e duci  achei,  mi  dié  comando 
Priamo , e di  Troja  gli  ottimati  insieme , 

Di  sporvi,  se  vi  ila  grato  l’udirla., 

Di  Paride,  cagion  di  questa  guerra. 

Una  profferta  : le  ricchezze  tutte  , 

Ch’ei  d’Argo  addusse  (oh  pria  perito  ei  fosse!), 
Ei  tutte  le  vi  rende , ed  altre  ancora 
Di  sua  ragion  n’  aggiungerà.  Ma  quanto 
Alla  gentil  tua  donna , o Menelao, 

Di  questa  ei  niega  il  rendimento,  e indarno 
L’  esortano  i Trojani.  E un’altra  io  reco 
Di  lor  proposta  : se  quetar  vi  piaccia 
Della  guerra  il  furor  , finché  de’  morti 
Le  care  spoglie  il  foco  abbia  combuste. 

Per  indi  razzuffarci  infin  che  piena 
Tra  noi  decida  la  vittoria  il  fato. 

Disse  ^ e tutti  ammutir.  Sciolse  il  Tidide 
Alfin  la  voce  5 e : Niun  di  Pari , ei  grida , 
L’offerta  accetti,  né  la  stessa  pure 
Rapita  donna.  Ai  Dàrdani  sovrasta. 

Un  fanciullo  il  vedrìa  , l’ esizio  estremo. 

Piansero  tutti  al  suo  parlar  gli  Achivi 
Con  alte  grida,  e n’ ammirare  il  senno. 

Indi  vólto  all’  araldo  il  grande  Atride  : 

Idèo , diss’  egli , per  te  stesso  udisti 
DegU  Achei  la  risposta , e in  un  la  mia. 

Quanto  agli  estinti,  di  buon  grado  assento 
Che  siano  incesi  ^ ché  non  déssi  avaro 


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Soi-S4o  turno  vu  i5g 

Elsser  di  rogo  a chi  di  vita  è privo, 

Né  porre  indugio  a consolarne  T ombra 
Coir  officio  pietoso.  Il  fulminante 
Sposo  di  Giuno  il  nostro  giuro  ascolti. 

Cosi  dicendo  , alzò  lo  scettro  al  cielo; 

E l'araldo  tomossi  entro  la  sacra 
Cittade  ai  Teucri,  già  del  suo  ritorno 
Impazienti,  e in  pien  consesso  accolti. 

Giunse  ; e intromesso  la  risposta  espose. 

Si  sparsero  allor  ratti,  altri  al  carreggio 
De’  cadaveri  intenti , altri  al  funébre 
Taglio  de'  boschi.  Dall'  opposta  parte 
Un  cuor  medesmo , una  medesma  cura 
Occupava  gli  Achivi.  E già  dal  queto 
Grembo  del  mare  al  ciel  montando  il  sole. 

Co’ rugiadosi  lucidi  suoi  strali 
Le  campagne  feria  , quando  nell’  atra 
Pianura  si  scontrar  Teucri  ed  Achei, 

Ognuno  in  cerca  de’ suoi  morti,  a tale 
Dal  sangue  sfigurati  e dalla  polve, 

Che  mal  se  ne  potca , senza  lavarli. 

Ravvisar  le  sembianze.  Alfin  trovati 
E conosciuti , li  ponean  su  i mesti 
Plaustri,  piangendo.  Ma  di  Priamo  il  senno 
Non  consentia  del  pianto  a’  suoi  lo  sfogo. 

Quindi  afllitti , ma  muti , al  rogo  i Teucri 
Diero  a mucchi  le  salme  ; ed  arse  tutte. 

Col  cuor  serrato  alla  città  tomaro. 

D’ un  medesmo  dolor  rotti  gli  Achei , 

I lor  morti  ammassar  sovra  la  pira; 

E come  gli  ebbe  la  funerea  fiamma 
Consumati , del  mar  preser  la  via. 

Non  biancheggiava  ancor  l’alba  novella, 

Ma  il  barlume  soltanto  antelucano , 

Quando  d’Achei  d’intorno  all’alto  rogo 
Scelto  stuolo  afibllossi.  E primamente 
Alzàr  dappresso  a quello  una  comune 
Tomba  agli  estinti,  cd  alla  tomba  accanto 
Una  muraglia  a edificar  si  diero 
D’  alti  torrazzi  ghirlandata , a schermo 


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l6o  ILIADE  ■>.  S4l-S8o 

Delle  navi  c di  sé:  porte  vi  féro 
Di  salda  imposta,  e di  gran  varco  al  volo 
De'  bellicosi  cocchi  ^ indi  lunghesso 
L' esterno  muro  una  profonda  « vasta 
Fossa  scavar,  di  pali  irta  c gremita. 

Degli  Achei  la  stupenda  opra  tal  era. 

La  contcmplàr,  maravigliando,  i numi 
Seduti  intorno  al  Dio  de' tuoni  4 e irato 
Si  prese  a dir  1'  Enosigéo  Nettnnno  : 

Giove  padre , chi  fia  più  tra'  mortali , 

Che  gl'  Immortali  in  avvenir  consulti , 

E u' implori  il  favor?  Vedi  tu  quale 
E quanto  muro  gli  orgogliosi  Achei 
Innanti  alle  lor  navi  abbian  costrutto , 

E circondato  d'  un'  immensa  fossa 
Senza  offerir  solenni  ostie  agli  Dei? 

Di  cotant'opra  andrà  certo  la  fama 
Ovunque  giunge  la  divina  luce, 

E il  grido  morirà  delle  sacrate 
Mura , che  al  re  Laomedontc  un  tempo 
Intorno  ad  Iliione  Apollo  ed  io 
nidificammo  con  assai  fatica. 

Che  dicesti  ? sdegnoso  gli  rispose 
L'  adunator  de'  nembi  : altro  qualunque 
Iddio  di  forza  a te  minor  potrebbe 
Di  questo  paventar.  Ma  del  possente 
Enosigéo  la  gloria  al  par  dell'  almo 
Raggio  del  sole  splenderà  per  tutto. 

Or  ben:  sì  tosto  che  gli  Achei  faranno, 
Veleggiando , ritorno  al  patrio  lido, 

E tu  quel  muro  abbatti,  e tutto  quanto 
Sprofondalo  nel  mare , e d'  alta  arena 
Coprilo  si,  che  ogni  orma  ne  svanisca. 

In  questo  favellar  1'  astro  s'  estinse 
Del  giorno,  c l’opra  degli  Achei  fu  piena. 

Della  sera  allestite  indi  le  mense 
Per  le  tende,  cibàr  le  opime  carni 
Di  scannati  giovenchi,  c ristorarsi 
Del  vino , che  recato  avean  di  Lenno 
Molti  navigli;  c li  spediva  Cuneo, 


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V.  58l-6oo  LIBRO  TU  l6l 

DMssipile  figliuolo  e di  Giasone. 

Mille  sestieri  in  amichevol  dono 
Eunéo  ne  manda  ad  ambedue  gli  Àtridi^ 

Compra  il  resto  1'  armata , altri  con  bronzo , 

Altri  con  lame  di  lucente  ferro  ; 

Qual  con  pelli  bovine , e qual  col  corpo 
Del  bue  medesmo,  o di  robusto  schiavo. 

Lieto  adunque  imbandir  pronto  convito 
Gli  Àchivi , e tutta  banchettar  la  notte. 
Banchettava  del  par  nella  cittade 
Con  gli  alleati  la  dardània  gente. 

Ma  tntta  notte  di  Saturno  il  figlio 
Con  terribili  tuoni  annunziava 
Alte  sventure  nel  suo  senno  ordite. 

Di  pallido  terror  tutti  compresi , 

Dalle  tazze  spargean  le  spume  a terra 
Devotamente  ; nè  veruno  ardia 
Appressarvi  le  labbra  , se  libato 
Pria  non  avesse  al  prepotente  Giove. 

Corcàrsi  alfine,  e su  lor  scese  il  sonno. 


Morti.  Iliade. 


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MURO  OTTAVO 


ARGOMBKTO 


Giove,  3opo  aver  ioterdotto  mìurcioaameote  agli  Dei  di  |treD«ltr  parte  Dalla  gumn  Ji 
Troia , diaoeode  sul  moote  Ida  a rimirare  la  ballaglia.  Da  prima  »i  com lotta  «la  ambe  le 
parti  eoo  eguale  fortuna.  Giove  , avendo  pesalo  i (ali  de*  Trojani  « de*  Greci , e prcvalcmb» 
quello  de’Trojaoi,  altcrritce  i Greci  eoo  ud  fulmine.  Do|>o  varj  fatti»  questi  aooo  scunfìlti. 
Giunone  e Minerva,  scese  per  soccorrerli,  sono  riebiatpate  da  Iride  per  comando  dì  Giove. 
Consesso  degli  Dei.  Rimproveri  di  Giove  a Giuoooe:  sue  pande,  e brusca  risposta  del  Dio. 
La  lultagUa  ressa  al  venire  della  notte.  Partala  di  Ettore  ai  Trojani.  Per  sno  ordine  si  ac< 
cendboo  dei  fuorbi  nelle  case  della  riuà  , rd  i veerbi  ed  i ginvanetli  vegliano  alla  custodia 
delle  mura  : t guerrieri  accendono  essi  pure  de*  fuochi , e passano  la  notte  fra  i conviti  nel 
rampo  e sotto  le  armi,  onde  impedire  che  i Greci  non  fuggauo  di  soppiatto  col  livore  delle 
tenebra. 


Già  spiegava  T aurora  il  croceo  velo 
Sul  volto  della  terra , c co’  Celesti 
Su  l’alto  Olimpo  il  folgorante  Giove 
Tenea  consiglio.  Ei  parla,  e riverenti 
Stansi  gli  Eterni  ad  ascoltar:  M’ udite 
Tutti,  ed  abbiate  il  mio  voler  palese j 
E nessuno  di  voi,  nè  Dio  nè  Diva, 

Di  frangere  s’ardisca  il  mio  decreto^ 

Ma  tutti  insieme  il  secondate,  ond’io 
L’opra,  che  penso,  a presto  fin  conduca. 
Qualunque  degli  Dei  vedrò  furtivo 
Partir  dal  ciclo,  e scendere  a soccorso 
De’  Trojani  o de’ Greci,  egli  all’ Olimpo 
Di  turpe  piaga  tornerassi  ofleso^ 

O l’ afferrando  di  mia  mano  io  stesso. 

Nel  Tartaro  remoto  c tenebroso 
Lo  gitterò,  voragine  profonda, 

Cbe  di  bronzo  ha  la  soglia  c ferree  porte, 
E tanto  in  giù  nell’  Orco  s' inabissa , 
Quanto  va  lungi  dalla  terra  il  ciclo. 


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r.  a 1-60 


ILIADE,  LIBRO  Vili  |{)3 

Alloi-  saprà,  che  degli  Dei  sou  io 
Il  più  possente.  E vuoisene  la  prova? 

D’oro  al  cielo  appendete  una  catena, 

E tutti  a questa  v’  attaccate , 0 Divi , 

E voi,  Dive,  e traete.  E non  per  questo 
Dal  ciel  trairete  in  terra  il  sommo  Giove, 

Supremo  senno,  nè  pur  tutte  oprando 
Le  vostre  posse.  Ma  ben  io,  se  il  voglio, 

La  trarrò  colla  terra  e il  mar  sospeso^ 

Indi  alla  vetta  dell’  immoto  Olimpo 
Annoderò  la  gran  catena,  ed  alto 
Tutte  da  quella  penderan  le  cose  : 

Cotanto  il  mio  poter  vince  de’  numi 

Le  forze  e de’  mortai.  — Qui  tacque;  c tutti, 

Dal  minaccioso  ragionar  percossi. 

Ammutolir  gli  Dei.  Ruppe  Minerva 
Finalmente  il  silenzio,  e così  disse: 

Padre  e re  de’  Celesti , e noi  pur  anco 
Sappiam  che  invitta  è la  tua  gran  possanza. 

Ma  nondimen  de’  bellicosi  Achei 
Pietà  ne  prende,  che  di  fato  iniquo 
Son  vicini  a perir.  Noi  dalla  pugna. 

Se  tu  il  comandi,  ci  terrem  lontani; 

Ma  non  vietar  che  di  consiglio  almeno 
Sicn  giovati  gli  Achivi,  onde  non  tutti 
Cadan  nell’ira  tua  disfatti  e morti. 

Con  un  sorriso  le  rispose  il  sommo 
De’  nembi  adunator:  Confoi*ta  il  core, 

Diletta  figlia;  favellai  severo, 

Ma  vo’  teco  esser  mite.  — E così  detto. 

Gli  orocriniti  eripedi  cavalli 
Come  vento  veloci  al  carro  aggioga; 

Al  divin  corpo  induce  una  lorica 
Tutta  d’auro;  c alla  man  data  una  sferza 
Pur  d’auro  intesta  e di  gentil  lavoro. 

Munta  il  cocchio,  c flagella  a tutto  corso 
1 corridori,  che  volar  bramosi 
Infra  la  terra  c lo  stellato  Olimpo. 

Tosto  all’lda,  di  belve  e di  rigosi 
Fonti  altriee,  arrivò  su  l’ardua  cima 


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64 


niADB 


».  61-100 


Del  Gàrgaro,  ove  sacro  a lui  frondeggia 
Un  bosco,  e fuma  un  odorato  altare. 

Qui  degli  nomini  il  padre  e degli  Dei 
Rattenne  e dal  timon  sciolse  i cavalli, 

E di  nebbia  gli  avvolse.  Indi  s' assise 
Esultante  di  gloria  in  su  la  vetta. 

Di  là  lo  sguardo  a Troja  rivolgendo 
Ed  alle  navi  degli  Achei , che,  preso 
Per  le  tende  alla  presta  un  parco  cibo, 
Armavansi.  Eid  all' armi  anch’essi  i Teucri 
Per  la  città  correan  : nè  gli  sgomenta 
11  numero  minor;  chè  per  le  spose 
E pe'  6gli  a pugnar  pronti  li  rende 
Necessità.  Spalancansi  le  porte; 

Eirompono  pedoni  e cavalieri 
Con  immenso  tumulto;  e,  giunti  a fronte. 
Scudi  a scudi,  aste  ad  aste  e petti  a petti 
Oppongono,  e di  targhe  odi  e d'usberghi 
Un  fiero  cozzo,  ed  un  fragor  di  pugna, 
Che  rinforza  più  sempre.  De'  cadenti 
L'  urlo  si  mesce  coll'  orribil  vanto 
De'  vincitori , e il  suol  sangue  correa. 

Dall'  ora  che  le  porte  apre  al  mattino 
Fino  al  merigge,  d' ambedue  le  parti 
Durò  la  strage  con  egual  fortuna. 

Ma  quando  ascese  a mezzo  cielo  il  Sole, 
Alto  spiegò  l'onnipossente  Iddio 
L’ auree  bilance , e due  diversi  fati 
Di  sonnifera  morte  entro  vi  pose, 
n trojano  e 1'  acheo.  Le  prese  in  mezzo , 
Le  librò,  sollevolle,  e degli  Achivi 
Il  fato  decbinò,  che  traboccando 
Percosse  in  terra,  e balzò  l’altro  al  cielo. 
Tonò  tremendo  allor  Giove  dall'  Ida , 

E un  infocato  fulmine  nel  campo 
Avventò  degli  Achei,  che,  stupefatti 
A quella  vista,  impallidir  di  tema. 

Nè  Idomenèo,  nè  il  grande  Agamennóne, 
Nè  gli  Ajaci,  ambedue  lampi  di  Marte, 
Fermi  al  lor  posto  rimaner  fur  osi. 


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ioi-i4o  libro  vili  i65 

Solo  il  Gerenio,  degli  Achei  tutela, 

Nestore,  vi  restò,  ma  suo  mal  grado ^ 

Chè  un  destrier  l’impedi'a,  cui  di  saetta 
D’Elena  bella  l’avvenente  drudo 
Nella  fronte  feri  laddove  spunta 
Nel  teschio  de’  cavalli  il  primo  crine. 

Ed  è letale  il  loco  alle  ferite. 

Inalberossi  il  corridor  trafitto  4 

Chè  nel  cerébro  entrata  era  la  freccia , 

E dintorno  alla  rota  per  1’  acuto 

Dolor  si  voltolando,  in  iscompiglio 

Mettea  gli  altri  cavalli.  Or  mentre  il  vecchio 

Gli  si  fa  sopra  colla  daga,  e tenta 

Tagliarne  le  tirelle,  ecco  veloci 

Fra  la  calca  e il  ferir  de’  combattenti 

Sopraggiungere  d’Ettore  i destrieri. 

Superbi  di  portar  si  grande  auriga. 

E qui  perduta  il  veglio  avria  la  vita. 

Se  del  rischio  di  lui  non  s’accorgea 
L’invitto  Diomede.  Un  grido  orrendo 
Di  pugna  eccitator  mise  l'eroe 
Alla  volta  d’ Ulisse:  Ah!  dove,  immemore 
Di  tua  stirpe  divina,  dove  fuggi. 

Astuto  figlio  di  Laerte,  e volgi. 

Come  un  codardo  della  turba,  il  tergo? 

Bada,  che  alcun  le  fuggitive  spalle 
Non  ti  giunga  coll’asta.  Agl’  inimici 
Volta  la  fronte,  ed  a salvar  vien  meco 
Dal  fìiror  di  quel  fiero  il  vecchio  amico. 

Quelle  grida  non  ode,  e ratto  in  salvo 
Fugge  Ulisse  alle  navi.  Allor  rimasto 
Solo  il  Tidide,  si  sospinse  in  mezzo 
Ai  guerrier  della  fronte;  avanti  al  cocchio 
Di  Nèstore  piantossi;  e,  lui  chiamando. 

Veloci  gli  drizzò  queste  parole: 

Troppo  feroce  gioventù  nemica 

Ti  sta  contra,  o buon  vecchio,  e infermi  troppo 

Sono  i tuoi  polsi:  hai  grave  d’anni  il  dorso, 

Hai  debole  1’  auriga  e i corridori. 

Monta  il  mio  cocchio,  e la  virtù  vedrai 


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IIIAHE 


ifi6 

Del  caTalli  di  Troc,  ehe  dianzi  io  tolsi 
D'AnrhIse  ni  figlio,  a maraviglia  spcrti 
A fuggir  ratti  In  campo  e ad  Inseguire. 
Lascia  cotesti  agli  scudieri  in  ctira^ 
Driz.ziam  questi  nc’  Teucri , e vegga  Kltorrc 
S'aiico  In  mia  man  la  lancia  è furibonda. 

Disse:  nè  il  veglio  ricusò  l’invito. 

Di  Stèndo  e del  buon  Eurimedontc , 
Valorosi  scudieri,  egli  al  governo 
Cesse  le  sue  puledre;  e tosto  il  cocchio 
Del  Tidide  salito,  in  man  si  tolse 
Le  bellissime  briglie,  c col  flagello 
I corsieri  percosse.  In  un  baleno 
Giunscr  d’Ettore  a fronte,  che  diritto 
Lor  d’incontro  venia  con  gran  tempesta. 
Trasse  la  lancia  Diomede,  c il  colpo 
Errò;  ma  su  le  poppe  in  mezzo  al  petto 
Colpì  l’auriga  Eniopco,  figliuolo 
Dell’  inclito  Tebéo.  Cade  II  trafitto 
Giù  tra  le  rote  colle  briglie  in  pugno; 

S’ arretrano  I destrieri  ; e in  quello  stato 
Perde  ogni  forza  l’Infelice,  e spira. 

Del  morto  auriga  addolorossi  Ettorre; 

E mesto  di  lasciar  quivi  il  compagno 
Nella  polve  disteso,  un  altro  audace 
Alla  guida  del  carro  ivi  cercando. 

Nè  di  rettor  gran  tempo  ebber  bisogno 
I suoi  destrieri;  chè  gli  occorse  all’uopo 
L’animoso  Archepólemo  d'Ifito, 

Cui  sul  carro  montar  fa  senza  indugio, 

E gli  abbandona  nella  man  le  briglie. 

Immensa  strage  allora  e fatti  orrendi 
Fòran  d’arme  seguiti,  e come  agnelli 
Stati  In  Ilio  sarian  racchiusi  i Teucri , 

Se  de’  Celesti  il  padre  e de’  mortali 
Tosto  di  ciò  uon  s’ accorgea.  Tonando, 

Con  gran  fragore  un  fulmine  rovente 
Vibrò  nel  campo  il  nume,  c il  fece  in  terra 
Guizzar  di  Diomede  innanzi  al  cocchio: 

E sùbita  n’uscia  d’ardente  zolfo 


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».  iSl-iio  ‘•««0  Vili  167 

Una  tcrribii  vampa.  Spaventali 
Costcrnansi  i destrier,  scappan  di  mano 
A Nèstore  le  briglie^  onde  al  Tidide 
Rivoltosi  tremante:  Ab!  piega,  ei  grida, 

Piega  indietro  i cavalli,  o Diomede; 

Fuggiam:  noi  vedi?  contro  noi  combatte 
Giove  irato , e a costui  tutto  dar  vuole 
Di  presente  Ponor  della  battaglia. 

Darallo,  se  gli  piace,  un’altra  volta 
A noi  pur;  ma  di  Giove  oltrapossente 
n supremo  voler  forza  non  paté. 

Tutto  ben  parli,  o vecchio,  gli  rispose 
L’ imperturbato  eroe;  ma  il  cor  mi  crucia 
La  dolorosa  idea,  eh' Ettore  un  giorno 
Fra’  Trojani  dirà  gonfio  d’  orgoglio: 

Io  fugai  Diomede,  io  lo  costrinsi 
A scampar  nelle  navi.  — Ei  questo  vanto 
Menerà  certo;  e a me  si  fenda  allora 
Sotto  i piedi  la  terra,  e mi  divori. 

E Nèstore  ripiglia:  Ah!  che  dicesti. 

Valoroso  Tidide?  c quando  avvegna 

Che  un  codardo , un  imbelle  Ettor  ti  chiami , 

I Trojani  non  già  sei  crederanno. 

Nè  le  trojane  spose,  a cui  nell’atra 
Polve  stendesti  i floridi  mariti. 

Disse;  e addietro  girò  tosto  i cavalli. 

Tra  la  calca  fuggendo.  Ettorre  e i Teucri 
Con  urli  orrendi  li  seguirò,  e un  nembo 
Piovean  su  lor  d’acerbi  strali,  ed  alto 
Gridar  s’udiva  de’  Trojani  il  duce: 

1 cavalieri  argivi,  0 Diomede, 

E di  seggio  e di  tazze  e di  vivande 
Te  finora  onorar  su  gli  altri  a mensa; 

Ma  deriso  or  n’andrai;  chè  un  cor  palesi 
Di  femminetta.  Via  di  qua,  fauciulla; 

Non  salirai  tu , no , fin  eh’  io  respiro , 

D’Ilio  le  torri,  nè  trarrai  cattive 
Le  nostre  mogli  nelle  navi,  e morto 
Per  la  mia  destra  giacerai  tu  pria. 

Steltesi  in  forse  a quel  parlar  1’  eroe 


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i68 


ILIADE 


V.  iai.2^ 


Di  dar  volta  ai  cavalli,  e d’ aflrontarlo. 

Ben  tre  volte  nel  core  e nella  mente 
Gliene  corse  il  desio,  tre  volte  Giove 
Rimurmorò  dall' Ida,  e fe  securi 
Della  vittoria  con  quel  segno  i Teucri. 

Con  orribile  grido  Ettore  allora 
Animando  le  schiere:  O Licj,  o Dàrdani, 

0 Trojani,  dicea,  prodi  compagni. 
Mostratevi  valenti,  e fuor  mettete 

Le  generose  forze.  Io  non  m’inganno^ 

Giove  è propizio:  di  vittoria  a noi 
E d’esizio  a’ nemici  ci  diede  il  segno. 

Stolti!  chò  questo  alzar  debile  muro, 
Troppo  al  nostro  valor  frale  ritegno. 

Quella  lor  fossa  varcheran  d’un  salto 

1 miei  cavalli;  e quando  emerso  a vista 
Io  sarò  delle  navi,  allor  le  faci 
Ministrarmi  qualcun  si  risowegna, 

Ond’io  qne'  legni  incenda,  e fra  le  vampe 
Sbalorditi  dal  fumo  i Greci  uccida. 

Poi  conforta  i destrieri,  e si  lor  parla: 
Xanto,  Podargo,  Etòn,  Lampo  divino. 
Mercè  del  largo  cibo  or  mi  rendete. 

Che  dell'illustre  Eczion  la. figlia, 
Andromaca,  vi  porge,  il  dolce,  io  dico, 
Frumento , e 1'  alma  di  Lieo  bevanda , 
Ch’ella  a voi  mesce  desiosi,  a voi 
Pria  che  a me  stesso,  che  pur  suo  mi  vanto 
Giovine  sposo.  Or  via,  volate;  andiamo 
Alla  conquista  del  nestóreo  scudo. 

Di  cui  va  il  grido  al  cielo,  e tutto  il  dice 
D’  auro  perfetto , e d’ auro  anco  la  guiggia. 
Poi  di  dosso  trarremo  a Diomede 
L’  usbergo , esimia  di  Vulcan  fatica. 

Se  cotal  preda  ne  riesce,  io  spero. 

Che  ratti  i Greci  su  le  navi  in  questa 
Notte  medesma  salperan  dal  lido. 

Del  superbo  parlar  forte  sdegnossi 
L’augusta  Giuno,  e s’agitò  sul  trono 
Si,  che  scosso  tremonne  il  vasto  Olimpo. 


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Lino  vni 


169 

Quindi,  rivolte  le  parole  al  grande 
Dio  Nettunno,  si  disse:  E sarà  vero, 

Possente  Enosigéo,  che  degli  Argivi 
A pietà  non  ti  mova  la  mina? 

Pur  son  essi,  che  in  Elice  ed  in  Ege 
Récanti  offerte  graziose  e molte. 

E perchè  dunque  non  vorrai  tu  toro 
La  vittoria  bramar?  Certo,  se  quanti 
Siam  difensori  degli  Achivi  in  cielo  , 

Vorrem  de’ Teucri  rintuzzar  l’orgoglio, 

E al  Tonante  far  forza,  egli  soletto 
E sconsolato  sederà  su  l’Ida. 

Oh!  che  mai  parli,  temeraria  Giuno? 

Le  rispose  sdegnoso  il  re  Nettunno: 

Non  sia,  no,  mai  che  col  saturnio  Giove 
A cozzar  ne  sospinga  il  nostro  ardire. 

Rammenta  ch’egli  è onnipossente;  e taci. 

Mentre  seguian  tra  lor  queste  parole. 

Quanto  intervallo  dalle  navi  al  muro 
La  fossa  comprendea,  tutto  era  denso 
Di  cavalli,  di  cocchi  e di  guerrieri, 

Ivi  dal  fiero  Ettdr  serrati  e chiusi. 

Che,  simigliante  al  rapido  Gradivo, 

Infuriava  col  favor  di  Giove. 

E ben  le  navi  avn'a  messe  in  faville. 

Se  l’alma  Giuno  in  cor  d’Agamennòne 
Il  pensier  non  ponea  di  girne  attorno 
Ratto  egli  stesso  a incoraggiar  gli  Achivi. 

Per  le  tende  egli  dunque  e per  le  navi 
Sollecito  correa,  raccolto  il  grande 
Purpureo  manto  nel  robusto  pugno: 

E cotal  su  la  negra  capitana 
D’  Ulisse  si  fermò , che  vasta  il  mezzo 
Dell’armata  tenca,  donde  distinta 
D’ógni  parte  mandar  potea  la  voce 
Fin  d’Ajace  e d’Achille  al  padiglione. 

Che  l’ eguali  lor  prore  ai  lati  estremi. 

Nel  valor  delle  braccia  ambo  securi, 

Avean  dedotte  all’arenoso  lido. 

Di  là  fec’  egli  rimbombar  sul  campo 


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o 


ILIADE 


I'.  301-5^0 


Quest’alto  grido:  Svcrgognàli  Aclilvi, 

Vituperi  nell’  opre , e sol  d’  aspetto 

Maravigliosi  ! dove  dunque  andaro 

Gli  alteri  vanti,  che  menammo  un  giorno, 

Di  prodezza  e di  forza?  In  Lenno  queste 
Fur  le  vostre  burbanze  allor  che  1’  epa 
V einpican  le  polpe  de'  giovenchi  uccisi, 

K le  ricolme  tazze  inghirlandate 
Si  venian  tracannando,  e si  dicea. 

Che  un  sol  per  cento  e per  dugento  Teucri, 
Un  sol  Greco  valea  nella  battaglia. 

F.d  or  tutti  ne  fuga  un  solo  Ettorre, 

Che  ben  tosto  farà  di  queste  navi 
Cenere  e fumo.  O Giove  padre,  c quale 
Altro  mai  re  di  tanti  danni  afflitto, 

Di  tanto  disonor  carco  volesti  ? 

Pur  io  so  ben  che  quando  a questo  lido 
Il  perverso  destin  mi  conducea. 

Giammai  veruno  de’  tuoi  santi  altari 
Navigando  lasciai  sprezzato  indietro^ 

Ma  l’  adipe  a te  sempre  e i miglior  fianchi 
De’ giovenchi  abbruciai  sovra  ciascuno. 
Bramoso  d’  atteiTar  l’ iliache  mura. 

Deh!  almcn  n’adempi  questo  voto^  almeno 
Danne,  o Giove,  uno  scampo  colla  fuga^ 

Nè  per  le  mani  del  crudel  Trojano 
Consentir  degli  Achivi  un  tanto  scempio. 

Così  dicea,  piangendo.  Ebbe  pietadc 
Di  sue  lagrime  il  numc^  e ad  accennargli 
Che  non  tutto  il  suo  campo  andria  disfatto, 

Il  più  sicuro  de’  volanti  augurio, 

Un’aquila,  spedì,  che  negli  unghioni, 

Tolto  al  covil  della  veloce  madre. 

Un  cerbiatto  stringendo , accanto  all’  ara , 

Ove  1’  ostie  svenar  solean  gli  Achivi 
Al  fatidico  Giove,  dall’  artiglio 
Cader  lasciò  la  palpitante  preda. 

Gli  Achei,  veduto  il  sacro  augcl,  cui  spinto 
Conobbero  da  Giove,  ad  affrontarsi 
Più  coraggiosi  ritornar  co’  Teucri, 


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. J4l-38o  LIBRO  vili  1^1 

E rinfrescar  la  pugna.  Allor  nessuno 

Pria  elei  Tidide  fra  cotanti  Argivi 

Vanto  si  diede  d'agitar  pel  campo 

I veloci  corsieri , ed  oltre  il  fosso 

Cacciarli  ed  azzulTarsi.  Egli  primiero  . 

Anzi  a tutti  si  spinse^  c a prima  giunta 

Agclao  di  Fradinon  tolse  di  mezzo, 

Uom  trojano.  Costui  piegati  in  fuga 
1 suoi  destrieri  avea.  Coll’asta  il  tergo 
Gli  raggiunse  il  Tidide^  gliela  fisse 
Tra  gli  òmeri,  e passar  la  fece  al  petto. 

Cadde  Agelao  dal  carro,  e cupamente 
L’armi  sovr’esso  rintonàr.  Secondo 
Agamennón  si  mosse ^ indi  il  fratello^ 

Indi  gli  Ajaci  impetuosi^  c poi 
Idomenéo  con  esso  il  suo  scudiero 
Merion,  che  di  Marte  avea  l’aspetto^ 

Poi  d’Evemon  l’illustre  figlio,  Euripilo^ 

Ed  ultimo  giungea  Teucro,  del  curvo 
Elastic’  arco  tenditor  famoso. 

D’Ajace  Telamdnio  egli  Incossi 
Dietro  lo  scudo,  e dello  scudo  Ajace 
Gli  antepose  la  mole.  Ivi  securo 
L’eroe  guatava  intorno^  e quando  avea 
Saettato  nel  denso  un  inimico. 

Quegli,  cadendo,  perdea  l’alma,  e questi, 

Come  fanciullo  della  madre  al  manto, 

Ricovrava  al  fratei , che  alla  grand’  ombra 
Dello  splendido  scudo  il  proteggea. 

Or  dall’egregio  arcier  chi  de’  Trojanl 
Fu  primo  ucciso?  Primamente  Orsiloco; 

Indi  Ormeno  e Ofeleste^  a questi  aggiunse 
Detore  e Gromio,  e per  divin  sembiante 
Licofonte  lodato,  e Amopaone  ^ 

Poliemonidc.  e Melanippo,  tutti 
L’im  dopo  1’  altro  nella  polve  stesi. 

Gioiva  il  re  de’  regi  Àgamennóne, 

Mirandolo  dall’  arco  vigoroso 
Lanciar  la  morte  fra’  nemici  ^ e a lui 
V'cin  venuto,  sofiermossi,  c disse: 


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ILUDB 


38i*4>o 


171 

Diletto  capo,  Telamdnio  Teucro, 

Siegui  l’arco  a scoccar;  porta,  se  puoi, 

A’ Danai  un  raggio  di  salute,  e onora 
n tuo  buon  padre  Telamon,  che  un  giorno 
Ti  raccolse  fanciullo,  c benché  (rutto 
Di  non  giusto  imeneo,  pur  con  pietoso 
Tenero  affetto  in  sua  magiou  ti  crebbe. 

Or  tu  fa  eh’  egli  salga  in  alta  fama, 

Sebben  lontano.  Ti  prometto  io  poi , 

( E sacra  tieni  la  promessa  mia  ) 

Che  se  Giove  e Minerva  mi  daranno 
D’ Ilio  il  conquisto,  tu  primier  t’  avrai 
Il  premio,  dopo  me,  de’ forti  onore. 

Ed  in  tua  man  porrollo  io  stesso,  un  tripode, 
O due  cavalli  ad  un  bel  cocchio  aggiunti , 

O di  vaghe  sembianze  una  fanciulla. 

Che  teco  il  letto  e 1’  amor  tuo  divida.  ' 

E Teucro  gli  rispose:  Illustre  Atride, 

A che  mi  sproni,  per  me  stesso  assai 
Già  fervido  e corrente?  Io  non  rimango 
Di  far  qui  tutto  il  mio  poter.  Dal  punto 
Che  verso  la  città  li  respingemmo. 

Mi  sto  coll’arco  ad  aspettar  costoro, 

E li  trafiggo.  E già  ben  otto  acuti 
Dardi  dal  nervo  liberai,  che  tutti  . 
Profondamente  si  ficcar  nel  corpo 
DI  giovani  guerrieri;  e non  ancora 
Ferir  m’  è dato  questo  can  rabbioso. 

Disse;  e di  nuovo  fe  volar  dall’arco 
Contr’  Ettore  uno  strale.  AI  colpo  tutta 
Ei  l’anima  diresse;  e nondimeno 
Falli  la  freccia  ; che  1’  accolse  lu  petto 
Di  Priamo  un  valente  esimio  figlio, 
Gorgiz'ion,  cui  d’  Esima  condotta 
Partorì  la  gentil  Castianira, 

Che  una  Diva  parca  nella  persona. 

Come  carco  talor  del  proprio  frutto, 

E di  troppa  rugiada  a primavera 
Il  papaver  nell’orto  il  capo  abbassa; 

Cosi  la  testa  dell’elmo  gravata 


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r.4«-460  «•'»»<>  »'« 

Su  la  spalla  chinò  quell'  infelice. 

E Teucro  dalla  corda  ecco  sprigiona 
Alla  volta  d’EUoire  altra  saetta, 

Più  che  mai  del  suo  sangue  sitibondo. 

E pur  di  nuovo  uscì  lo  strale . in  fallo  ^ 

Chè  Apollo  il  devio,  ma  colse  ài  petto 
D'Ettòr  l'audace  bellicoso  auriga, 
Archepólemo,  presso  alla  mammella. 

Cadde  ei  rovescio  giù  dal  cocchio,  addietro 
Si  piegaro  i cavalli^  e quivi  a lui 
11  cor  ghiacciossi , e l' anima  si  sciolse. 

Di  quella  morte  gravemente  afflitto 
Il  teucro  duce,  e di  lasciar  costretto. 

Mal  suo  grado,  l'amico,  a Cebrìone 
Di  lui  fratello,  che  il  seguia,  fe  cenno 
Di  dar  mano  alle  briglie.  Ad  obbedirlo 
Cebrion  non  iu  lento ^ ed  ei,  d'un  salto 
Dallo  splendido  cocchio  al  suol  disceso. 

Con  terribile  grido  un  sasso  afferra^ 

A Teucro  s'addiriiza,  e di  ferirlo 
L’infiammava  il  desio.  Teucro  in  quel  punto 
Traeva  un  altro  doloroso  telo 
Dalla  faretra,  e lo  ponea  sul  nervo. 

Mentre  alla  spalla  lo  ritraggo  in  fretta, 

E l’inimico  adocchia,  il  sopraggiunge. 
Crollando  l’elmo,  Ettorre^  e dove  il  collo 
S’ innesta  al  petto,  ed  è letale  il  sito. 
Coll’aspro  sasso  il  coglie,  e rotto  il  nervo 
Gl’  intorpidisce  il  braccio.  Dalle  dita 
L’arco  gli  fugge,  e sul  ginocchio  ei  casca. 

11  caduto  fratello  in  abbandono 
Àjace  non  lasciò,  ma  ratto  accorse, 

E col  proteso  scudo  il  ricopria. 

Finché  lo  si  recàr  sovra  le  spalle 
Due  suoi  evi  compagni,  Mecistéo, 

D’ Echio  figliuolo,  e il  nobile  Alastorre, 

E alle  navi  il  portar,  che  gravemente 
Sospirava  e gemea.  Ne’  Teucri  allora 
Di  nuovo  suscitò  l’Olimpio  Giove 
Tal  fona  e lena,  che  al  profondo  fosso 


1 74  ILliDE  46i-5«o 

Dirillamcntc  ricacciar  gli  Achei. 

Iva  Ettorre  alla  testa,  e dalle  truci 
Sue  pupille  metlea  lampi  e paura, 

Qual  Gero  alano , che , ne'  presti  piedi 
ConGdando,  pn  cinghiai  da  tergo  assalta, 

Od  un  h'one,  e al  suo  voltarsi  attento 
Or  le  cluni  gli  addenta,  ora  la  coscia^ 

Così  gli  Àchivi  insegue  Ettorre,  e sempre, 
Uccidendo  il  postremo,  li  disperde. 

Ma  poiché  l’alto  fosso  ed  il  palizzo 
Eibber  varcato  i fuggitivi,  e molti 
11  trojano  valor  n’  avea  già  spenti , 

Giunti  alle  navi , si  fcrmaro  ^ c insieme 
Mettendosi  coraggio,  e a tutti  i numi 
Sollevando  le  map,  spingea  ciascuno 
Con  alta  voce  le  preghiere  al  cielo. 

Signor  del  campo,  d’ogni  parte  intanto 
Agitava  I destrieri  il  grande  Ettorre 
Di  bel  crine  superbi,  e rotar  bieco 
Le  luci  si  vedea  come  il  Gorgone , 

O come  Marte,  che  nel  sangue  esulta. 

Impietosita  degli  Achei,  la  bianca 
Giuno  a Minerva  si  rivolse,  e disse; 

Invitta  Gglla  dell’  Egioco  Giove, 

Dunque,  ohimè!  non  vorremo  aver  più  nullo 
Pensier  de’ Greci  già  cadenti,  almeno 
Nell’estremo  lor  punto?  Eccoli  tutti 
L’  empio  lor  fato  a consumar  vicini 
Per  l’Impeto  d’ un  sol,  del  Gero  Ettoirc , 

Che  in  suo  furore  Intollerando , ornai 
Passa  ogni  modo , e ne  fa  troppe  offese  ! 

A cui  la  Diva  dalle  glauche  luci, 

Minerva,  rispondea:  Certo  perduta 
Avvia  costui  la  furia  e l’alma  ancora, 

A giacer  posto  nella  patria  terra 

Dal  valor  degli  Achei;  ma  quel  mio  padre 

Di  sdegnosi  pensier  calda  ha  la  mente. 

Sempre  avverso,  e de’ miei  furti  disegni 
Acerbo  correttor;  nò  si  rimembra 
Quante  volte  servar  gli  seppi  il  Gglio 


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LIBRO  Vili 


75 


I*.  ^1-5^ 

Dai  duri  d’  Euristéu  comandi  oppresso. 

Ei  lagrimava  lamentoso  al  ciclo, 

E me  dal  cielo  allora  ad  aitarlo 
Giove  spediva.  Ma  se  il  cor  prudente 
Detto  m’avesse  le  presenti  cose, 

Quando  alle  ferree  porte  il  suo  tiranno 
L’ inviò  dell’Àvcrno  a trac  dal  negro 
Èrebo  il  can  dell’abborrito  Pluto, 

Ei,  no,  scampato  non  avria  di  Stige 
La  profonda  fiumana.  Or  m’odia  il  padre, 
E di  Teli- adempir  cerca  le  brame. 

Che  lusinghiera  gli  baciò  il  ginocchio, 

E accarezzógli  colla  destra  il  mento, 
D’onorar  supplicandolo  il  Pclide 
Delle  cittadi  atterrator.  Ma  tempo. 

Sì,  verrà  tempo,  che  la  sua  diletta 
Glaucòpide  a chiamarmi  egli  ritorni. 

Or  tu  vanne,  ed  il  carro  m’  apparecchia 
Co’ veloci  cornipedi^  che  tcisto 
Io  ne  vo  dentro  alle  paterne  stanze, 

E dell’  armi  mi  vesto  per  la  pugna. 
Vedrem  se  questo  Ettòr,  che  sì  superbo 
Crolla  il  cimiero,  riderà,  quand’io 
Nel  folto  apparirò  della  battaglia. 

Qualcun  per  certo  de’  Trojani  ancora 
Presso  le  navi  achee  satolli  e pingui 
Di  sue  polpe  farà  cani  ed  augelli. 

Disse  ^ nè  Giuno  rieusò,  ma  corse 
Ai  divini  cavalli,  e d’auree  barde 
In  fi’etta  li  guamia,  Giuno,  la  figlia 
Del  gran  Saturno,  veneranda  Diva. 

D’altra  parte  Minerva  il  rabescato 
Suo  bellissimo  peplo,  delle  stesse 
Immortali  sue  dita  opra  stupenda. 

Sul  pavimento  dell’  Egioco  padre 
Lasciò  cader  diffuso^  ed  indo.ssando 
Del  nimbifero  Giove  il  grande  usbergo. 
Tutta  s’ armava  a lagrimosa  pugna. 

Sul  rilucente  cocchio  indi  salita, 

Impugnò  la  pesante  e poderosa 


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ILIADE 


I 76 


».  54u58» 


Gran  lancia,  ond’  ella,  allor  che  monta  in  ira, 
Di  forte  genitor  figlia  tremenda. 

Le  schiere  degli  eroi  rovescia  e doma. 
Stimolava  Giunon  velocemente 
Colla  sferza  i destrieri^  e tosto  illro 
Alle  celesti  soglie,  a cui  custodi 
Vegliano  1’  Ore , che  il  maggior  de’  cieli 
Hanno  in  cura  e l’Olimpo,  onde  sgombrarlo 

0 circondarlo  della  sacra  nube. 

Cigolando  s’  aprir  per  sè  mcdesme 
L’  eteree  porte,  e docili  al  flageUo 
Spinser  per  queste  i corridor  le  Dive. 

Come  Giove  dal  Gàrgaro  le  vide. 

Forte  sdegnossi;  ed  Iri  a sè  chiamando, 
Ali-dorata  Dea:  Vola,  le  disse, 

Iri  veloce;  le  rivolgi  indietro, 

E lor  divieta  il  venir  oltre  meco 
Ad  inegual  cimento.  Io  lo  protesto, 

C il  fatto  seguirà  le  mie  parole, 

10  loro  fiaccherò  sotto  la  biga 

1 corridori,  e dall’  infiranto  cocchio 
Balzerò  le  superbe;  e delle  piaghe. 

Che  loro  impresse  lascerà  il  mio  telo. 

Nè  pur  due  lustri  salderanuo  il  solco. 

Saprà  Minerva  allor  qual  sia  stoltezza 

11  cimentarsi  col  suo  padre  in  guerra. 

Quanto  a Giunon,  m’è  forza  esser  con  ella 
Meno  irato:  gli  è questo  il  suo  costume 

Di  sempre  attraversarmi  ogni  disegno. 

Disse;  ed  Iri  a portar  l’alto  messaggio 
Mosse  veloce  al  par  delle  procelle  ; 

Ed  ascesa  dall’  Ida  al  grande  Olimpo 
Di  molti  gioghi  altero,  e su  le  soglie 
Incontrate  le  Dee,  si  le  rattenne, 

E lor  di  Giove  le  parole  espose: 

Dove  correte?  Che  furore  è questo? 
Sostate  il  piè;  cbè  il  dar  soccoi'so  ai  Greci 
Noi  vi  consente  Giove.  Le  minacce 
Deir  alto  figlio  di  Saturno  udite , 

Che  fian  messe  ad  effetto.  Ei  sotto  il  carro 


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58]-6ao 


LIBRO  Vili 


'77 


Storpieravvi  i destrieri , e dall'  infranto 
Carro  voi  stesse  balzerà,  nè  dieci 
Anni  le  piaghe  salderan,  che  impresse 
Lasceravvi  il  suo  telo^  e tu,  Minerva, 

AUor  saprai  qual  sia  demenza  il  farti 
Al  tuo  padre  nemica.  Nè  con  Giuno, 
Sempre  usata  a. turbargli  ogni  disegno. 
Tanto  s’adira,  ei,  no,  quanto  con  teco. 
Invereconda  audace  Dea,  che  ardisci 
Contra  il  Tonante  sollevar  la  lancia. 

Disse;  e ratta  sparì  la  messaggiera. 

Ed  a Minerva  allur  con  questi  accenti 
Giuno  si  volse:  Ohimè!  più  non  si  parli. 
Figlia  di  Giove,  di  pugnar  con  esso 
Per  cagion  de’ mortali:  io  noi  consento. 

Di  loro  altri  si  muoja,  ^tri  si  viva. 

Come  piace  alla  sorte:  e Giove  intanto. 
Come  dispon  suo  senno  e sua  giustizia , 

Fra  i Trojani  e gli  Achei  tempri  il  destino. 

Sì  dicendo,  la  Dea  ritorse  indietro 
I criniti  destrieri,  c l’Ore  ancelle 
Li  distaccàr  dal  giogo,  e li  legaro 
Ai  nettarci  presepi,  ed  il  hel  cocchio 
Appoggiaro  alla  lucida  parete. 

Si  raccolser  le  Dive  in  aureo  seggio 
Con  gli  altri  Dei  confuse;  e Giove  iutanto 
Dal  Gàrgare  all’  Olimpo  i corridori 
E le  fulgide  ruote  alto  spingea. 

Giunto  alle  case  de’  Celesti,  a luì 
Sciolse  i corsieri  l’inclito  Nettunno, 

Rimesse  il  cocchio,  e lo  coprì  d’uu  velo. 
Giove  sul  trono  si  compose,  e tutto 
Tremò  sotto  il  suo  piè  l’ immenso  Olimpo. 

Ma  Minerva  e Giunon  sole  in  disparte 
Sedean,  nè  motto,  nè  dimanda  a Giove 
Ardian  veruna  indirizzar.  S’avvide 
De’lor  pensieri  il  nume,  c così  disse: 

Perchè  si  meste,  o voi  Minerva  c Giuno  ? 
E’  non  si  par  che  molto  affaticate 
V’  ahhia  finor  la  gloriosa  pugna 
Mosti.  Iliade.  ' » 


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ILIADE 


*».  ti2i-cr>u 


In  esilio  de’  Teucri,  a cui  sì  grave 
Odio  poneste.  E v’ è di  mente  uscito, 

Che  invitto  è il  braccio  mio?  che  quanti  ha  numi 
11  ciel , cangiare  il  mio  voler  non  ponno  ? 

A voi  bensì  le  delicate  membra 
Prese  un  freddo  tremor  pria  che  la  guen-a 
Pur  contemplaste,  e della  guerra  i duri 
Esperimenti,  lo  vel  dichiaro  (e  fora 
Già  seguito  l’efletto),  che,  percosse 
Dalla  folgore  mia,  no,  non  v’avrebbe 
11  vostro  cocchio  ricondotte  al  cielo. 

Albergo  degli  Eterni.  — 11  Dio  sì  disse; 

E in  secreto  firemean  Minerva  e Giuuo, 
Sedendosi  vicine,  ed  ai  Trojani 
Meditando  nel  cor  alte  sciagure. 

Stette  muta  Minerva,  e centra  il  padre 
L’acerbo,  che  l’ardea,  sdegno  represse  ; 

Ma , sciolto  all’  ira  il  fren,  Giuno  rispose  : 

Tremendissimo  Giove,  e che  dicesti  ? 

Ben  anco  a noi  la  tua  possanza  invitta 
È manifesta^  ma  pietà  ne  prende 
Dei  dannati  a perir  miseri  Achei. 

Noi  certo  l’armi  lascerem,  se  questo 
È il  tuo  strano  voler  ^ ma  nondimeno 
Qualche  ai  Greci  daremo  util  consiglio, 

Onde  non  tutti  il  tuo  furor  li  spegna. 

E Giove  replicò:  Più  fiero  ancora 
Vedi-ai  dimani,  se  t’ aggi-ada,  o moglie, 
L’onnipotente  di  Satm'no  figlio 
Dell’esercito  acheo  struggere  il  fioi-c: 

Perocché  dalla  pugna  il  forte  Et  torre 
Non  pria  desisterà,  che  finalmente 
L’oziosa  si  svegli  ira  d'Achille 
11  di  che  in  gran  periglio  appo  le  navi 
Combatterassi  per  Pati'ócio  ucciso. 

Tal  de’ fati  è il  voler:  nè  de’ tuoi  sdegni 
Sollecito  son  io,  no,  s' anco  ai  muti 
Della  terra  c del  inar  confini  esti-cini 
Andar  ti  piaccia,  nel  rimoto  esigilo 
Di  Giapcto  c Saturno , che  nel  cupo 


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LIBHO  Vili 


‘79 


I*.  661-700 

Tai'taro  chiusi  nè  il  superno  raggio 
Del  Sole,  nè  di  vento  aura  ricrea  : 

No,  se  tant’ oltre  pure  il  tuo  dispetto 
Vagabonda,  ti  porti,  io  non  ti  cui'o^ 

Poiché  d’ogni  pudor  passasti  il  segno. 

Tacque;  nè  Ginno  osò  pui’c  d’un  detto 
Fargli  risposta.  In  grembo  al  mar  frattanto 
La  splendida  cadea  lampa  del  Sole, 

L’ atra  notte  traendo  su  la  terra. 

Della  luce  1’  occaso  i Teucri  afflisse  ; 

Ma  pregata  più  volte  e sospirata, 
Sovraggiunsc  agli  Achei  1’  ombra  notturna. 
Fuor  del  campo  navale  Ettore  allora 
I Trojani  ritrasse  in  su  la  riva 
Del  rapido  Scaraandro,  ed  in  pianura 
Da’  cadaveri  sgombra  a parlamento 
Chiamolli  ; ed  essi  dismontàr  dai  cocchi , 

E affollati  dintorno  al  gran  guerriero 
Cura  di  Giove,  a sue  parole  attenti 
Porgean  gli  orecchi.  Una  grand’  asta  in  pugno 
Di  ben  undici  cubiti  sostiene: 

Tutta  di  bronzo  folgora  la  punta, 

E d’oro  un  cerchio  le  discorre  intorno. 
Appoggiato  su  questa,  così  disse; 

Dàrdani,  Teucri,  Collegati,  udite; 
lo  poc’  anzi  sperai  eh’  arse  le  navi 
E distrutti  gli  Argivi,  a Troja  avremmo 
Fatto  ritorno.  Ma  si  bella  speme 
Ne  rapir  le  tenèbre  invidiose. 

Che  inopportune  sul  cruento  lido 
Salvòr  le  navi  e i paurosi  Achei. 

Obbediamo  alle  negre  ombre  nemiche; 
Apparecchiam  le  cene.  Ognun  dal  temo 
Sciolga  i cavalli,  c Uberai  sia  loro  * 

Di  largo  cibo.  Di  voi  parte  intanto 
Alla  città  si  affretti,  e pingui  agnello 
E giovenchi  n’adduca,  e di  Lieo 
E di  Cerere  il  frutto  almo  c gradito. 

Sian  di  secche  boscaglie  anco  raccolte 
Abbondanti  cataste,  e si  cosparga, 


l8o  ILUDE  «.  ;oi-;)n 

Finché  regna  la  notte  c l’  alba  arriva, 

Tutto  di  fuochi  il  campo  e il  ciel  di  luce, 

Onde  dell’  ombre  nel  silenzio  i Greci 
Non  prendano  del  mar  su  1’  ampio  dorso 
Taciturni  la  fuga*,  o i legni  almeno 
Non  salgano  tranquilli,  c la  partenza 
Senza  terror  non  sia  ^ ma  nell’  imbarco 
O di  lancia  piagato  o di  saetta 
Vada  più  d’  uno  alle  paterne  case 
A curar  la  ferita,  e rechi  ai  figli 
L’  orror  de’  Teucri  : c cosi  loro  insegni 
A non  tentarli  con  funesta  guerra. 

Voi,  cari  a Giove  diligenti  araldi. 

Per  la  città  frattanto  ite,  e bandite, 

Che  i canuti  vegliardi  e i giovinetti , 

A cui  le  guance  il  primo  pelo  infiora, 

Custodiscan  le  mura  in  su  gli  spaldi 
Dagli  Dei  fabbricati.  Entro  le  case 
Allumino  gran  fuoco  anco  le  donne, 

E stazion  vi  sia  di  sentinelle, 

Onde,  sendo  noi  Inngi,  ostile  insidia 
Nell’  inerme  città  non  s’ introduca. 

Quanto  or  dico  s’ adémpia  ; e non  fia  vano , 
Magnanimi  compagni,  il  mio  consiglio. 

Dirò  dimani  ciò  che  far  ne  resta. 

Spero  ben  io,  se  Giove  e gli  altri  Eterni 
Avrcm  propizi,  di  cacciarne  lungi 
Cotesti  cani  da  funesto  fato 
Qua  su  le  prore  addotti.  Or  per  la  notte 
Custodiamo  noi  stessi.  Al  primo  raggio 
Del  nuovo  giorno  in  tutto  punto  armati 
Desteremo  sid  lido  acre  conflitto. 

Vedrem  se  Diomede,  questo  forte 
Figliuolo  di  Tidéo,  respingerammi 
Dalle  navi  alle  mura,  o s’ io  coll’asta 
Saprò  passargli  il  fianco,  c via  portarne 
Le  sanguinose  spoglie.  Egli  dimani 
Manifesto  farà,  se  sua  prodezza 
Tal  sia,  che  possa  di  mia  lancia  il  duro 
Assalto  sostener.  Ma  se  fallace 


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LIBHO  Vili 


Non  è mia  speme,  eì  giacerà  tra’  primi 
Spento  con  molti  de' compagni  intorno^ 

Ei,  sì,  dimani,  all’ apparir  del  Sole. 

Così  immortai  foss’  io,  nè  mai  vecchiezza 
Violasse  i mici  giorni,  ed  onorato 
Foss’ io  del  par  che  Palladc  ed  Apollo, 

Come  fatale  ai  Greci  è il  di  futuro. 

Tal  fu  d’Ettorre  il  favellar  superbo^ 

E gli  fér  plauso  i Teucri.  Immantinente 
Sciolsero  dal  timone  i polverosi 
Destrier  sudati,  e colle  briglie  al  carro 
Gli  annodò  ciascheduno.  Indi  inenaro 
Pecore  e buoi  dalla  cittade  in  fretta. 

Altri  vien  carco  di  nettareo  vino. 

Altri  di  cibo  cereale;  ed  altri 
Cataste  aduna  di  virgulti  e tronchi. 

Rapian  l’odor  delle  vivande  i venti 
Da  tutto  il  campo,  e Io  spargeano  al  cielo; 
Ed  essi,  gonfi  di  baldanza  e in  torme 
Belliche  essisi , dispendean  la  notte , 

Tutta  empiendo  di  fuochi  la  campagna. 

Siccome  quando  in  cici  tersa  è la  Luna, 

E tremole  e vezzose  a lei  dintorno 
Sfavillano  le  stelle,  allor  che  l’aria 
È senza  vento,  ed  allo  sguardo  tutte 
Si  scuoprono  le  torri  e le  foreste 
E le  cime  de’ monti;  immenso  e puro 
L’etra  si  spande,  gli  astri  tutto  il  volto 
Rivelano  ridenti,  e in  cor  ne  gode 
L’attonito  pastor;  tali  al  vederli, 

E altrettanti  apparian  de’  Teucri  i fuochi 
Tra  le  navi  e del  Xanto  le  correnti 
Sotto  il  muro  di  Troja.  Erano  mille. 

Che  di  gran  fiamma  interrompeano  il  campo, 
E cinquanta  guerrieri  a ciascheduno 
Sedeansi  al  lume  delle  vampe  ardenti. 

Presso  i carri  frattanto  orzo  ed  avena 
I cavalli  pascevano,  aspettando 
Che  dal  bel  trono  suo  l’Alba  sorgesse. 


■ bi 


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T.IBRO  NONO 


ARGOMENTO 


CoaUnutlonf  n^l  rampo  grero.  Agimn)noa«,  r*r«ollo  in  a^greio  il  parlamento  dei  dori, 
propooe  la  foga,  Diomede  e Néatore  sì  oppoogooe.  acolte  tono  poaie  aHa  guardia  del  muro. 
DutkJio  il  romrsM,  e arrolti  da  Agamennone  a menu  i più  vrerbi  de'r«|>itaaii,  fféctorr  con- 
liglia  che  ti  rerrlù  di  placare  Ackille  colle  preghiere  e roi  doni.  Agameanone  acrouaente.  Fe> 
oice«  inUie  cd  Ajace  TclaoKWiio  tono  delegati  amimeiatori.  Seguili  da  due  araldi,  euitipre- 
tratane  ad  Achille  nel  tuo  padiglione.  Loro  parlate,  e rifiuto  ddreroe.  Fentee  ^ da  lui  trat- 
tenuto nella  sua  tenda.  LHiam  ed  Ajace  ritornano  a render  conto  della  loro  ambasciata.  Pa- 
role di  Diomede  nel  contesto  dei  capitani.  Questi  sì  rilirauo  nelle  loro  tende  a |ireakder  tonno. 


Queste  de’ Teucri  eran  le  veglie.  Intanto 
Del  gelido  Terror  negra  compagna 
La  Fuga,  dagli  Dei  ne’ petti  infusa, 
L’acliivo  campo  possedea.  Percosso 
Da  profonda  tristezza  era  di  tutti 
I più  forti  lo  spirto^  e in  quella  guisa, 

Che  il  pescoso  Oceano  si  rabbuffa. 
Quando  improvviso  dalla  tracia  tana 
Di  Ponente  sorgiunge  c d’ Aquilone 
L’impetuoso  sofllo^  allo  s’ estolle 
L’onda,  c si  sparge  di  moli’ alga  il  lido’. 
Tale  è l’intcma  degli  Achei  tempesta. 
Sovra  ogni  altro  1’  Alride  addolorato  , 

Di  qua,  di  là  s’aggira,  cd  agli  araldi 
Comanda  di  ehiamar  tutti  in  segreto 
Ad  uno  ad  uno  i duci  a parlamento.  ' 
Come  fùro  adunali,  e mesti  in  volto 
S’assiscro,  levossi  Agamennone. 

Lagrimavn  .simile  a cupo  fonte, 

Che  tenebrosi  da  scoscesa  rupe 


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albo 


ILIADE*  LIBRO  IX 


83 


Versa  i suoi  rivi^  e,  dal  profondo  seno 
Messo  un  sospiro,  cominciò  : Diletti 
Principi  Argivi,  in  una  ria  sciagura 
Giove  m' avvolse.  Dispietato!  ei  prima 
Mi  promise  e giurò  che,  al  suol  prostrate 
D'Ilio  le  mura,  glonoso  in  Argo 
Avrei  fatto  ritorno^  ed  or  mi  froda 
Indegnamente,  e dopo  tante  in  guerra 
Estinte  vite,  di  partir  m’impone 
Inonorato.  Il  piacimento  è questo 
Del  prepotente  nume,  ehe  già  molte 
Spianò  cittadi  eccelse,  c molte  ancora 
Ne  spianerà^  ehè  immenso  ò il  suo  potere. 
Dunque  al  mio  detto  obbediam  tutti:  al  vento 
Diam  le  vele,  fuggiamo  alla  diletta 
Paterna  terra ^ che  dell'alta  Troja 
Lo  sperato  conquisto  è vana  impresa. 

Ammutir  tutti  a queste  voci,  c In  cupo 
Lungo  silenzio  si  restar  dolenti 

I figli  degli  Achei.  Lo  ruppe  alfine 

II  bellicoso  Diomede,  e disse:'  ■ 

Atridc,  al  torto  tuo  parlar  col  vero 

Libero  dir,  che  in  libero  consesso 
Lice  ad  ognun,  risponderò.  Tu  m'odi 
Senza  disdegno.  Osasti,  e fosti  il  primo. 

Alla  presenza  degli  Achei  pur  dianzi 
Vituperargli,  e imbelle  dirmi,  c privo 
D'ogni  coraggio:  e l’udir  tutti.  Or  io 
Dico  a te  di  rimando,  che  se  Giove 
L’un  ti  diò  de’ suoi  doni,  l’onor  sommo 
Dello  scettro  su  noi,  non  ti  concesse 
L’ altro , più  grande  che  lo  scettro , il  core. 
Misero!  e speri  sì  codardi  e fiacchi, 

Come  pur  cianci,  della  ùrecia  i figli? 

Se  11  cor  ti  sprona  alla  partenza,  parti: 

Sono  aperte  le  vic^  le  numerose 
Navi,  che  d’Argo  ti  seguir,  son  pronte; 

Ma  gli  altri  Achivl  rimarran  qui  fermi 
Air  eccidio  di  Troja;  c se  pur  essi 
Fuggiran  sulle  prore  al  patrio  Udo, 


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i84 


ILfADE 


6t>too 


Noi  resteremo  a guerreggiar:  noi  Juc, 

Stèndo  e Diomede,  insin  che  giunga 
Il  dì  supremo  d’Dion^  chè  noi 
Qua  ne  venimmo  col  favor  d' un  Dio. 

Tacque^  e tutti  mandar  di  plauso  un  grido, 
Del  Tidide  ammirando  i generosi 
Sensi;  c di  Pilo  il  vencrabil  veglio, 

Surto  in  piedi,  dicca:  Nelle  battaglie 
Forte  ti  mostri,  o Diomede,  c vinci 
Di  senno  insieme  i coetani  eroi. 

Nè  biasmar  nè  impugnar  le  tue  pai-ole 
Potrà  qui  nullo  degli  Achei  ; ma  pure , 

Benché  retti  e prudenti  e di  noi  degni. 

Non  ferir  giusto  i tuoi  discorsi  il  segno. 
Giovinetto  se’ tu  sì,  che  il  minore 
Fisser  potresti  de’ miei  Ggli.  Io  dunque. 

Che  di  te  più  d’assai  vecchio  mi  vanto, 

Dironne  il  resto;  nè  il  mio  dir  veruno 
Biasmerà,  non  lo  stesso  Agamennone. 

È senza  patria,  senza  leggi  e senza 
Lari  chi  la  civile  orrenda  guerra 
Desidera.  Ma  giovi  or  della  fosca 
Diva  dell’ ombre  rispettar  l’ impero. 

S’apprestino  le  cene,  ed  ogni  scolta 
Vegli  al  fosso  del  muro,  e questo  sia 
De’ giovani  il  pcnsier.  Tu,  sommo  Atride, 

Come  a capo  s’addice,  accogli  a,  mensa 

I più  provetti:  e ben  lo  puoi;  chè  piene 
Le  tende  hai  tu  del  buon  lieo , ebe  ognora 
Pel  vasto  mai-  ti  recano  veloci 
L’achive  prore  dalle  tracie  viti. 

Nulla  all’uopo  ti  manca,  ed  al  tuo  cenno 
Tutto  obbedisce.  Congregati  i duci. 

Apra  ognun  la  sua  mente , e tu  secónda 

II  consiglio  miglior;  chè  di  consiglio 
Utile  e saggio  or  fa  mestier  davvero. 

Imminente  alle  navi  è l’inimico, 

Pien  di  fuochi  il  suo  campo.  E chi  mirarli 
Può  senza  tema?  Questa  fia  la  notte. 

Che  l’esercito  perda,  o lo  conservi. 


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r.  lOI-I^O  LIBRO  rx  |85 

Disse;  e tutti  obbedirò.  Immantinente 
Uscir  di  rilucenti  armi  vestite 
Le  sentinelle.  PTeran  sette  i duci: 

Il  Nestoride  prence  Trasimcde; 

Di  Marte  i figli,  Ascàlafo  e Jalmeno; 

Mer'ion,  Deipi'ro  ed  Àfaréu 
Con  Licomede  di  Creonte;  c cento 
Giovani  prodi  conducea  ciascuno 
Di  lunghe  picche  armati.  In  ordinanza 
Si  difilàr  tra  il  fosso  e il  muro  ; e quivi 
Destaro  i fuochi,  e apposero  le  cene. 

Nella  tenda  regai  l’Àtride  intanto 
Convita  i duci,  di  vivande  grate 
Li  ristaura;  e sì  tosto  che  de’  cibi 
E del  bere  in  ciascun  tacque  il  desio, 

Il  buon  Nestorre,  di  cui  sempre  liscia 
Ottimo  il  detto,  cominciò  primiero 
A svolgere  dal  petto  un  suo  consiglio, 

E in  questo  saggio  ragionar  l’ espose  : 

Agamennóne,  glorioso  Atride, 

Da  te  principio  pretfderan  le  mie 
Parole,  in  te  si  finiranno,  in  te 
Di  molte  genti  impcrador,  cui  Giove, 

Per  la  salute  de’ soggetti,  il  carco 
Delle  leggi  commise  e dello  scettro. 
Principalmente  quindi  a te  conviensi 
Dir  tua  sentenza,  ed  ascoltar  l’altrui, 

E la  porre  ad  efietto,  ove  da  pura 
Coscienza  proceda,  e il  ben  ne  frutti; 

Chè  il  buon  consiglio,  da  qualunque  ei  vegna. 
Tuo  lo  farai  coll’ eseguirlo.  Io  dunque 
Ciò  che  acconcio  a me  par,  dirò  palese; 

Nè  verun  penserà  miglior  pensiero 
Di  quel  ch’io  penso  e mi  pensai  dal  punto 
Che  dalla  tenda  dell’ irato  Achille 
Via  menasti,  o gran  re,  la  giovinetta 
Brisè'ide,  sprezzato  il  nostro  avviso. 

Ben  io,  lo  sai,  con  molti  e caldi  preghi 
Ti  sconfortai  dall’opra;  ma  tu,  spinto 
Dall’altero  tuo  cor,  onta  facesti 


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l8G  ItUDE  ,,  ,4,., do 

Al  fortissimo  eroe,  dagrimmortali 
Stessi  onorato,  e il  premio  gli  rapisti 
De’ suoi  sudori,  e ancor  lo  ti  ritieni. 

Or  tempo  egli  è di  consultar  le  guise 
Di  blandirlo  e piegarlo  o con  eletti 
Doni  o col  dolce  favellar  che  tocca. 

Tu  parli  il  vero,  Agamennón  rispose; 

Parli  il  vero,  pur  troppo,  enumerando 
I miei  torti,  0 buon  vecchio.  Errai,  noi  nego: 

Val  molte  squadre  un  valoroso,  in  cui 
Ponga  Giove  il  suo  cor,  siccome  in  questo, 

Per  lo  cui  solo  onor  doma  gli  Achei. 

Ma  se  ascoltando  un  mal  desio  l’oflesi. 

Or  vo’ placarlo,  c il  presentar  di  molti 
Onorevoli  doni,  c a voi  qui  tutti 
I.i  dirò:  sette  tripodi,  non  anco 
Tocchi  dal  foco;  dieci  aurei  talenti: 

Due  volte  .tanti  splendidi  lebcli; 

Dodici  velocissimi  destrieri, 

Usi  nel  corso  a riportarmi  i primi 
Premj:  c di  tanti  già  mi  fòr  l’acquisto. 

Che  povero  per  certo  e di  ricchciie 
Desideroso  non  sana  chi  tutti 
Li  possedesse.  Donerogli  in  oltre 
Di  suprema  beltà  sette  captivc 
Lesbie  donzelle,  a meraviglia  speric 
Nell’ opre  di  Minerva,  c da  me  stesso 
Traseelte  il  di  che  Lesbo  ei  prese.  A queste 
Aggiungo  la  rapita  a lui  poc'anzi 
Briseidc;  c farò  giuro  solenne, 

Ch’unqua  il  suo  letto  non  calcai.  Ciò  tutto 
Senza  indugio  fia  pronto.  Ove  gli  Dei 
Ne  concedano  poscia  il  porre  al  fondu 
La  trojana  città,  primiero  ei  vada. 

Nel  partir  delle  spoglie,  a ricolmarsi 
D’oro  e bronzo  le  navi,  c si  trascclga 
Venti  bei  corpi  di  dardanic  donne. 

Dopo  l’argiva  F.h'na  le  più  belle. 

Di  più:  se  d’Argo  riveder  n’è  dato 
Le  care  .sponde,  ei  genero  sarammi 


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LIBRO  11 


187 


r.  i8i-3>0 

Onorato  e diletto  al  par  d’Oreste, 

Ch'unico  germe  a me  del  miglior  sesso 
Ivi  s’ educa  alle  dovizie  in  seno. 

Ho  di  tre  figlie  nella  reggia  il  fiore, 
Crisotemi,  Laddice,  Ifianassa. 

Qual  più  d’esse  il  talenta,  a sposa  ci  prenda 
Senza  dotarla,  ed  a Peléo  la  meni. 

Doterolla  io  medesmo , e di  tal  dote , 

Qual  non  s’  ebbe  giammai  altra  donzella  ; 
Sette  città,  Cardamile  ed  Endpe, 

Le  liete  di  bei  prati  Ira  ed  Antéa, 

L’inclita  Fere,  Epéa  la  bella,  e Pédaso 
D’alme  viti  feconda;  elle  son  poste 
Tutte  quante  sul  mar  verso  il  confine 
Dell’arenosa  Pilo,  e dense  tutte 
Di  cittadini , che  di  greggi  c mandre 
Ricchissimi,  co’ doni  al  par  d’un  Dio 
L’onoreranno,  e di  tributi  opimi- 
Faran  bello  il  suo  scettro.  Ecco  di  quanto 
Gli  farò  dono,  se  depor  vuol  l’ira. 

Placar  si  lasci:  inesorato  è il  solo 
Pluto,  e per  questo  il  più  abborrito  iddio. 
Rammenti  ancora,  che  di  grado  c d’anni 
Io  gli  vo  sopra;  lo  rammenti,  c ceda. 

Potentissimo  Atride  Agamennòne, 

Riprese  il  veglio  cavalier,  pregiati 
Sono  i doni,  che  appresti  al. re  Pelidc. 

Senza  dunque  indugiar,  alla  sua  tenda 
Si  mandino  i legati.  Io  stesso,  o sire. 

Li  nomerò,  nè  alcun  mi  fia  ritroso: 
Primamente  Fenice,  al  sommo  Giove 
Carissimo  mortale;  c capo  ei  sia 
Dell’imbasciata.  Il  seguirà  col  grande 
Ajace  il  divo  Ulisse,  c degli  araldi 
N’andran  Hodio  ed  Euribate.  Frattanto 
Date  l’acqua  alle  mani,  e comandate 
Alto  silenzio,  acciò  che  salga  a Giove 
La  nostra  prece,  c la  pietà  ne  svegli. 

Disse;  c a tutti  fu  caro  11  suo  consiglio. 
Dicr  le  linfe  alle  mani  i banditori; 


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i8B 


lUÀOE 


V.  321-9^ 


Lesti  i donzelli  coronSr  di  liete 
Spume  le  tazze,  c le  portare  in  giro; 

FI  libato  e gustato  a pien  talento 
Il  devoto  licore,  uscir  veloci 
Dalla  tenda  rogai  gli  ambasciadori; 

E molti  avvisi  porgea  lor  per  via 
Il  buon  veglio,  girando  a ciascheduno. 
Principalmente  di  Lacrte  al  figlio. 

Le  parlanti  pupille,  e a tentar  tutte 
Le  vie  gli  esorta  d’ammansar  quel  fiero. 

Del  risonante  mar  lungo  la  riva 
Avviarsi  i legati,  supplicando 
Dall’imo  cor  l'Enosigco  Nettunno, 

Perchè  d’ Achille  la  grand’  alma  ei  pieghi. 

Alle  tende  venuti  ed  alle  navi 
De’Mirmidóni,  ritrovar  l’eroe, 

Che  ricreava  colla  cetra  il  core. 

Cetra  arguta  c gentil,  che  la  traversa 
Avea  d’argento,  e spoglia  era  del  sacco 
Della  città  d’Eezi'on  distrutta. 

Su  questa,  degli  eroi  le  gloriose 
Ceste  cantando,  raddolcia  le  cure. 

Solo  a rincontro  gli  sedea  Patròclo, 
Aspettando  la  fin  del  bellicoso 
Canto  in  silenzio  riverente.  Ed  ecco 
Dall’Itaco  precessi  all’improvviso 
Avanzarsi  i legati,  c al  suo  cospetto 
Rispettosi  sostar.  Alzasi  Achille 
Del  vederli  stupito,  ed  abbandona 
Colla  cetra  lo  seggio^  alzasi  ci  pure 
Di  Menézio  il  buon  figlio^  e,  lor  porgendo 
Il  Pclide  la  man:  Saivcte,  ci  dice. 

Voi  mi  giungete  assai  graditi;  al  certo 
Vi  trae  grand’uopo:  benché  irato,  io  v’amo 
Sovra  tutti  gli  Achei.  — Così  dicendo. 
Dentro  la  tenda  interior  li  guida. 

In  alti  scanni  fa  sederli  sopra 
Porporini  tappeti,  ed  a Patroclo, 

Che  accanto  gli  venia:  Recami,  disse, 

O mio  diletto,  il  mio  maggior  cratere, 


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r.  i6i.3<»  LIBRO  IX  1 8^ 

E mesci  del  più  puro,  ed  apparecchia 
Il  suo  nappo  a ciascun:  sotto  il  mio  tetto 
Oggi  entrar  generose  anime  care. 

Disse;  e Patroclo  del  suo  dolce  amico 
Alla  voce  obbedì.  Su  l' ignee  vampe 
Concavo  bronzo  di  gran  seno  ei  pose, 

E dentro  vi  tuffò  di  pecorella 
E di  scelta  capretta  i lombi  opimi 
Con  esso  il  pingue  saporoso  tergo 
Di  saginato  porco.  Intenerite 
Così  le  carni,  Automedonte  in  alto 
Le  sollevava;  e con  forbito  acciaro 
•Acconciamente  le  incidea  lo  stesso 
Divino  Achille,  e le  infiggea  ne’ spiedi. 

Destava  intanto  un  grande  foco  il  6gliu 
Di  Menòzio,  e conversi  in  viva  bragia 
I crepitanti  rami,  e già  del  tutto 
Queta  la  fiamma,  delle  brage  ei  fece 
Ardente  un  letto,  c gli  schidion  vi  stese; 

Del  sacro  sai  gli  asperse;  e,  tolte  alfine 
Dagli  alari  le  carni  abbrustolate, 

Sul  desco  le  posò;  prese  di  pani 
Un  nitido  canestro,  e su  la  mensa 
Distribuilli;  ma  le  apposte  dapi 
Spartia  lo  stesso  Achille,  assiso  in  faccia 
Ad  Ulisse  col  tergo  alla  parete. 

Ciò  fatto,  ingiunse  al  suo  diletto  amico 
Le  sacre  oficrte  ai  numi;  c quei  nel  foco 
Le  primizie  gettò.  Stesero  tutti 
AUor  le  mani  all’ imbandito  cibo. 

Come  fur  sazi,  fc  degli  occhi  Ajace 
Al  buon  Fenice  un  cotal  cenuo:  il  vide 
Lo  scaltro  Ulisse;  e ricolmato  il  nappo , 

Al  grande  Achille  propinollo,  e disse: 

Salve,  Achille;  poc’anzi  entro  la  tenda 
D’Atride,  ed  ora  nella  tua  di  lieto 
Cibo  noi  certo  ritroviam  dovizia; 

Ma  chi  di  cibo  può  sentir  diletto 
Mentre  sul  capo  ci  veggiam  pendente 
Un’orrenda  sciagura,  c sul  periglio 


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190 


iLllDE 


5oi-3’|0 


Delle  navi  si  trema?  E periranno, 

Se  tu,  sangue  diviii,  non  ti  rivesti 
Di  tua  fortezza,  e non  ne  reehi  aita. 

Gli  orgogliosi  Trojani  e gli  alleati 
Imminente  all’  armata  e al  nostro  muro 
Han  posto  il  campo,  e mille  fuochi  accesi, 
E fan  minaccia  d’avanzarsi  arditi, 

E le  navi  assalir.'  Giove  co’ lampi 
Del  suo  favor  gli  affida^  Ettore,  i truci 
Occhi  volgendo  d’ ogni  parte , e multo 
Delle  sue  forze  altero  e del  suo  Giove, 
Terribilmente  infuria,  e non  rispetta 
Nè  mortali  nè  Dei  (tanto  gl’ invade 
Furor  la  mente),  e della  nuova  aurora 
Già  le  tardanze  accusa,  e freme,  e giura 
Di  venirne  a schiantar  di  propria  mano 
Delle  navi  gli  aplustri , ed  a scagliarvi 
Dentro  le  fiamme,  e incenerirle  tutte, 

E tutti  tra  le  vampe  istupiditi 
Ancidere  gli  Achivi.  Or  io  di  forte 
Timor  la  mente  contristar  mi  sento. 

Che  le  costui  minacce  avversi  numi 
Non  mandino  ad  effetto,  c che  non  sia 
Delle  Parche  decreto  il  dover  noi 
Lungi  d’Ai-go  perir  su  queste  rive. 

Ma  tu,  deh!  sorgi,  c benché  tardi,  accorri 
A preservar  dall’inimico  assalto 
I desolati  Achei.  Se  gli  abbandoni. 

Alto  cordoglio  un  d'i  n’avrai,  nè  al  danno 
Troverai  più  riparo.  A tempo  adunque 
L’antivieni  prudente,  ed  allontana 
DaU'argolica  gente  il  giorno  estremo. 
Ricordati,  mio  caro,  i saggi  avvisi 
Del  tuo  padre  Peléo,  quando  di  Ftia 
Inv'iotti  all'  Atridc.  Amato  figlio 
(11  buon  vecchio  dicea).  Minerva  c Giuno, 
Se  fia  lor  grado,  ti  darau  fortezza^ 

Ma  tu  nel  petto  il  cor  superbo  alh'ena^ 

Chè  cor  più  bello  è il  mansueto^  c tienti 
(Onde  più  sempre  c giovani  e canuti 


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LIBRO  IX 


■9' 


. 34l-38g 

T’onorino  gli  Achei),  tienti  remoto 
Dalla  feconda  d'ugni  mal  Contesa. 

Questi  del  veglio  i bei  ricordi  furo: 

Tu  gli  obbl'iasti.  Teli  sovvenga  adesso, 

E la  trista  una  volta  ira  duponì. 

Ti  sarà,  se  lo  fai,  largo  di  cari 
Doni  l’Atride.  Nella  tenda  ei  dianzi 
L’ impromessa  ne  fcce^  odili  tutti: 

Sette  tripodi  intatti,  e dieci  d’oro 
Talenti,  c venti  splendidi  Icbeti^ 

Dodici  velocissimi  destrieri. 

Usi  nel  corso  a riportarne  i primi 
Premj:  e già  tanti  n’acquistar,  che  brama 
Più  di  ricchezze  non  avrìa  chi  tutti 
Li  possedesse.  Ti  largisce  inoltre 
Sette  d’ alma  beltà  lesbie  donzelle  , 

D’ago  esperte  e di  spola,  c da  lui  stesso 
Per  lor  suprema  leggiadria  trascelte 
11  dì  che  Lesbo  tu  espugnavi.  A queste 
La  £glia  aggiunge  di  Briséo,  giurando. 
Che  intatta,  o prence,  la  ti  rende.  E tutte 
Pronte  son  queste  cose.  Ove  poi  Troja 
Ne  sia  dato  atterrar,  tu  primo  andrai. 

Nel  partir  della  preda,  a ricolmai-ti 
D’oro  e di  bronzo  i tuoi  navigli,  e dieci 
Captive  e dieci  ti  scerrai,  tenute 
Dopo  l’ argiva  Eléria  le  più  belle. 

Di  più:  se  d’Argo  rivedrem  le  rive. 

Tu  genero  sarai  del  grande  Atride, 

E in  onoranza  e nella  copia  accolto 
D’ogni  cara  dovizia  al  par  del  suo 
Unico  Oreste.  Delle  tre,  che  il  fanno 
Beato  genitor  alme  fanciulle. 

Crisotemi,  Laódice,  Ifianassa, 

Prendi  quale  vorrai  senza  dotarla: 
Dotcralla  lo  stesso  Agamennduc 
Di  tanta  dote  e tal,  eh’ altra  giammai 
Regai  donzella  la  .simil  non  s’ebbe: 

Sette  città,  Cai'damile  ed  Enópe, 

Ira,  Pédaso,  Antéa,  Fere  ed  Epéa, 


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ILIADE 


V.  38i>4io 


Tutte  belle  marittime  contrade 
Verso  il  pilio  confin,  tutte  frequenti 
D’abitatori,  a cui  di  molte  mandre 
S’alza  il  muggito,  c che  di  bei  tributi 
T’onoreranno  al  par  d’un  Dio.  Ciò  tutto 
Daratti  Atridc,  se  lo  sdegno  acqueti. 

Ghè  se  lui  sempre  e i suoi  presenti  abboni , 
Abbi  almeno  pietà  degli  altri  Achei 
Là  nelle  teude  costernati  e chiusi. 

Che  t’avranno  qual  nume,  ed  alle  stelle 
La  tua  gloria  alzeran.  Vien  dunque,  e spegni 
Questo  Ettdr,  che  furente  a te  si  para, 

E vanta,  che  nessun  di  quanti  Achivi 
Qua  navigare,  di  valor  l’eguaglia. 

Divino  senno,  Laerziade  Ulisse, 

Rispose  Achille,  senza  velo,  e quali 
11  cor  li  detta,  e proveralli  il  fatto, 

M’è  d’uopo  palesar  dell’alma  i sensi. 

Onde  cessiate  di  garrirmi  intorno. 

Odio  al  par  delle  porte  atre  di  Fiuto 
Colui,  ch’altro  ha  sol  labbro,  altro  nel  core; 
Ma  ben  io  dirò  netto  il  mio  pensiero. 

Nè  il  grande  Atride  Agamennòn,  nè  alcuno 
Me  degli  Achivi  piegherà.  Qual  prezzo. 

Qual  ricompensa  delle  assidue  pugne? 

Di  chi  poltrisce  e di  chi  suda  in  guerra 
Qui  s’uguaglia  la  sorte:  il  vile  usurpa 
L’onor  del  prode,  e una  medesma  tomba 
L’infingardo  riceve  e l’operoso. 

Ed  io,  ebe  tanto  travagliai,  che  a tanti 
Rischi  di  Marte  la  mia  vita  espusi. 

Che  guadagni,  per  dio!  che  guiderdone 
Su  gli  altri  ottenni?  In  vero  il  meschinello 
Augcl  son  io,  che  d’esca  i suoi  provvede 
Piccioli  implumi,  e sé  medesmo  obblia. 
Quante,  senza  dar  sonno  alle  palpebre, 
Trascorse  notti  ! quanti  giorni,  avvolto 
In  sanguinose  pugne,  ho  combattuto 
Per  le  ree  mogli  di  costor!  Conquisi, 
Guerreggiando  sul  mar,  dodici  altere 


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WBBO  '*  «93 

Cittadi^  nc  conquisi  undici  a piede 
Dintorno  ai  campi  d'Ilì’on^  da  tutte 
Molte  asportai  pregiate  spoglie:  e tulle 
All'Atride  le  cessi,  a lui  che  inerte 
Rimasto  indietro,  nell’ avare  navi 
Le  rieevea  superbo,  e,  dividendo 
Altrui  lo  peggio , riserbossi  il  meglio; 

O s’alcnn  dono  agli  altri  duci  ei  fenne. 

Noi  si  ritolse  almeno.  Io  sol  del  mio 
Premio  fui  spoglio,  io  solo;  egli  la  donna 
Del  mio  cor  si  ritiene,  e ne  gioisce. 

A che  mai  questa  degli  Achei  co’ Teucri 
Cotanta  guerra?  a che  raccolse  Atride 
Qui  tant’arml?  Non  forse  per  la  bella 
Elena?  Ma  l’amor  delle  consorti 
Tocca  egli  forse  il  cor  de’ soli  Atridi? 

Ogni  buono,  ogni  saggio  ama  la  sua, 

E tienla  in  pregio,  siccom’io  costei 
Carissima  al  mio  cor,  quantunque  ancella. 

Or  ch’egli  dalle  man  la  mi  rapio 
Con  fatto  iniquo,  di  piegar  non  tenti 
Me  da  sue  frodi  ammaestrato  assai. 

Tcco,  IHisse,  c co’suoi  re  tanti  ei  dunque 
Consulti  il  modo  di  sottrar  l’armata 
Alle  fiamme  nemiche.  E quale  ha  d’ uopo 
Ei  del  mio  braccio?  Senza  me  già  fece 
Di  gran  cose.  Innalzalo  ha  un  alto  muro; 

Lungo  il  muro  ha  scavato  un  largo  c cupo 
Fosso,  e nel  fosso  un  gran  palizzo  infisse. 

Mlrabil  opra!  che  dal  fiero  Etlorre 
Noi  fa  sicuro  ancor,  da  quell’  Eltorre , 

Che,  mentre  io  parvi  fra  gli  Achei,  scostarsi 
Non  ardia  dalle  mura,  o non  giugnea. 

Che  sino  al  faggio  delle  porte  Scec. 

Sola  una  volta  ei  là  m’attese,  e a stento 
Potè  sottrarsi  all'asta  mia.  Ma  nullo 
Più  conflitto  vogl’io  con  quel  guerriero, 

Nullo  ; e , offerti  dimani  al  sommo  Giove 
E agli  alti'i  numi  i sacrifici,  tratte 
Tutte  nel  mare  le  mie  carchc  navi. 

Mosti.  Iliade.  i3 


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ILIADE 


V.  i^fìl^oo 


S),  dimani  vedrai,  se  te  ne  cale, 

Coll’aurora  spiegar  sull’ Ellesponto 

I miei  legni  le  vele,  ed  esultanti 
Tutte  di  lieti  remator  le  sponde. 

Se  di  prospero  corso  il  buon  Nettunno 
Cortese  mi  sarà,  la  terza  luce 
Di  Ftia  porrammi  su  la  dolce  riva. 

Ivi  molta  lasciai  propria  ricchezza. 

Qua  venendo  in  mal  punto;  ivi  molt’ altra 
JVe  reco  in  oro,  e in  fulvo  rame,  e in  terso 
Splendido  ferro,  e in  eleganti  donne. 

Tutto  tesoro  a me  sortito.  Il  solo 
Premio  ne  manca,  che  mi  diè  1’ Atride, 

E , re  villano , mcl  ritolse  ei  poscia. 

Torna  dunque  all’ingrato,  e gli  riporta 
Tutto  che  dico,  e a tutti  in  faccia,  ond’anco 
Negli  altri  Achei  si  svegli  ima  giust’ira 
E un  avvisato  diffidar  dell’ arti 
Di  quel  franco  impudente,  che  pur  tale 
Non  ardirebbe  di  mirarmi  in  fronte. 

Digli,  che  a parte  non  verrò  giammai 
Nè  di  fatto  con  lui  , nè  di  consiglio  ; 

Che  mi  deluse;  che  mi  fece  oltraggio; 

Che  gli  basti  l'aver  tanto  potuto 

Sola  una  volta,  e che  mal  fonda  in  vane 

Ciancc  la  speme  d’un  secondo  inganno. 

Digli,  che  senza  più  turbarmi,  corra 
Alla  ruina,  a cui  l’incalza  Giove, 

Che  di  senno  il  privò;  digli,  che  abborro 
Suoi  doni,  e spregio  come  vii  mancipio 

II  donator.  Nè  s’egli  e dieci  c venti 
Volte  gli  addoppi!,  nè  se  tutto  ei  m’offra 
Ciò  ch’or  possiede,  e ciò  eh’ un  di  venirgli 
Potn'a  d'altronde,  c quante  entran  ricchezze 
In  Orcomcno  e nell’egizia  Tebe 

Per  le  cento  sue  porto  e li  dugento 
Aurighi  co’lor  carri  a ciascheduna; 

Mi  fosse  ci  largo  di  tant’oro  alfine 
Quanto  di  sabbia  e polve  si  calpesta, 

Nè  cosi  pur  si  speri  Agamennòne 


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LIBBO  IX 


La  mia  mente  iiiehiuar  prima  clic  lutto 
Pagato  ei  m'abbia  dell’ offesa  il  fio. 

Non  vo’la  figlia  di  costui.  Fos/ella 
Pari  a Minerva  nell’ingegno,  e il  vanto 
Di  beltà  contendesse  a Citeréa, 

Non  prenderolla  in  mia  consorte  io  mai. 
Serbila  ad  altro  Àcheo,  che  al  grand’ Àtridu 
Più  di  grado  s’adegui  e di  possanza. 

A me,  se  salvo  raddurranmi  i numi 
ÀI  patrio  tetto,  a me  scerrà  lo  stesso 
Peléo  la  sposa.  Han  molte  Eliade  c Ftia 
Figlie  di  regi  assai  possenti;  e quale 
Di  lor  vorrò,  legittima  e diletta 
Moglie  farolla^  e mi  godró  con  essa 
Nella  pace,  a cui  stanco  il  cor  sospira. 

Il  paterno  retaggio.  E parmi  in  vero. 

Che  di  mia  vita  non  pareggi  il  prezzo 
Nè  tutta  l’opulenza  in  Ilio  accolta 
Pria  della  giunta  degli  Achei,  nè  quanto 
Tesor  si  chiude  nel  marmoreo  tempio 
Del  saettante  Apollo  in  sul  petroso 
Balzo  di  Pilo.  Racquistar  si  ponno 
E tripodi  e cavalli  e armenti  e greggi^ 

Ma  l’alma  che  passò  del  lal>bro  il  varco. 

Chi  la  racquista?  chi  del  freddo  petto 
La  riconduce  a ravvivar  la  fiamma  ? 

Meco  io  porto  (la  Dea  madre  mcl  dice) 
Doppio  fato  di  morte.  Se  qui  resto 
A pugnar  sotto  Troja,  al  patrio  lido 
M’è  tolto  il  ritornar,  ma  d’immortale 
Gloria  l’ acquisto  mi  farò.  Se  riedo 
Al  dolce  suol  natio,  perdo  la  bella 
Gloria,  ma  il  fiore  de’ miei  dì  non  fia 
Tronco  da  morte  innanzi  tempo,  ed  io 
Lieta  godrorami  e diuturna  vita. 

Questa  m’eleggo,  e gli  altri  tutti  esorto 
A rimbarcarsi,  e abbandonar  di  Troja 
L’impossibil  conquista.  11  Dio  de’ tuoni 
Su  lei  stese  la  mano,  e rincorarsi 
I suoi  guerrieri.  Itene  adunque^  c come 


195 


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«£)6  ILIADE  ...541.580 

Di  legati  è dover,  le  mie  risposte 
Ai  prenci  achivi  riferendo,  dite. 

Che  B preservar  le  navi  e il  campo  argivo 
Lor  fa  mestiero  ruminar  novello 
Miglior  partito  ; chè  il  già  preso  è vano. 

Incsorata  è l’ira  mia.  Fenice 
Qui  rimanga,  e riposi:  al  nuovo  giorno 
Scguirammi,  se  il  vuole,  alla  diletta 
Patria.  Di  forza  noi  trarrò  giammai. 

Disse 4 e l’alto  parlare  e l’aspro  niego 
Tutti  li  fece  sbalorditi  e muti. 

Ruppe  alfìn  quel  silenzio  il  cavaliero 
Veglio  Fenice;  c,  sul  destin  tremando 
Delle  argoliche  navi,  ed  ai  sospiri 
Mescendo  i pianti,  così  prese  a dire: 

Se  in  tuo  pensiero  è fissa,  inclito  Achille, 

La  tua  partenza,  se  nell’ira  immoto 
Di  ninna  guisa  allontanar  non  vuoi 
Gli  ostili  incendi  dalla  classe  achea. 

Come,  ahi!  come  poss’io,  diletto  figlio, 

Qui  restar  senza  te?  Teco  mandommi 

Il  tuo  canuto  genitor  Peléo 

Quel  giorno  che  all’  Atridc  Agamennone , 

Invìotti  da  Ftia,  fanciullo  ancora 
Dell’arte  ignaro  dell’acerba  guerra, 

E dell’  arte  del  dir,  che  fama  acquista. 

Quindi  ci  teco  spedimmi,  onde  di  questi 
Studi  erudirti,  e farmi  a te  nell’ opre 
Della  lingua  maestro  e della  mano. 

A niun  conto  vorrei  dunque,  mio  caro. 
Dispiccarmi  da  tc,  no,  s’anco  un  Dio, 

Rasa  la  mia  vecchiezza,  mi  prometta 
Rinverdir  le  mie  membra , e ritornarmi 
Giovinetto  qual  era  allor  ebe  il  suolo 
D’ Eliade  abbandonai,  l’ira  fuggendo 
E un  atroce  imprecar  del  padre  mio, 

Amintorc  d’Ormeno.  Era  di  questa 
Ira  cagione  un’avvenente  druda. 

Ch’egli,  sprezzata  la  consorte,  amava 
Follemente.  Abbracciò  le  mie  ginocchia 


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>.  58i>0ao 


LIBRO  IX 


'97 


La  tradita  mia  madre,  e supplicommi 
Di  mischiarmi  in  amor  colla  rivale, 

E porle  in  odio  il  vecchio  amante.  11  feci. 
Reso  accorto  di  questo  il  genitore. 

Mi  maledisse,  ed  invocò  sul  mio 
Capo  l’ orrende  Eumenidi,  pregando. 

Che  mai  concesso  non  mi  fosse  il  porro 
Sul  suo  ginocchio  un  figlio  mio.  L' udirò 
n sotterraueo  Giove  e la  spietata 
Proserpina,  e il  feral  voto  fu  pieno. 

Carco  allor  della  sacra  ira  del  padre. 

Non  mi  sofferse  il  cor  di  più  restarmi 
Nelle  case  paterne.  E servi  e amici 
E congiunti  mi  fean  con  caldi  preghi 
Dolce  ritegno^  ed  in  allegre  mense 
Stornar  volendo  il  mio  pensier,  si  diero 
A far  macco  d’ agnello  e di  torelli, 

À rosolar  sul  foco  i saginati 
Lombi  suini,  a tracannar  del  veglio 
L’ anfore  in  serbo.  Nove  notti  al  fianco 
Mi  fur  essi  così  con  veglie  alterne 
E con  perpetui  fuochi,  un  sotto  il  portico 
Del  ben  chiuso  cortil,  l’altro  alle  soglie 
Della  mia  stanza  nell’andron.  Ma  quando 
Della  decima  notte  il  bujo  venne, 

L’useio  sconfissi,  c della  stanza  evaso. 
Varcai  d’un  salto  della  corte  il  muro: 

Nè  de’ custodi  alcun,  nè  dell’ ancelle 
Di  mia  fuga  s’avvide.  Errai  gran  pezza 
Per  l’ellade  contrada  ^ e giunto  ai  campi 
Della  feconda  pecorosa  Ftia, 

Trassi  al  cospetto  di  Peléo.  M"  accolse 
Lietamente  il  buon  sire,  e mi  dilesse 
Come  un  padre  il  figliuol,  ch’unico  in  largo 
Aver  gli  nasca  nell’età  canuta; 

E di  popolo  molto  e di  molt’oro 
Fattomi  ricco,  l’ultimo  confine 
Di  Ftia  mi  diede  ad  abitar,  commesso 
De’Dolopi  il  governo  alla  mia  cura. 

Son  io,  divino  Achille,  io  mi  son  quegli. 


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Che  ti  crebbi  qual  sci,  che  caramente 
T’amai:  nè  tu  volevi  bambinello 
II-  con  altri  alla  mensa,  nè  vivanda 
Domestica  gustar,  ov’io  non  pria 
Adagiato  t’avessi  e carezzato 
Su’ mici  ginocchi,  minuzzando  il  cibo, 

E porgendo  la  beva,  che,  dal  labbro 
Infantil  traboccando,  a me  sovente 
Irrigava  sul  petto  il  vestimento. 

Così  molto  soffersi  a tua  cagione, 

E consolava  le  mie  pene  il  dolce 
Pensier,  che,  i Numi  a me  negando  un  ligi 
Generato  da  me,  tu  mi  saresti 
Tal  per  amore  divenuto , e tale 
M’avresti  salvo  un  di  da  ria  sciagura. 

Doma  dunque,  cor  mio,  doma  l’altero 
Tuo  spirto:  disconviene  una  spietata 
Anima  a te,  che  rassomigli  i numi^ 

Chè  i numi  stessi,  si  di  noi  più  grandi 
D’onor,  di  forza,  di  virtù,  son  miti: 

E con  vittime  e voti  c libamenti 
E odorosi  olocausti  il  supplicante 
Mortai  li  placa  nell’  ciTor  caduto  ; 

Perocché  del  gran  Giove  alme  dgliuolc 
Son  le  Preghiere,  che,  dal  pianto  falle 
Rugose  c losche,  con  incerto  passo 
Van  dietro  ad  Ate,  ad  emendarla  intese. 
Vigorosa  di  piè  questa  nocentc 
Forte  Dea  le  precorre,  e,  discorrendo 
La  terra  tutta,  l'uman  germe  offende. 

Esse  van  dopo , e degli  offesi  ban  cur.a. 

Chi  rispettoso  queste  Dee  riceve , 

Ne  va  colmo  di  beni  ed  esaudito^ 

Chi  pertinace  le  respinge  indietro. 

Ne  spermcnta  lo  sdegno.  Esse  del  padre 
Si  presentano  al  trono,  e gli  fan  prego, 
Cb’Ate  ratta  inseguisea,  c al  fio  suggelli 
L’inesorato,  che  al  pregar  fu  sordo. 

Trovin  dunque  di  Giove  oggi  le  figlie 
Appo  te  quell’ onor,  eh’ anco  de’ forti 


V,  66i.yoo 


LIBRO  IX 


99 


Piega  le  menti.  Se  al  tuo  piè  di  molti 
Doni  l'ofierta  non  mettesse  Atride 
Coll’  impromessa  di  molt’  altri  poscia , 

E persistesse  in  suo  rancor,  non  io 
T’esorterei  di  por  giù  l’ira,  e all’uopo 
Degli  Àchivi  volar,  comunque  afflitti^ 

Ma  molti  di  presente  egli  ne  porge. 

Ed  altri  poi  ne  profferisce,  e i duci 
Miglior  trascelti  tra  gli  Achei  t’invia, 

E a te  stesso  i più  cari  a supplicarti. 

Non  disprezzarne  la  venuta  e i preghi , 
Onde  l’ira,  che  pria  giusta  pur  era , 

Non  tomi  ingiusta.  Degli  andati  eroi 
Somma  laude  fu  questa,  allor  che  grave 
Li  possedea  cormccio,  alle  preghiere 
Placarsi,  nè  sdegnar  supplici  doni. 

Opportuno  sowiemmi  un  fatto  antico. 
Che,  quale  avvenne,  io  qui  fra  tutti  amici 
Narrerò.  Combattean  ferocemente 
Con  gli  Etdli  i Cureti  anzi  alle  mura 
Di  Calidone,  ad  espugnarla  questi, 

A difenderla  quelli  : e gli  uni  e gli  altri , 
Gente  d’alto  valor,  con  mutue  stragi 
Si  distmggean.  Commossa  avea  tal  guerra 
Di  Diana  uno  sdegno,  e del  suo  sdegno 
Fu  la  cagione  Enéo,  che,  de’ suoi  campi 
Terminata  la  messe,  c offerti  ai  numi 
I consueti  sacrifici , sola 
(Fosse  spregio  od  obblio)  lasciato  avea 
Senza  offerte  la  Diva.  Ella  di  questo 
Altamente  adirata,  un  fero  spinse 
Cinghiai  d’Enéo  ne’ campi,  che,  tremendo. 
Tutte  atterrava  col  fulmineo  dente 
Le  frattifere  piante.  Il  forte  Enidc, 
Meleagro  alla  fin,  dalle  propinque 
Città  raccolto  molto  nerbo  avendo 
Di  cacciatori  e cani , a morte  il  mise  ; 

Nè  minor  forza  si  chiedea  : tant’  era 
Smisurata  la  belva,  e tanti  al  rogo 
N’avea  sospinti.  Ma  la  Dea  pel  teschio 


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aoo 


ILIADE 


*.  70i^jo 


E per  la  pelle  dell’irsuta  fera 
Tra  i Gureti  e gli  Etóli  una  gran  lite 
Suscitò.  Finché  in  campo  il  bellicoso 
Meleagro  comparve,  andàr  disfatti, 

Benché  molti,  i Gureti,  e approssimarse 
Unqua  alle  mirra  non  potean.  Ma  l’ira, 

Ghc  anche  i più  saggi  invade,  il  petto  accese 
Di  Meleagro,  c la  destò  la  madre 
Altea,  che,  forte  pe’fratelli  uccisi 
Grucciosa,  il  Sglio  maledisse^  e il  suolo 
Golle  man  percotendo  , inginocchiata 
E forsennata,  con  orrendi  preghi. 

Di  gran  pianto  confusi,  il  negro  Fiuto 
Supplicava  c la  rigida  moglicra 
Di  dar  morte  all’eroe:  né  dal  profondo 
Orco  fu  sorda  l’ implacata  Erinni. 

Del  materno  furor  sdegnato  il  figlio. 

Lungi  dall' armi  si  ritrasse  in  braccio 
Alla  bella  consorte  Glcopatra, 

Di  Marpissa  Evenina  c del  possente 
Ida  figliuola,  di  quell’ Ida,  io  dico, 

Ghc  tra’ guerrieri  de’ suoi  tempi  il  grido 
Di  fortissimo  avea,  tanto  che  contra 
Lo  stesso  Apollo  per  la  tolta  ninfa 
Ardi  l’arco  impugnar.  Mutato  poscia 
Di  Glcopatra  il  nome,  i genitori 
La  chiamaro  Alci'on,  perché  simile 
Alla  mesta  Alci'on  gemea  la  madre. 

Quando  rapilla  il  saettante  Iddio. 

Gon  gran  furore  intanto  cran  le  porte 
Di  Galidone  e le  turrite  mura 
Gombattute  e percosse.  Eletta  schiera 
Di  venerandi  vegli  c sacerdoti, 

A Meleagro  deputati,  il  prega 
Di  venir,  di  respingere  il  nemico, 

A sua  scelta  offerendo  di  cinquanta 
Jugeri  il  dono,  del  miglior  terreno 
Di  tutto  il  calcdonio  almo  paese. 

Parte  alle  vili  acconcio  c parte  al  solco. 

Molto  egli  pure  il  gcnitor  lo  prega. 


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9.  7151-780 


LIBIO  IX 


aoi 


Dell'adirato  figlio  alle  sublimi 
Soglie  traendo  il  senil  fianco,  e in  voce 
Supplicante  del  talamo  picchiando 
Alle  sbarrate  porte.  Anche  le  suore, 

Anche  la  madre  già  pentita,  orando, 
Chiedean  mercede;  ed  ei  più  fermo  ognora 
La  ricusava.  Accorsero  gli  amici 
I più  cari  e diletti^  e su  quel  core 
Nulla  poteva  degli  amici  il  prego: 

Finché  le  porte  da  sonori  e spessi 
Golpi  battute,  lo  fér  certo  alfine. 

Che  scalate  i Cureti  avean  le  mura, 

E messo  il  foco  alla  città.  Piangente 
La  sua  bella  consorte  allor  si  fece 
A deprecarlo,  ed  alla  mente  tutti 
D'una  presa  città  gli  orrendi  mali 
Gli  dipinse:  trafitti  i cittadini. 

Arse  le  case,  ed  in  catene  i figli 
Strascinati  e le  spose.  Si  commosse 
All'atroce  pensier  l'alma  superba^ 

Prese  l'armi,  volò,  vinse,  e gli  Etóli 
Salvò;  ma  solo  dal  suo  cor  sospinto. 

Quindi  alcun  dono  non  ottenne,  e il  tardo 
Beneficio  rimase  inonorato. 

Non  imitar  cotesto  esempio,  o figlio. 

Nè  vi  ti  spinga  dèmone  maligno; 

Che  il  soccorso  indugiar,  finché  le  navi 
S'incendano,  maggior  onta  sana. 

Vieni;  imita  gli  Dei;  gli  ofierti  doni 
Non  disdegnar.  Se  li  dispregi,  e poscia 
Volontario  combatti,  egual  non  fia. 

Benché  ritorni  vincitor,  l’onore. 

Qui  tacque  il  veglio;  e brevemente  Achille 
In  questi  detti  replicò:  Fenice, 

Caro  alunno  di  Giove , ed  a me  caro 
Padre,  di  questo  onor  non  ho  bisogno. 
L'onor,  ch’io  cerco,  mi  verrà  da  Giove; 

E qui  pure  davanti  a queste  antenne 
L'avrò  fin  che  vitale  aura  mi  spiri. 

Fin  che  il  piè  mi  sorregga.  Altra  or  vo’dirti 


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20a 


ILIADE 


i>.  781 -8>o 


Cosa,  che  in  mente  riporrai.  Per  farti 
Grato  all’Àtride  non  venir  con  pianti, 

Nò  con  lagni  a turbarmi  il  cor  più  mai. 

Non  amar  contra  il  giusto  il  mio  nemico, 

Se  l’amor  mio  t’è  caro,  e meco  offendi 
Chi  m'offende^  chè  questo  ti  sta  meglio. 

Del  mio  regno  partecipa,  c diviso 
Sia  teco  ogni  onor  mio.  Riporteranno 
Questi  le  mie  risposte,  e tu  qui  dormi 
Sovra  morbido  letto.  Ai  nuovo  sole 
Consulterem  se  starci,  0 andar  si  debba. 

Disse;  e a Patróclo  fe  degli  occhi  un  cenno 
D'allestire  al  buon  veglio  un  colmo  letto, 
Onde  gli  altri  a lasciar  tosto  la  tenda 
Volgessero  il  pensiero.  In  questo  mezzo 
Vólto  ad  Ulisse  il  gran  Telamonide: 

Partiam , diss'  egli  ; chè  per  questa  via 
Parmi,  che  vano  il  ragionar  riesca. 

Benché  ingrata,  n'è  forza  il  recar  pronti 
La  risposta  agli  Achei,  che  impazienti, 

E forse  ancora  in  assemblea  seduti. 
L’attendono.  Feroce  alma  superba 
Chiude  Achille  nel  petto  : indegnamente 
L'amistà  de’ compagni  egli  calpesta. 

Nè  ricorda  l’onor,  che  gli  rendemmo 
Su  gli  altri  tutti.  Dispietato  ! 11  prezzo 
Qualcuno  accetta  dell’ucciso  figlio, 

0 del  fratello;  e l’uccisor,  pagata 
Del  suo  fallo  la  pena , in  una  stessa 
Città  dimora  col  placato  offeso. 

Ma  inesorata  ed  indomata  è l’ira, 

Che  a te  pose  nel  petto  un  dio  nemico  ; 

Per  chi?  per  una  donzclletta!  c sette 
Noi  te  n’oifriamo  a maraviglia  belle, 

E molt’ altre  più  cose.  Or  via,  rivesti 
Cor  benigno  una  volta.  Abbi  rispetto 
Ai  santi  dritti  dell’ospizio  almeno; 

Ch’ospiti  tuoi  noi  siamo,  e dal  consesso 
Degli  Achei  ne  venimmo,  a te  fra  tutti 

1 più  cari  ed  amici.  — Illustre  figlio 


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«».  8ai*8Co  LIBRO  IX 

Di  Telamone,  gli  rispose  Achille, 

Ottimo  io  sento  il  tuo  parlar*,  ma  l'ira 
Mi  rigonfia  qualor  penso  a colui. 

Che  in  mezzo  degli  Achei  mi  vilipese 
Come  un  vii  vagabondo.  Andate , e netta 
La  risposta  ridite.  Alcun  pensiero 
Non  tenterammi  di  pugnar,  se  prima 
11  Pri'amide  bellicoso  Ettorre 
Fino  al  quartier  de’Mirmidóni  il  foco 
E la  strage  non  porti.  Ov’egli  ardisca 
Assalir  questa  tenda  e questa  nave. 

Saprò  la  furia  rintuzzarne,  io  spero. 

SI  disse;  e quegli,  alzato  il  nappo  e fatta 
La  libagion,  partirsi;  e taciturno 
Li  precedeva  di  Laerte  il  figlio. 

A' suoi  sergenti  intanto  ed  all’ ancelle 
Patroclo  impone  d’apprestar  veloci 
Soffice  letto  al  buon  Fenice;  e,  pronte 
Quelle  obbedendo , steser  d’  agnelline 
Pelli  uno  strato;  vi  spiegàr  di  sopra 
Di  finissimo  lino  una  sottile 
Candida  tela,  e su  la  tela  un’ampia 
Purpurea  coltre;  c,  qui  ravvolto,  il  vecchio. 
Aspettando  l’ aurora , si  riposa. 

Nel  chiuso  fondo  della  tenda  ei  pure 
Ritirossi  il  Pelide,  ed  al  suo  fianco 
Lesbia  fanciulla  di  Forbanlc  figlia 
Si  coi-có  la  gentil  Diomedòa. 

Dormi  Patrdclo  in  altra  parte;  e a lato 
Ifi  gli  giacque,  un’elegante  schiava, 

Che  il  Peh'dc  donògli  il  dì  che  l’alta 
Sciro  egli  prese,  d’Enieo  cittade. 

Giunti  i legati  al  padiglion  d’Atride, 
Sursero  tutti,  e con  aurate  tazze 
E afibllate  dimande  i prenci  acbivi 
Gli  accolsero.  Primiero  interrogolli 
Il  re  de’  forti , Agamennón  : Preclaro 
Della  Grecia  splendor,  inclito  Ulisse, 

Parla;  vuol  egli  dalle  fiamme  ostili 
Servar  l’armata?  o,  d’ira  ancor  ripieno 


ILliDE 


861-900 


Il  cor  superbo,  di  Tenir  ricusa? 

Glorioso  signor,  rispose  il  saggio 
Di  Laerte  figliuol,  non  che  gli  sdegni 
Ammorzar,  li  raccendo  egli  più  sempre, 

E te  dispregia  e i tuoi  presenti,  e dice, 

Che  del  come  salvar  le  navi  e il  campo 
Co’  duci  achivi  ti  consulti.  Aggiunse 
Poi  la  minaccia,  che  il  novello  sole 
Varar  vedrallo  le  sue  navi^  e gli  altri 
A rimbarcarsi  esorta^  che  dell’alto 
Ilio  l’ occaso  non  vedrem , die’  egli , 

Giammai:  la  mano  del  Tonante  il  copre, 

E rincoràrsi  i Teucri.  Ecco  i suoi  sensi. 

Che  questi  a me  consorti,  il  grande  Ajace 
E i saggi  araldi,  confermar  ti  ponno. 

Il  vegliardo  Fenice  è là  rimasto 
Per  suo  cenno  a dormir,  onde  dimani 
Seguitarlo,  se  il  vuole,  al  patrio  lido: 

Non  farà  forza  al  suo  voler,  se  il  niega. 

D’alto  stupor  percossi  «Ila  feroce 
Risposta,  tutti  ammutolirò  i duci, 

E lunga 'pezza  taciturni  e mesti 
Si  restar.  Finalmente  in  questi  detti 
Proruppe  il  fiero  Diomede:  Elccelso 
Sire  de’prodi , glorioso  Atride, 

Non  avessi  tu  mai  nè  supplicato. 

Nè  fatta  ofierta  di  cotanti  doni 
All’altero  Peh'de.  Era  superbo 
Egli  già  per  sè  stesso^  or  tu  n’hai  fatto 
Montar  l’orgoglio  più  d’assai.  Ma  vada, 

O rimanga,  di  lui  non  più  parole. 

Lasciam,  che  il  proprio  genio,  o qualche  iddio 
Lo  ridesti  alla  pugna.  Or  secondiamo 
Tutti  il  mio  dir:  di  cibo  c di  fico. 

Fonte  d’ogni  vigor,  vi  ristorate, 

E nel  sonno  immergete  ogni  pensiero. 

Tosto  che  schiuda  del  raattin  le  porte 
Il  roseo  dito  della  bella  Aurora, 

Metti  in  punto,  o gran  re,  fanti  c cavalli 
Nanzi  alle  navi,  e a ben  pugnar  gl* istiga; 


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901-906  tniRO  IX  2o5 

E combatti  tu  stesso  alla  lor  testa. 

Disse ^ e tutti  applaudir,  lodando  a cielo 
L’alto  parlar  di  Diomede  i regi; 

E,  fatti  i libamenti,  alla  sua  tenda 
S’ incamminò  ciascuno.  Ivi  le  stanche 
Membra  accolser  del  sonno  il  dolce  dono. 


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LIBRO  DECIMO 


ARCOMBRTO 


AgaffieoDonv,  inquieto  donate  U notte,  iv^lia  i dori,  • cootulu  eoo  loro  di  nundan  aj- 
f UDO  ad  esplunre  il  campo  nemico.  Ulisie  e Diomede  preodooo  «pra  di  lè  U carico  dell’  im* 
pma.  Ettuf*,  Iiramom  di  upcre  te  i Greci,  rotti  nella  prrcedetrle  giornata , penriao  di  fug- 
gire e tnacurino  le  veglie  nuiturne , manda  aoch*  egli  un  esploratore  nel  loro  campo  ; ed  è 
questi  un  certo  Dolone.  Incontro  di  costui  cogli  croi  greci , a cui  egli  dà  con  lena  dello  sUto 
attinie  dei  Troiani  e dei  loro  alleati.  Morte  datagli  «la  Diomede,  non  ostante  la  promessa 
lattagli  da  Ulisse  di  salvargli  la  vita.  1 due  capitani , istrutti  da  Dolooe , si  aTansaoo  Suo  allo 
•quadrone  de’  Traci,  che  sono  immeni  nel  sonno;  ne  uccidono  molti  insieme  col  re  loro 
chiameto  Reso,  di  cui  ria  si  menano  i cavalli  ; e fanno  ritorno  alle  nari. 


Tutti  per  l’alta  notte  i duci  achei 
Dormi'an  sul  lido  iu  sopor  molle  avvinti^ 

Ma  non  l’Atride  Agamennòn,  cui  molti 
Toglieano  il  dolce  sonno  aspri  pensieri. 
Quale  il  marito  di  Giunon  lampeggia , 
Quando  prepara  una  gran  piova  o grandine  , 
O folta  neve  ad  inalbare  i campi, 

O fracasso  di  gnerra  voratrice^ 

Spessi  cosi  dal  scn  d'Agamennónc 
Rompevano  i sospiri,  e il  cor  tremava. 

Volge  lo  sguardo  alle  trojane  tende, 

E stupisce  mirando  i molti  fuochi, 

Ch’  ardon  dinanzi  ad  Ilio , c non  ascolta 
Che  di  tibie  la  voce  e di  sampogne, 

E festivo  fragor.  Ma  quando  il  campo 
Acheo  contempla  ed  il  tacente  lido, 

Svcllesi  il  crine,  al  ciel  si  lagna,  cd  allo 
Geme  il  egr  generoso.  Alfin  gli  parve 
Questo  il  miglior  consiglio:  ir  del  Nclidc 
Nèstore  in  traccia  a consultarne  il  senno, 


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V.  ai*6o 


ILIADK,  LIBRO  X 

Onde  qualcuna  divisar  con  esso 
Via  di  salute  alla  fortuna  achea.  ) 

Alzasi  in  questa  mente;  intorno  al  petto  ‘ 
La  tunica  s’avvolge,  ed  imprigiona  ’ 

Ne’  bei  calzari  il  piede.  Indi  una  fulva 
Pelle  s’indossa  di  leon,  che  larga  . , 

Gli  discende  al  calcagno,  e l’asta  impugna. 

Nè  di  minor  sgomento  a Menelao 
Palpita  il  petto;  e fura  agli  occhi  il  sonno 
L’  egro  pensier  de’  periglianti  Àchivi , 

Che  a sua  cagione  avean  per  tanto  mare 
Portato  ad  Ilio  temeraria  guerra. 

Sul  largo  dosso  gittasi  veloce 
Una  di  pardo  maculata  pelle; 

Ponsi  l’elmo  alla  fronte;  e,  via  brandito 
11  giavellotto,  a risvegliar  s’affretta 
L’ onorato , qual  nume , e dagli  Argivi 
Tutti  obbedito  imperador  germano; 

Ed  alla  poppa  della  nave  il  trova. 

Che  le  bell’  armi  in  fretta  si  vcstia. 

Grato  ei  n’ebbe  l’arrivo;  e Menelao 
A lui  primiero:  Perchè  t’armi,  disse. 
Venerando  fratello?  Alcun  vuoi  forse 
Mandar  de’  nostri  csplorator  notturno 
Al  campo  de’  Trojani?  Assai  tem’io. 

Che  alcuno  imprenda  d'arrischiarsi  solo 
Per  lo  bujo  a spiar  l’oste  nemica; 

Chè  molta  vuoisi  audacia  a tanta  impresa. 

Rispose  Agamennón:  Fratello,  è d’uopo 
Di  prudenza  ad  entrambi  e di  consiglio. 
Che  gli  Argivi  ne  scampi  e queste  navi. 

Or  che  di  Giove  si  voltò  la  mente, 

E d’Ettore  ha  preferti  i sacriGci; 

Ch'io  nè  vidi  giammai,  nè  d’altri  intesi. 
Che  un  solo  in  un  sol  di  tanti  potesse 
Forti  fatti  operar,  quanti  il  valore 
Di  questo  Ettorre  a nostro  danno;  e a lui 
Non  fu  madre  una  Dea,  nè  padre  uu  Dio. 

E temo  io  ben,  che  lungamente  afflitti 
Di  tanto  strazio  piangeran  gli  Achivi. 


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308 


lUiDE 


■V  61-100 


Or  tu  ranne,  c d’Ajace  e Idomenéo 
Ratto  vola  alle  navi,  c li  risveglia^ 

Gfaè  a Nèstore  io  ne  vado  ad  esortarlo 
Di  tosto  alzarsi,  c di  seguirmi  al  sacro 
Stuol  d,:llc  guardie,  e comandarle.  À lui 
Pres'Èran,  più  che  ad  altri,  obbedienza^ 
Pcroccbè  delle  guardie  è capitano 
Trasimède,  suo  figlio,  c Mcrìonc, 

D’ Idomenéo  l’amico;  a’  quai  commesso 
È delle  scolte  il  principal  pensiero. 

E che  poi  mi  prescrive  il  tuo  comando? 
(Replicò  Menelao.)  Degg’io  con  essi 
Restarmi  ad  aspettar  la  tua  venuta? 

O,  fatta  l’imbasciata,  a te  veloce 
Tornar?  Rimanti,  Agamennón  ripiglia; 

Tu  rimanti  colà;  chò  disviarci 
Nell’ andar  nc  potri'an  le  molte  strade. 

Onde  il  campo  è interrotto.  Ovunque  inUnto 
Tavvegna  di  passar,  leva  la  voce; 
Raccomanda  le  veglie;  ognun  col  nome 
Chiama  del  padre  c della  stirpe;  a tutti 
Largo  ti  mostra  d’onoranze,  e poni 
L’alterezza  in  obblio.  Prendiam  con  gli  altri 
Parte  noi  stessi  alla  comun  fatica; 

Perché  Giove  noi  pur  fin  dalla  cuna, 

Benché  regi , gravò  d’  alte  sventure. 

Cosi  dicendo,  in  via  mise  il  fratello 
Di  tutto  l’uopo  ammaestrato;  ed  esso 
A Nèstore  avviassi.  Ritrovollo 
Davanti  alla  sua  nave  entro  la  tenda 
Corco  in  morbido  letto.  A sé  vicine 
Armi  diverse  avea,  lo  scudo  e due 
Lungh’astc  e il  lucid’clmo;  c non  lontana 
Giacca  di  vario  lavorio  la  cinta, 

Di  che  il  buon  veglio  si  fasciava  il  fianco. 
Quando  a battaglie  sanguinose  armato 
Le  sue  schiere  mevea;  clié  non  aucorn 
Alla  trista  vecchiezza  egli  perdona. 

All’ apparir  d’Atridc,  erto  ei  rizzossi 
Sul  cubito;  c,  levala  alto  la  fronte, 


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LIBRO  X 


ioi-i4o 

L’interrogò,  dicendo:  E cbi  sei  tu, 

Che  pel  campo  ne  vieni  a queste  navi 
Così  soletto  per  la  notte  oscura. 

Mentre  gli  altri  mortali  han  tregua  e sonno? 
Forse  alcun  de’  veglienti  o de’  compagni 
Vai  rintracciando?  Parla,  c taciturno 
Non  appressarti:  che  ricerchi?  — E a lui 
Il  regnatore  Àtride:  O degli  Achei 
Inclita  luce.  Nèstore  Nelide, 

Àgamennón  son  io,  cui  Giove  opprime 
D’infinito  travaglio;  e fia,  che  duri 
Finché  avrà  spirto  il  petto  e moto  il  piede. 
Vagabondo  ne  vo,  poiché  dal  ciglio 
Fuggemi  il  sonno,  e il  rio  pensier  mi  grava 
Di  questa  guerra  e della  clade  achea. 
De’Oinai  il  rischio  mi  spaventa;  inferma 
Stupidisce  la  mente;  il  eor  mi  fugge 
Da’  suoi  ripari;  e tremebondo  é il  piede. 

Tu  se  cosa  ne  mediti,  che  giovi 
(Quando  il  sonno  s’invola  anco  a’ tuoi  lumi). 
Sorgi,  e alle  guardie  discendiam.  Veggiamo, 
Se  da  veglia  stancate  e da  fatica 
Siensi  date  al  dormir,  posta  in  obblio 
La  vigilanza.  Del  nemico  il  campo 
Non  é lontano  ; né  sappiam , s’  ci  voglia 
Pur  di  notte  tentar  qualche  conflitto. 

Disse;  e il  gerenio  cavalier  rispose: 
Agamennone,  glorioso  Atridc, 

Non  tutti  adempirà  Giove  pietoso 

I disegni  d’Ettorre  e le  speranze. 

Ben  più  vero  cred’io,  che  molti  affanni 
Sudar  d’  ambascia  gli  faran  la  fronte. 

Se  destcrassi  Achille,  e la  tenace 
Ira  funesta  scuoterà  dal  petto. 

Or  io  volonteroso  ecco  ti  seguo  : 

Andiannc;  risvcgliam  dal  sonno  iduci 
Diomede  cd  Ulisse,  ed  il  veloce 
Ajace  d’Oiléo,  c di  Filco 

II  forte  figlio;  e si  spedisca  intanto 
Alcun  di  tutta  fretta  a richiamarne 

Mosti.  Iliade. 


'4 


aio 


Pur  l'altro  Ajace,  e Idomenco,  che  lungi 
Àgli  estremi  del  campo  hanno  le  navi. 

Ma  quanto  a Menelao,  benché  ne  sia 
D'onor  degno  ed  amico,  io  non  terrommi 
Di  rampognarlo  (ancor  che  debba  il  franco 
Mio  parlare  adirarti),  c vergognarlo 
Farò  del  suo  poltrir,  tutte  lasciando 
A te  le  cure , or  eh'  è mestier  di  ressa 
Con  tutti  i duci  e d’ogni  umil  preghiera, 
Come  crudcl  necessità  dimanda. 

Ben  altra  volta  (Agamennón  rispose  ) 

Ti  pregai  d’ ammonirlo,  o saggio  antico^ 
Chè  spesso  ci  posa,  e di  fatica  è schivo^ 
Per  pigrezza  non  già,  nè  per  difetto 
D'accorta  mente,  ma  perchè  mici  cenni 
Meglio  aspettar,  che  antivenirli,  ci  crede. 
Pur  questa  volta  mi  precorse,  e innanzi 
Mi  comparve  improvviso^  ed  io  l’ho  spinto 
A chiamarne  i guerrieri,  che  tu  cerchi. 
Andiamo  chè  tutti  fra  le  guardie,  avanti 
Alle  porte  del  vallo,  congregati 
Li  b'overem^  chè  tale  è il  mio  comando. 

E Nèstore  a rincontro:  Or  degli  Achei 
Niun  ritroso  a lui  Ila,  nè  disdegnoso 
O comandi,  od  esorti.  — In  questo  dire 
La  tunica  s’avvolge  intorno  al  petto ^ 

Al  terso  piede  i bei  calzari  annoda  ; 

Quindi  un’  ampia  s’ affibbia  c porporina 
Clamide  doppia,  in  cui  Gorìa  la  felpa. 

Poi  recossi  alla  man  l’acuta  c salda 
Lancia,  e verso  le  navi  incamminossi 
De’  loricati  Achivi.  E primamente 
Svegliò  dal  sonno  il  sapiente  Ulisse, 
Elevando  la  vocc^  e a lui  quel  grido 
Feri  l’orecchio  appena,  che  veloce 
Della  tenda  n’  usci  con  questi  accenti  : 

Chi  siete,  che  soletti  errando  andate 
Presso  le  navi  per  la  dolce  notte? 

Qual  vi  spinge  bisogno?  — O di  Laerte 
Magnanimo  Ggliuol,  prudente  Ulisse, 


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LIBRO  X 


21  I 


(Gli  rispose  (li  Pilo  il  cavaliero) 

Non  isdegnarti,  c del  dolor  ti  caglia 
De’  travagliali  Achei  : vieni  ^ chè  un  altro 
Svegliarne  è d’  uopo , e consultar  con  esso 
O la  fuga  o la  pugna.  — A questo  detto 
Rientrò  l'itacense  nella  tenda; 

Sul  tergo  si  gittò  lo  scudo,  e venne. 

Proseguirò  il  cammin  quindi  alla  volta 
Di  Diomede,  c lo  trovar  di  tutte 
L’  armi  vestito , e fuor  del  padiglione. 

Gli  dormiano  dintorno  i suoi  guerrieri 
Profondamente,  e degli  scudi  al  capo 
S’ avean  fatto  origlier.  Fitto  nel  suolo 
Stassi  il  calce  dell’ aste,  e il  ferro  in  cima 
Mette  splendor  da  lungi,  a simiglianza 
Del  baleno  di  Giove.  Esso  l’eroe 
Di  bue  selvaggio  sulla  dura  pelle 
Dormi'a  disteso,  ma  purpureo  e ricco 
Sotto  il  capo  regale  era  un  tappeto. 
Giuntogli  sopra,  il  cavalicr  toccuUo 
Colla  punta  del  piè,  lo  spinse;  e,  forte 
Garrendo,  lo  destò:  Sorgi,  Tidide: 

Perchè  ne  sfiori  tutta  notte  il  sonno? 

Non  odi,  che  i Trojani  in  campo  stanno 
Sovra  il  colle  propinquo,  e che  disgiunti 
Di  poco  spazio  dalle  navi  ei  sono? 

Disse;  è quei  si  destò , balzando  in  piedi 
Veloce  come  lampo;  e,  a lui  rivolto. 

Con  questi  accenti  rispondea:  Sei  li'oppo 
Delle  fatiche  tollerante,  o veglio. 

Nè  ozioso  giammai.  A risvegliarne 
Di  (piest’ora  i re  duci  inopia  forse 
’lTha  di  giovani  achei  pronti  alla  ronda? 
Ma  tu  sei  veglio  infaticato  c strano. 

E Nèstore  di  nuovo:  Illustre  amico. 

Tu  verace  parlasti  e generoso. 

Padre  io  mi  son  d’egregi  figli,  e duce 
Di  molti  prodi,  che  potrian  le  veci 
Pur  d’  araldo  adempir.  Ma  grande  or  preme 
Necessità  gli  Àchivi,  e morte  e vita 


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a 1 2 


ILIADE 


V.  2»i-a6o 


Stanno  sul  taglio  della  spada.  Or  vanne 
Tu,  che  giovine  sci,  vanne,  e il  veloce 
Chiamami  Ajacc  e di  Filéo  la  prole. 

Se  pietà  senti  del  mio  tai-do  piede. 

Così  parla  il  vegliardo.  E Diomede 
Soli’  omero  si  getta  una  rossiccia 
Capace  pelle  di  lion,  cadente 
Fino  al  tallone,  ed  una  picca  impugna. 
Andò  l’eroe,  volò,  dal  sonno  entrambi 
Li  destò,  li  condusse-,  c tutti  in  gruppo 
S’ avviar  delle  guardie  alle  caterve: 

Nè  delle  guardie  abbandonato  al  sonno 
Duce  alcuno  trovàr,  ma  vigilanti 
Tutti  ed  armati  e in  compagnia  seduti. 
Come  i 6di  molossi  al  pecorile 
Fan  travagliosa  sentinella,  udendo 
Calar  dal  monte  una  feroce  belva , 

E stormir  le  boscaglie;  un  gran  tumulto 
S’ alza  sovr’  essa  di  latrati  e gridi, 

E si  rompe  ogni  sonno  ; così  questi , 

Rotto  il  dolce  sopor  su  le  palpebre. 

Notte  vegliano  amara,  ognor  del  piano 
Alla  parte  conversi,  ove  s’udisse 
Nemico  calpestio.  Gioinne  il  veglio, 

E confortolli , e disse  : Vigilate 
Così  sempre,  o miei  figli,  c non  si  lasci 
Niun  dal  sonno  allacciar,  onde  il  Trojano 
Di  noi  non  rida.  Cosi  detto,  il  varco 
Passò  del  fosso,  c lo  scguièno  i regi 
A consiglio  chiamati.  A lor  s’aggiunse 
Compagno  Merione,  e di  Nestorre 
L’inclito  figlio,  convocati  anch’ essi 
Alla  consulta.  Valicato  il  fosso. 

Fermarsi  in  loco  dalla  strage  intatto. 

In  quel  loco  medesmo,  ove  sorgiunto 
Ettore  dalla  notte  aHa  crudele 
Uccisione  ilcgli  Achei  fin  pose. 

Quivi  seduti,  cominciar  la  somma 
A parlar  delle  cose;  e in  questi  detti 
Nèstore  aperse  il  parlamento:  Amici, 


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LIBRO  T 


r.  96i*3oo 


Hawi  alcuna  tra  voi  anima  ardita 
E in  sè  sicura,  che  furtiva  ir  voglia 
' De’  fier  Trojani  al  campo,  onde  qualcuno 
De'  nemici  vaganti  alle  trinciere 
Far  prigioniero?  o tanto  andar  vicino, 

Che  alcun  discorso  de'  Trojani  ascolti, 

E ne  scopra  il  pensier?  se  sia  lor  mente 
Qui  rimanersi  ad  assediar  le  navi, 

O alla  città  tornarsi , or  che  domata 
Han  l'achiva  possanza?  Ei  forse  tutte 
Potria  raccor  tai  cose,  c ritornarne 
Salvo  ed  illeso.  D'alta  fama  al  niondo 
Farebbe  acquisto,  e n'ottem'a  bel  dono. 
Quanti  son  delle  navi  i capitani. 

Gli  daranno  una  negra  pecorella 
Coll'agnello  alla  poppa ^ e guiderdone 
Alcun  altro  non  v'ha,  che  questo  adegui. 
Poi  ne'  conviti  e ne'  banchetti  ei  fia 
Sempre  onorato,  desiato  e caro. 

Disse;  e tutti  restar  pensosi  c muti. 
Ruppe  l'alto  silenzio  il  bellicoso 
Diomede,  e parlò:  Saggio  Nelide, 

Quell' audace  son  io:  me  la  fidanza, 

Me  l'ardir  persuade  al  gran  periglio 
D' insinuarmi  nel  dardanio  campo. 

Ma  se  meco  verranno  altro  guerriero, 
Securtà  cresccrammi  ed  ardimento. 

Se  due  ne  vanno  di  conserva,  l'uno 
Fa  l'altro  accorto  del  miglior  partito. 

Ma  d'un  solo,  sebben  veggente  c prode. 
Tardo  è il  coraggio  c debole  il  consiglio. 

Disse;  e molti  volean  di  Diomede 
Ir  compagni:  il  volean  ambo  gli  Ajaci, 

11  volea  Merion;  più  ch'altri,  il  figlio 
Di  Nestore  il  volea;  cbiedcalo  ancb'esso 
L’Atride  Menelao;  cbiedea  del  pari 
Penetrar  ne'  trojani  accampamenti 
D forte  Ulisse;  perocché  nel  petto 
Sempre  il  cor  gli  volgca  le  ardite  imprese. 

Mosse  allor  le  parole  il  grande  Atride: 


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1LUDB 


3oi  -B'io 


Diletto  Diomede,  a tuo  talento 
Un  compagno  ti  scegli  a sì  grand’uopo, 
Qual  ti  sembra  il  miglior.  Molti  nc  vedi 
Presti  a seguirti;  nè  verun  rispetto 
La  tua  scelta  governi;  onde  non  sia 
Che  lasciato  il  miglior,  pigli  il  peggiore: 
Nè  li  freni  pudor,  nè  riverenza 
Di  lignaggio,  nè  s’altri  è re  più  grande. 

Cosi  parlava,  del  fi'atcllo  amato 
Paventando  il  periglio:  e fca  risposta 
Diomede  cosi:  Se  d’un  compagno 
Mi  comandate  a senno  mio  l’  eletta , 

Come  scordarmi  del  divino  Ulisse, 

Di  cui  provato  è il  cor,  1’  alma  costante 
Nelle  fatiche,  c che  di  Palla  è amore? 

S’  ei  meco  ne  verrà , di  mezzo  ancora 
Alle  fiamme  uscirem:  cotanto  è saggio. 

Non  mi  lodar  nè  mi  biasmar,  Tididc, 
Soverchiamente  (gli  rispose  Ulisse); 

Chè  tu  parli  nel  mezzo  ai  consci  Argivi. 
Partiam:  la  notte  se  ne  va  veloce; 

Delle  stelle  il  languir  l’alba  n’avvisa; 

Nè  dell’  ombre  riman,  che  il  terzo  appena. 

D’ armi  orrende  , ciò  detto , si  vestirò. 

A Diomede,  che  il  suo  brando  avea 
Obbliato  alle  navi,  altro  ne  diede 
Di  doppio  taglio,  cd  il  suo  proprio  scudo 
Il  forte  Trasimede.  Indi  alla  fronte 
Una  celata  gli  adattò  di  cuojo 
Taurin  compatta,  senza  cono  e cresta, 
Che  barbuta  si  noma,  e copre  il  capo 
De’  giovinetti.  Merione  a gara 
D’una  spada,  d’un  arco  e d’un  turcasso 
Ad  Ulisse  fe  dono,  e su  la  testa 
Un  morion  gli  pose  aspro  di  pelle , 

Da  molte  lasse  nell’  interno  tutto 
Saldamente  frenato,  e nel  di  fuore 
Di  bianchissimi  denti  rivestito 
Di  zannuto  cinghiai,  tutti  in  ghirlanda 
Con  vago  lavorio  disposti  e folti. 


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Grosso  feltro  il  cncuzzulo  guamia. 

L’avea  furato  in  Eleona  un  giorno 
Àutólico  ad  Amintore  d’Ormcno, 

Della  casa  rompendo  i saldi  muri; 

Quindi  il  ladro  in  Scandéa  diello  al  Ciléi-io 
Amfidamante;  AmBdamantc  a Molo 
Ospitai  donamento^  e questi  poscia 
Al  6glio  Meri'on,  che  su  la  fìvnte 
Alfin  lo  pose  dell'  astuto  Ulisse. 

Racchiusi  nelle  orrende  arme  gli  eroi 
Partir,  lasciando  in  quel  recesso  i duci. 

E da  man  destra  intanto  su  la  via 
Spedì  loro  Minerva  un  airone. 

Nè  già  questi  il  vedean  ; chè  agli  occhi  il  vieta 
La  cieca  notte,  ma  n'udian  lo  strido. 

Di  quell’augurio  l’Itacense  allegro, 

A Minerva  drizzò  questa  preghiera: 

Odimi,  o figlia  dell’ Egioco  Giove, 

Che  l’ opre  mie  del  tuo  nume  proteggi , 

Nè  t’è  veruno  de’  mici  passi  occulto; 

Or  tu  benigna  più  che  prima,  o Dea, 

Dell’ amor  tuo  ra’ affida,  e ne  concedi 
Glorioso  ritorno  e un  forte  fatto, 

Tale,  che  renda  dolorosi  i Teucri. 

Pregò  secondo  Diomede,  e disse; 

Di  Giove  invitta  armipotente  figlia, 

Odi  adesso  me  pur:  fausta  mi  segui 
Siccome  allor  che  seguitasti  a Tebe 
Il  mio  divino  genitor  Tidéo, 

De’  loricati  Achivi  ambasciadore 
Attendati  d’Asopo  alla  riviera. 

Di  placido  messaggio  egli  a’  Tebani 
Fu  portator;  ma  fieri  fatti  ci  fece 
Nel  suo  ritorno  col  favor  tuo  solo; 

Chè  nume  amico  gli  venivi  al  fianco. 

E tu  propizia  a me  pur  vieni,  o Dea, 

E salvami.  Sull’ara  una  giovenca 
Ti  ferirò  d’un  anno,  ampia  la  fronte, 

Ancor  non  doma,  ancor  del  giogo  intatta: 
Questa  darotli,  e avrà  dorato  il  corno. 


ai6  ILliDK  ».  38l4>o 

Così  pregaro^  e gli  esandi'a  la  Diva. 

Implorata  dì  Giove  la  possente 
Figlia  Minerva,  proseguir  la  via 
Quai  due  lìoni,  per  la  notte  oscura, 

Per  la  strage,  per  l’armi  e pe’  cadaveri 
Sparsi  in  morta  di  sangue  atra  laguna. 

Nè  d'altra  parte  ai  forti  Teucri  Ettorre 
Permette  il  sonno^  ma  de’  prenci  e duci 
Chiama  tutti  i migliori  a parlamento; 

E,  raccolti,  lor  apre  il  suo  consiglio: 

Chi  di  voi  mi  promette  un’  alta  impresa 
Per  grande  premio,  che  il  farà  contento? 

Darogli  un  cocchio,  e di  cervice  altera 
Due  corsieri , i miglior  dell’  oste  achea , 

(Taccio  la  fama,  che  n’avrà  nel  mondo). 

Questo  dono  otterrà  chiunque  ardisca 
Appressarsi  alle  navi,  e cauto  esplori 
Se  sian,  qual  pria,  guardate,  o pur,  se  domo 
Da  nostre  forze  l’inimico  or  segga 
A consulta  di  fuga,  e le  notturne 
Veglie  trascuri  affaticato  e stanco. 

Disse;  e il  silenzio  li  fe  tutti  muti. 

Era  un  certo  Dolone  inira’  Trojani, 

Uom , che  di  bronzo  e d’ oro  era  possente , 

Figlio  d’Eumede  banditor  famoso, 

Deforme  il  volto,  ma  veloce  il  piede, 

E fra  cinque  sirocchie  unico  e solo. 

Si  trasse  innanzi  il  tristo,  e così  disse: 

Ettore,  questo  cor  l’ incarco  assume 
D’avvicinarsi  a quelle  navi,  e tutto 
Scoprir.  Lo  scettro  mi  solleva , e giura , 

Che  l'eneo  cocchio  c i corridori  istcssi 
Del  gran  Pch'dc  mi  darai:  nè  vano 
Esploratore  io  ti  sarò:  nè  vota 
Fia  la  tua  speme.  NcH’acheo  steccato 
Penetrerò  ; mi  spingerò  fin  dentro 
L’agamcnuónia  nave,  ove  a consulta 
Forse  i duci  si  stan  di  pugna  o fuga. 

Sì  disse;  e l’altro  sollevò  lo  scettro, 

E giurò  : Testimon  Giove  mi  sia , 


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. fi.  4ti-46o  LiBso  X ai7 

Giore  il  tonante  di  Ginnon  marito, 

Che  da  que’  bei  corsieri  altri  tirato 
Non  Terrà  de’  Trojani,  c che  tu  solo 
Glorioso  n’andrai.  — Fu  questo  il  giuro, 

Ma  sperso  all’aura;  e da  quel  giuro  intanto 
Incitato  Dolone,  in  su  le  spalle 
Tosto  l’arco  gittossi,  e la  persona 
Della  pelle  vesti  di  bigio  lupo; 

Poi  chitise  il  brutto  capo  entro  un  elmetto, 

Che  d’ispida  faina  era  munito. 

Impugnò  un  dardo  acuto;  ed  alle  navi. 

Per  non  più  ritornarne  apportatore 
Di  novelle  ad  Ettorre,  incamminossi. 

Lasciata  de’  cavalli  e de’  pedoni 
La  compagnia,  Dolon  spedito  e snello 
Battea  la  strada.  Se  n’  accorse  Ulisse 
Alla  pesta  de’  piedi , e a Diomede 
Sommesso  favellò:  Sento  qualcuno 
Venir  dal  campo,  nè  so  dir  se  spia 
Di  nostre  navi,  o spogliator  di  morti. 

Lasciam,  che  via  trapassi,  e gli  saremo 
Ratti  alle  spalle,  e il  piglierem.  Se  avvegna, 

Ch’ei  di  corso  ne  vinca,  tu  coll’asta 
Indefesso  l’incalza,  e verso  il  lido 
Serralo  si,  che  alla  città  non  fugga. 

Uscir  di  via,  ciò  detto,  e s’appiattaro 
Tra’  morti  corpi;  ed  egli  incauto  e celere 
Oltrepassò.  Ma  lontanato  appena. 

Quanto  è un  solco  di  mule  (che  de’  buoi 
Traggono  meglio  il  ben  connesso  aratro 
Nel  profondo  maggese),  gli  fur  sopra; 

Ed  egli,  udito  il  calpestio,  ristette. 

Qualcun  sperando,  che  de’  suoi  venisse 
Per  comando  d’ Ettorre  a richiamarlo. 

Ma  giunti  d’asta  al  tiro  e ancor  più  presso. 

Li  conobbe  nemici.  Allor  dier  lesti 
L’uno  alla  fuga  il  piè,  gli  altri  alla  caccia. 

Qual  due  d’aguzzo  dente  esperti  bracchi 
O lepre  o capriol  pel  bosco  incalzano 
Senza  dar  posa,  ed  ei  precorre  e bela; 


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jjl8  ILIADE  I».  ^6i-5tK>  • 

Tali  Ulisse  e il  Tidi'de  all’  infelice 
Si  stringono  inseguendo,  e precidendo 
Sempre  ogni  scampo.  E già  nel  suo  fuggire 
Verso  le  navi  sul  momento  egli  era 
Di  mischiarsi  alle  guardie,  allor  che  lena 
Crebbe  Minerva  e forza  a Diomede^ 

Onde  niun  degli  Achei  vanto  si  désse 
Di  ferirlo  primiero,  egli  secondo. 

Alza  l’asta  l’eroe:  Ferma,  gridando, 

0 ch’io  di  lancia  ti  raggiungo,  e uccido. 

Vibra  il  telo  in  ciò  dir,  ma  vibra  in  fallo 
A bello  studio:  gli  strisciò  la  punta 

L’ òmero  destro,  e conficcossi  in  terra. 

Ristette  il  fuggitivo , c di  paura 
Smorto  tremando,  della  bocca  usci'a 
Strìder  di  denti,  ebe  batteauo  insieme. 

L’  aggiungono  anelanti  i due  guerrieri. 

L’afferrano  alle  mani*,  ed  ei,  piangendo, 

Grida;  Salvate  questa  vita,  ed  io 
Riscatterolla.  Ho  gran  ricchezza  in  casa 
D’oro,  di  rame  e lavorato  ferro. 

Di  questi  il  padre  mio,  se  nelle  navi 
Vivo  mi  sappia  degli  Achei , faravvi 
Per  la  mia  libertà  dono  infinito. 

Via,  fa  cor,  rìspondea  lo  scaltro  Ulisse; 

Nè  veruno  di  morte  abbi  sospetto, 

Ma  dinne,  c sii  verace:  Ed  a qual  fine 
Dal  campo  te  ne  vai  verso  le  navi 
Tutto  solingo  pel  notturno  bujo 
Mentre  ogni  altro  mortai  nel  sonno  ba  posa? 

A spogliar  forse  estinti  corpi?  o forse 
Ettor  ti  manda  ad  isp'iar  de’  Greci 

1 navili,  i pensieri,  i portamenti?  ni 

O tuo  genio  ti  mena  e tuo  diletto?  • 

E a lui  tremante  di  terror  Dolone  : 

Misero!  mi  travolse  Ettore  il  senno, 

E in  gran  disastro  mi  cacciò,  giurando. 

Che  in  don  m’avrebbe  del  famoso  Achille 
Dato  il  cocchio  e i desti'icrì  a questo  patto. 

Ch'io  di  notte  traessi  all’ inimico 


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LIBRO  Y 


501.5^0 


319 


Ad  esplorar,  se,  come  pria,  gnardate 
Sien  le  navì^  o se  voi , dal  nostro  ferro 
Domi,  leniate  del  fuggir  eonsiglio. 

Schivi  di  veglie,  e di  fatica  oppressi. 

Sorrise  Ulisse,  c replicò:  Gran  dono 
Certo  ambiva  il  tuo  cor,  del  grande  Achille 
I destrier.  Ma  domarli  c cavalcarli 
Uom  mortale  non  può,  tranne  il  Pelide, 

Cui  fu  madre  una  Dea.  Ma  questo  ancora 
Contami,  e non  mentire:  Ove  lasciasti. 

Qua  venendoti , Ettorre  ? ove  si  stanno 
I suoi  guerrieri  arnesi  ? ove  i cavalli  ? 

Quai  son  de’  Teucri  le  vigilie  e i sonni? 

Quai  le  consulte?  Bloccheran  le  navi? 

0 in  Ilio  torneran,  vinto  il  nemico? 

Gli  rispose  Dolon:  Nulla  del  vero 

Ti  tacerò.  Co’  suoi  più  saggi  Ettorre 
In  parte  da  rumor  scevra  e sicura 
Siede  a consiglio  al  monumento  d’IIo. 

Ma  le  guardie,  0 signor,  di  che  mi  chiedi. 

Nulla  del  campo  alla  custodia  è fissa; 

Che  quanti  in  Ilio  han  focolar,  costretti 
Son  cotesti  alla  veglia,  e a far  la  scolta 
S’esortano  a vicenda.  Ma  nel  sonno 
Tutti  giaccion  sommersi  i collegati. 

Che  , da  diverse  rcgion  raccolti , 

Nè  figli  avendo  nè  consorte  al  fianco, 

Lasciano  ai  Teucri  delle  guardie  il  peso. 

Ma  dormon  essi  co’  Trojan  confusi 
(Ripiglia  Ulisse),  o segregati?  Parla; 

Ch'io  vo’  saperlo.  — E a lui  d’Cumcde  il  figlio: 
Ciò  pure  ti  sporrò  schietto  e sincero. 

Quei  della  Caria,  ed  i Peonj  arcieri, 

1 Lelegi,  i Caucòni  ed  i Pclasghi 

Tutto  il  piano  occupar,  che  al  mare  inchina; 

Ma  il  pian  di  Timbra  i Licj  e i Misj  alteri 
E i frigi  cavalieri,  e con  gli  equestri 
Lor  drappelli  i Meonj.  Ma  dimando 
Tante  perchè?  Se  penetrar  vi  giova 
Nel  nostro  campo,  ecco  il  quarticr  de’  Traci, 


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lao 


ILIiDE 


r.  S4l.S8o 


Alleati  novelli,  che  divisi 
Stansi  ed  estremi.  Han  dace  Reso,  il  Gglio 
D’ Biondo;  e a lui  vid’io  destrieri 
Di  gran  corpo  ammirandi  e di  bellezza, 
Una  neve  in  candor,  nel  corso  un  vento. 
Monta  un  cocchio  costui  tutto  commesso 
D'oro  e d’argento,  e smisurata  e d’oro 
(Maraviglia  a vedersi!)  è l’armatura. 

Di  mortale  non  già,  ma  di  celeste 
Petto  sol  degna.  Che  più  dir?  Traetemi 
Prigioniero  alle  navi,  o in  saldi  nodi 
Qui  lasciatemi  avvinto  infin  che  pure 
Vi  ritorniate:  e siavi  chiaro  a prova. 

Se  fu  verace  il  labbro  o menzognero. 

Lo  guatò  bieco  Diomede,  e disse: 

Da  che  ti  spinse  in  poter  nostro  il  fato, 
Dolon,  di  scampo  non  aver  lusinga. 

Benché  tu  n’abbia  rivelato  il  vero. 

Se  per  riscatto  o per  pietà  disciolto 
Ti  mandiam,  tu  per  certo  ancor  di  nuovo 
Alle  navi  verresti  esploratore, 

O inimico  palese  in  campo  aperto. 

Ma  se  (pii  perdi  per  mia  man  la  vita, 

Più  d’Argo  ai  figli  non  sarai  noccnte. 

Disse;  e il  meschino  già  la  man  stendea 
Supplice  al  mento  ; ma  calò  di  forza 
Quegli  il  brando  sul  collo,  e ne  recise 
Ambe  le  corde.  La  parlante  testa 
Rotolò  nella  polve.  Allor  dal  capo 
Gli  tolsero  l’elmetto,  e l’arco  e l’asta 
E la  lupina  pelle.  In  man  solleva 
Le  tolte  spoglie  Ulisse;  e a te.  Minerva 
Predatrice,  sacrandole,  si  prega:  . t:  > 

Godi  di  (pieste,  o Dea;  chè  te  primiera 
De’  Celesti  in  Olimpo  invocheremo; 

Ma  di  nuovo  propizia  ai  padiglioni 
Or  tu  de’  traci  cavalier  ne  guida. 

Disse;  e le  spo^ie  su  la  cima  impose 
D’un  tamarisco;  e,  canne  c ramoscelli  ; 
Sterpando  intorno,  e di  lor  fatto  un  fascio. 


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, ,58i-6m  WB1»0  X a*i 

Segnai  lo  tnelle,  che  per  l’ombra  incerta 
Nel  loro  ritornar  lo  sguardo  avvisi. 

Quindi  inoltràr,  pestando  sangue  ed  armi^ 

E fnr  tosto  de’  Traci  allo  squadrone. 

Dormiano  infranti  di  fatica , e stesi  ! 

In  tre  file,  coll’  armi  al  suol  giacenti 
A canto  a ciascheduno.  Ognun  de’  duci  • 

Tiensi  dappresso  due  destrier  da  giogo  ^ 

Dorme  Reso  nel  mezzo;  e a lui  vicino 
Stansi  i cavalli  colle  briglie  avvinti 
All’estremo  del  cocchio.  Avvisto  Q primo  i 
Si  fu  di  Reso  Ulisse,  e a Diomede  ,> 
L’additò:  Diemede,  ecco  il  guerriero; 

Bieco  i destrier,  che  dianzi  n’avvisava 
Quel  Dolon,  che  uccidemmo.  Or  tu  fuor  metti 
L’usata  gagliardia;  chè  qui  passarla  i 
Neghittoso  ed  armato  onta  sarebbe. 

Sciogli  tu  quei  cavalli,  o a morte  mena 
Gostor;  chè  de’  cavalli  è mia  la  cura. 

Disse;  c spirò  Minerva  a Diomede 
Robustezza  divina.  A dritta,  a manca 
Fora,  taglia  ed  uccide,  e degli  uccisi 
II  gemito  la  muta  aria  feria. 

Corre  sangue  il  terren.  Come  bone, 
Sopravvenendo,  al  non  guardato  gregge 
Scagliasi,  c capre  e ugnelle  empio  diserta; 

Tal  nel  mezzo  de’  Traci  è Diomede. 

Già  dodici  n’avea  trafitti;  c quanti 
Colla  spada  ne  miete  il  valoroso. 

Tanti  n’aflerra  dopo  lui  d’un  piede 
Lo  scaltro  Ulisse,  e fuor  di  via  li  tira, 

Nettando  il  passo  a’ bei  destrieri,  ond’elli, 

Alla  strage  non  usi,  in  cor  non  tremino, 

Le  morte  salme  calpestando.  Intanto 
Piomba  su  Reso  il  fier  Tidide , e priva 
Lui  tredicesmo  della  dolce  vita. 

Sospirante  lo  colse  ed  affannoso; 

Perchè  per  opra  di  Minerva  apparso 
Appunto  in  quella  gli  pendea  sul  capo. 

Tremenda  vis'ion,  d’Enidc  il  figlio. 


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lUàDE 


¥.  6ai^6o 


Scioglie  Ulisse  i destrieri,  c colle  briglie 
Accoppiati,  di  mezzo  a quella  torma  ■ 

Via  li  mena,  e coll’arco  li  percuote^;  , 
(Chè  tor  dal  cocchio  non  pensò  la  sferza); 
E d’un  fischio  fa  cenno  a Diomede. 

Ma  questi  in  mente  discorrea  più  arditi 
Fatti,  c dubbiava,  se  dar  mano  al  cocchio 
D’armi  ingombro  si  debba,  e pel  timone 
Trarlo;  o se  imposto  alle  gagliarde  spalle 
Via  sci  porti  di  peso;  o se  prosegua 
D’ altri  più  Traci  a consumar  le  vite. 

In  questo  dubbio  gli  si  fece  appresso 
Minerva,  e disse:  Al  partir  pensa,  o figlio 
Dell’invitto  Tidéo ; riedi  alle  navi, 

Se  tornarvi  non  vuoi  cacciato  in  fuga, 

E che  svegli  i Trojaui  un  Dio  nemico. 

Udì  l’eroe  la  Diva;  c ratto  ascese 
Su  l’uno  de’  corsier,  su  l’altro  Ulisse, 

Che  via  coll’  arco  li  tempesta , e quelli  , 
Alle  navi  volavano  veloci. 

Il  signor  del  sonante  arco  d’ argento 
Stavasi  Apollo  alla  vedetta;  c,  vista 
Seguir  Minerva  del  Tidide  i passi. 

Adirato  alla  Dea,  misebiossi  in  mezzo 
Alle  turbe  trojane,  e Ipocoontc 
Svegliò,  de’  Traci  consiglierò,  e prode 
Gonsobrino  di  Reso.  Ed  ei,  balzando 
Dal  sonno,  c de’  cavalli  abbandonalo 
Il  quartiere  mirando,  e palpitanti 
Nella  morte  i compagni,  c lordo  tutto 
Di  sangue  il  loco,  urlò  di  doglia,  e forte 
Chiamò  per  nome  il  suo  diletto  amico; 

E un  trambusto  levossi  c un  allo  grido 
Degli  accorrenti  Troi,  che  l’arduo  fatto  ' 
Dei  due  fuggenti  contemplar  stupiti. 

Giungean  questi  frattanto  ove  d’Etlorrc 
Aveau  l’incauto  esploratoi'e  ucciso. 

Qui  ferma  Ulisse  de’  corsieri  il  volo; 

Balza  il  Tidide  a tcira,  e,  nelle  mani 
Dcll’ilaco  gucrricr  le  sanguinose 


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LIBRO  X 


¥.  661-700 


Spoglie’  deposte,  rapido  rimonta, 

E flagella  i cursicr,  cho  verso  il  mai'c 
Divorano  la  via  volonterosi. 

Primo  udinne  il  romor  Nestore,  e disse  : 
O amici,  o degli  Achei  principi  c duci. 
Non  so  se  falso  il  cor  mi  parli  , o vero^ 

Pur  dirò:  mi  ferisce  un  calpestio 
Di  correnti  cavalli.  Oh  fosse  Ulisse! 

Oh  fosse  Diomede,  che  veloci 

Gli  adducessero  a noi  tolti  a’Trojani! 

Ma  mi  turba  timor,  che  a questi  prodi 
Non  arvegna  fra’  Teucri  un  qualche  danno. 

Finite  non  avea  queste  parole. 

Che  i campioni  arrivar.  Balzavo  a terra  ^ 

E con  voci  di  plauso  e con  allegro 
Toccar  di  mani  gli  accogliean  gli  amici. 
Nèstore  il  primo  interrogolli  : O sommo 
Degli  Àchivi  splendore,  inclito  Ulisse, 

Che  destrieri  son  questi  ? ove  rapiti  ? 

Nel  campo  forse  de’  Trojani?  o diclli. 
Fattosi  a voi  d’incontro,  un  qualche  iddio? 
Sono  ai  raggi  del  Sol  pari  in  candore 
Mirabilmente^  ed  io,  che  sempre  in  mezzo 
A’  Trojani  m’avvolgo,  c,  benché  veglio 
Guerrier,  restarmi  neghittoso  aborro. 

Io  nè  questi,  nè  pari  altri  corsieri 
Unqua  vidi,  nè  seppi.  Onde  per  via 
Qualcun  mi  penso  degli  Dei  v’apparve, 

E ven  fe  dono^  perocché  voi  cari 
Siete  al  gran  Giove,  adunator  di.  nembi, 

E alla  figlia  di  Giove,  alma  Minerva. 

Nèstore,  gloria  degli  Achei,  rispose 
L’accorto  Ulisse,  agevolmente  un  Dio 
Potria  darli,  volendo,  anco  migliori; 

Chè  gli  Dei  ponno  più  d'assai.  Ma  questi. 
Di  che  chiedi,  son  traci  c qua  di  poco 
Giunti:  al  re  loro  c a dodici  de’ primi 
Suoi  compagni  diè  morte  Diomede, 

E tredicesmo  un  altro  n’uccidemmo, 

Dai  teucri  duci  esplorato!’  spedito 


aa3 


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Del  nostro  campo.  — Così  detto,  spinse, 
Giubilando,  oltre  il  fosso  i corridori; 

E fcstcggianli  lo  seguir  gli  Achivi. 

Giunto  al  suo  regio  padiglion,  legolli 
Con  salda  briglia  alle  medesme  greppie, 
Ove  dolci  pascean  biade  i corsieri 
Dlomedéi.  Ulisse  all’alta  poppa 
Le  spoglie  di  Dolon  sospende,  e a Palla 
Prepararsi  comanda  un  sacrificio. 

Tersero  quindi  entrambi  alla  marina 
L’abbondante  sudor,  gambe  lavando 
E collo  e fianchi.  Riforbito  il  corpo, 

E ricreato  il  cor,  si  ripurgaro 
Nei  nitidi  lavacri.  Indi,  odorosi 
Di  pingue  oliva,  si  scdeano  a mensa, 
Pieni  i nappi  votando,  ed  a Minerva 
Libando  di  Lieo  l’almo  licore. 


LIBRO  UNDECIMO 


ARGOMENTO 


La  Diirardu  «Ita  il  grì<lo  di  ga^ra.  Agamennone  & armare  c nmdiKe  alla  baliaglia  la 
ad^iere.  Pugna  duLbiou  da  prima.  Agamenaooe  prevale.  Giove  rpediare  Iride  ad  Ettore  per 
ordinargli  di  »Urti  io  dùpaite  Bnchè  uoa  ve^a  AgameoooDe  ritirar»  Crrito  alle  nari.  Morta 
d’tfidamante  e di  Coooe.  Prodeaaa  di  Ettore,  vitto  Agamennone  ferito.  Diomede  ed  Vliue 
gli  H oppongocw.  Paride  ferùee  Diomede,  che  è cottreUo  a ritinrà.  llUase,  ctroanddlD  dai 
Trojani,  li  rhpioge  da  aè.  Uedde  Seco,  da  cui  era  alalo  ferito.  E protetto  da  Ajace  e eoo* 
dotto  da  Menelao  fuori  della  mitctiia.  Macaone,  ferito  da  Paride,  viene  ricondotto  da 
atore  nclb  tua  tenda.  Ettore  abaragUa  il  campo  greco  , mentre  io  altra  parta  Ajace  fe  ttrage 
di  Trujani.  Ritinta  dì  Ajace.  Achille,  parendogli  di  vedere  Macaone,  che  parta  ferito, 
manda  Pitroclo,  il  quale  a* accerti  ehi  tu  queireroe.  Pilrudo,  aLboccato»  con  Nestore,  h da 
lui  pregalo  a tentare  d*  indurre  Achille  a combattere  pet  Greci , o ad  accoaaentire  almeno, 
eh’  egli  tietu  venga  rìvetUto  delle  armi  dell'  amico  in  loro  toecono.  Pitrocb , ritorando  , 
Kooànu  io  Euripilo  ferito  da  Paride;  lo  mena  alla  ma  (coda , e oc  medica  la  piaga. 


Dal  croceo  letto  di  Titon  l'Àurora 
Sorgea,  la  terra  illuminando  e il  cielo; 

E yér  le  navi  achee  Giove  spedia 
La  Discordia  feral.  Scotea  di  guerra 
L'orrida  insegna  nella  man  la  Dira; 

E tal  d’ Ulisse  s'arrestò  su  l'alta 
Capitana,  che  posta  era  nel  mezzo, 
Donde  intorno  mandar  potea  la  voce 
Fin  d'Ajace  e d'Achille  al  padiglione. 
Che,  nella  forza  e nel  gran  cor  securi, 
Sottratte  ai  lati  estremi  avean  le  prore. 
Qui  ferma,  d’un  acuto  orrendo  grido 
Empi  l'achive  orecchie;  e tal  ne'  petti 
Un  vigor  suscitò,  tale  un  desio 
Di  pugnar,  d'  azzuffarsi  e di  ferire. 

Che  sonava  nel  cor  dolce  la  guerra 
Più  che  il  ritorno  al  caro  patrio  lido. 

Alza  Atride  la  voce,  e a tutti  impone 
Di  porsi  in  tutto  punto;  e d'armi  ci  puro 
' Folgoranti  si  vèste.  E pria  circonda 
Moni.  Iliade. 


i5 


ILIADE 


Di  calzari  le  gambe,  ornati  e stretti 
D’argentee  6bbie.  Una  lorica  al  petto 
Quindi  si  pon,  ebe  Cinira  gli  avea 
Un  di  mandata  in  ospitai  presente^ 
Perocché  quando  strepitosa  in  Cipro 
Corse  la  fama,  ebe  1’  acbiva  armata 
Verso  Troja  spiegar  dovea  le  vele, 
Gratificar  di  quell'  usbergo  ci  volle 
L’amico  Àgamennón.  Di  bruno  acciaro 
Dieci  strisce  il  cingean,  dodici  d'oro. 
Venti  di  stagno.  Lubrici  sul  collo 
Stendon  le  spire  tre  cerulei  draghi, 
Simiglianti  alle  pintc  iri,  che  Giove 
Suol  nelle  nubi  colorar,  portento 
Ài  parlanti  mortali.  Indi  la  spada 
Agli  òmeri  sospende,  rilucente 
D’aurate  bolle,  e la  vcsti'a  d’argento 
Larga  vagina  col  pendaglio  d’  oro. 

Poi  lo  scudo  imbracciò,  che  vario  e bello 
E di  facil  maneggio  tutto  cuopre 
n combattente.  Ha  dieci  fasce  intorno 
Di  bronzo,  e venti  di  forbito  stagno 
Candidissimi  colmi,  c un  altro  in  mezzo 
DI  bruno  acciar.  Su  questo  era  scolpita , 
Terribile  gli  sguardi,  la  Gorgone 
Col  Terrore  da  lato  e con  la  Fuga, 

Rilievo  orrendo.  Dallo  scudo  poscia 
Una  gran  lassa  dipendea  d’argento,' 

Lungo  la  quale  azzurro  c sinuoso 
Serpe  un  drago  a tre  teste,  che  ritorte 
D'una  sola  cervice  eran  germoglio. 

Quindi  al  capo  diè  l’elmo  adorno  tutto 
Di  lucenti  chiavelli,  irto  di  quattro 
Coni  e d’equine  setole  con  una 
Superba  cresta,  che  di  sopra  ondeggia 
Terribilmente.  Àlfin  due  lance  impugna 
Ma.ssicce,  acute,  le  cui  ferree  punte 
Mettean  baleni  di  lontano.  lutante 
Giuno  e Palla,  onorando  il  grande  Àtridc, 
Dicr  di  sua  mossa  con  fragore  il  segno. 


!■.  6i  loo 


LIBRO  XI 


aa7 

All’auriga  ciascuno  allur  cuiiiaiula, 

Clic  parati  in  bcll’ortlinc  sostegna 
Alla  fossa  i dcstricr,  mentre  a gran  passi 
Chiuse  nell’ armi  le  pedestri  schiere 
Procedono  al  nemico.  Ancor  non  vedi 
Spuntar  l’aurora,  e d’ogni  parte  immenso 
Romor  già  senti.  Come  tutto  giunse 
L’esercito  alla  fossa,  immantinente 
Pur  cavalli  e pedoni  in  ordinanza: 

Questi  primieri,  e quei  secondi.  Intanto 
Giove  dall’alto  romoreggia,  e piove 
Di  sangue  una  rugiada,  annunziatrice 
Delle  molte,  che  all’Orco  in  quel  conflitto 
Anime  generose  avria  sospinto. 

D’altra  parte  i Trojani  in  su  l’altezza 
Si  schierano  del  poggio.  In  mezzo  a loro 
S’aflaccendano  i duci;  il  grande  Ettorre, 
D’Anchise  il  figlio,  che  venia  qual  nume 
Da’  Trojani  onorato  j il  giusto  e pio 
Polidamante;  e i tre  antenórei  figli, 

Polibo,  io  dico,  ed  il  preclaro  Agenore, 

Ed  Acamantc,  giovinetto,  a cui 
Di  celeste  beltà  fioria  la  guancia. 

Maestoso  fra  tutti  Ettor  si  volve 
Coll’  cgual  d’ ogni  parte  ampio  pavese. 

E qual  di  Sirio  la  funesta  stella 
Or  senza  vel  fiammeggia,  ed  or  rientra 
Nel  bujo  delle  nubi^  a tal  sembianza 
Or  nelle  prime  file,  or  nell’ estreme 
Ettore  comparia,  dando  per  tutto 
Provvidenza  e comandi;  e tutta  d’arme 
Rilucea  la  persona , e fulgorava 
Come  il  baleno  dell’ Egioco  Giove. 

Qual  di  ricco  padron  nel  campo  vanno 
I mietitori,  con  opposte  fronti 
Falciando  l’orzo  od  il  frumento;  in  lunga 
Serie  recise  cadono  le  bionde 
Figlie  de’  solchi,  o in  un  momento  ingombra 
Di  manipoli  tutta  è la  campagna; 

Così  Teucri  ed  Achei,  gli  uni  su  gli  altri 


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ILIIDE 


t'.  10l-l4o 


aiS 

Imiendo,  si  mietono  col  ferro 
In  mutua  strage.  Immemore  ciascuno 
Di  vii  fuga,  e gnerrier  centra  guerriero, 
Pugnan  tutti  del  pari,  e si  van  contra 
Coll’impeto  de’  lupi.  A riguardarli 
Sta  la  Discordia,  e della  strage  esulta, 

À cui  sola  de’  numi  era  presente. 

Sedeansi  gli  altri  taciturni  in  cielo 
In  sua  magion  ciascuno , edificata 
Su  gli  ardui  gioghi  del  sereno  Olimpo. 

Ivi  ognuno  in  suo  cor  fremca  di  sdegno 
Contro  l’alto  de’  nembi  addensatore. 

Che  dar  vittoria  a’  Troi  volea^  ma  nullo 
Pensicr  si  prende  di  quell’ira  il  Padre, 

Che  in  sua  gloria  esultante  e tutto  solo 
In  disparte  sedea,  Troja  mirando 
E l’achce  navi,  c il  folgorar  dell’ armi, 

E il  ferire  e il  morir  de’  combattenti. 

Finché  il  mattin  processe,  e crebbe  il  sacro 
Raggio  del  giorno,  d’ambe  parti  eguale 
Si  mantenne  la  strage.  Ma  nell’ora. 

Che  in  montana  foresta  il  Icgnajuolo 
Pon  mano  al  parco  desinar,  sentendo 
Dall’assiduo  tagliar  cerri  ed  abeti 
Stanche  le  braccia  e fastidito  il  core, 

E dolce  per  la  mente  e per  le  membra 
Serpe  del  cibo  il  naturai  desio. 

Prevalse  la  virtù  de’  forti  Argivi, 

Che,  animando  lor  file  e compagnie, 
Sbaragliar  le  nemiche.  Agamennóne 
Saltò  primier  nel  mezzo,  e Fianorre, 

Pastor  di  genti,  uccise  j indi  Oiléo, 

Suo  compagno  ed  auriga.  Era  dal  carro 
Costui  sceso  d'un  salto,  e gli  vem'a 
Dirittamente  contro.  A mezza  fronte 
Coll’acuta  asta  lo  colpi  l’Atride. 

Non  resse  al  colpo  la  celata^  il  ferro 
Penetrò  l’elmo  e l’osso,  e tutto  interna- 
-mente  di  sangue  gli  allagò  il  ccrébro: 

Cosi  r audace  assalitor  fu  domo. 


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LIBRO  ZI 


2»9 


i8o 

Rapi  d’ambo  le  spoglie  Agamcnndne, 

E nudi  il  petto  li  lasciò  supini. 

Andò  poscia  lUretto  ad  assalire 
Due  di  Priamo  figliuoli,  Iso  ed  Antifo: 
L’uu  frutto  d’ Imenèo;  l’altro  d’Amore. 
Vernano  entrambi  sul  medesmo  cocchio 
I fratelli:  reggeva  Iso  i destrieri: 

Antifo  combattea.  Sul  balzo  d’Ida 
Arcali  un  giorno  sopraggiunti  Achille, 
Mentre  pascean  le  greggie,  e di  pieghevoli 
Vermene  avvinti,  e poi  disciolti  a prezzo. 
Ed  or  l’Atride  Agamennòn  coll’  asta 
Spalanca  ad  Iso  tra  le  mamme  il  petto; 
Piede  di  brando  Antifo  nella  tempia, 

E lo  spiomba  dal  cocchio.  Immantinente 
Delle  bell’ armi  li  dispoglia  entrambi; 

Chè  ben  li  conoscea  dal  dì,  che  Achille 
Dai  boschi  d’Ida  prigionicr  li  trasse 
Seco  alle  navi;  ed  ei  notonne  i volti. 

Come  quando  un  h'on , nel  covo  entrato 
D’agil  cerva,  ne  sbrana  agevolmente 

I pargoli  portati,  e li  maciulla 

Co’  forti  denti,  mormorando,  e sperde 
L’ anime  tenerelle;  la  vicina 
Misera  madre,  non  che  dar  soccorso. 
Compresa  di  terror  fugge  veloce 
Per  le  dense  boscaglie,  c trafelando 
Suda  al  pensier  della  possente  belva; 

Cosi  nullo  de’  Troi  poteo  da  morte 
Salvar  que’  due;  ma  tutti  anzi  le  spalle 
Conversero  agli  Achivi.  Assatse  ei  dopo 
Ippoloco  e Pisandro,  ambo  figliuoli 
Del  bellicoso  Antimaco,  di  quello, 

Che  da  Paride  compro  per  molt’oro 
E ricchi  doni,  d’Elena  impedia 

II  rimando  al  marito.  I figli  adunque 
Di  costui  colse  al  varco  Agamennòne, 
Sovra  un  medesmo  carro  ambo  volanti, 

E turbati  e smarriti;  chè  pel  campo 
Sfrenaronsi  i destrieri,  e dalla  mano 


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a3o 


ILIADE 


Le  scorrevoli  briglie  cran  cadute. 

Come  fton  fu  loro  addosso  , e quelli 
S’inginocchiàr,  dal  carro  supplicando: 

Lasciane  vivi,  Atride,  e di  riscatto 
Gran  prezzo  n’otterrai.  Molta  risplcndc 
Nella  magion  d’Antimaco  ricchezza, 

D’oro,  di  bronzo  e lavorato  ferro. 

Di  questo  il  padre  ti  darà  gran  pondo 
Per  la  nostra  riscossa,  ov’egli  intenda 
Vivi  i suoi  figli  nelle  navi  achee. 

Così  piangendo  supplicar  con  dolci 
Modi',  ma  dolce  non  rispose  Atride: 

Voi  d’Antimaco  figli?  di  colui. 

Che  nel  trojano  parlamento  osava 
D’ Ulisse  e Menelao,  venuti  a Troja 
Ambaseiatori,  consigliar  la  morte? 

Pagherete  voi  dunque  ora  del  padre 
L’indegna  offesa.  — SI  dicendo,  immerge 
L’asta  in  petto  a Pisandro,  e giù  dal  carro 
Supin  lo  stende  sul  terren.  Ciò  visto. 

Balza  Ippoloco  al  suolo , e lui  secondo 
Spaccia  i’Atride^  coll’acciar  gli  pota 
Ambe  le  mani,  e poi  la  testa,  e lungi 
Come  paleo  la  scaglia  a rotolarsi 
Fra  la  turba.  Lasciati  ivi  costoro , 

Fubninando  si  spinge  nel  più  caldo 

Tumulto  dolla  pugna,  e l’accompagna 

Molta  mano  d' Achei.  Fan  strage  i fanti 

De’  fanti  fuggitivi,  i cavalieri 

De’  cavalier.  Si  volve  al  cicl  la  polve 

Dalle  sonanti  kampc  sollevata 

De’  fervidi  corsieri  ; e Agamennone 

Sempre  insegue  ed  uccide,  c gli  altri  accende. 

Come  quando  s’appiglia  a denso  bosco 
Incendio  struggitor,  cui  gruppo  aggira 
Di  fiero  vento  e d’ogni  parte  il  gitta; 

Cadono  i rami  dall’invitta  fiamma 
Atterrati  c combusti;  a questo  modo 
Sotto  l’Atridc  Agamennón  le  teste 
Cadcan  de’  Teucri  fuggitivi;  c molti 


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LIBRO  XI 


1-260 

Colle  chiome  sul  collo  fluttuanti 
Deslricr  traean  pel  campo  i voti  carri, 
Sgominando  le  file,  ed  il  governo 
Desiderando  de’  lor  primi  aurighi. 

Ma  quei  giacean  già  spenti,  agli  avoltoi 
Gradita  vista,  alle  consorti  orrenda. 

Fuori  intanto  dell’ armi  e della  polve, 

Delle  stragi,  del  sangue  e del  tumulto 
Condusse  Giove  Ettòr.  Ma  gl’ inseguiti 
Teucri  dritto  al  sepolcro  del  vetusto 
Dardanid’llo  verso  il  caprifico 
La  piena  fuga  dirigean,  bramosi 
Di  ripararsi  alla  cittade:  e sempre 
Gl’ incalza  Atride,  e orrendo  grida,  e lórda 
Di  polveroso  sangue  il  braccio  invitto. 

Giunti  alfine  alle  Scee,  quivi  sostàrsi 
Vicino  al  faggio,  ed  aspettar  l’arrivo 
De’  compagni  pel  campo  ancor  fuggenti, 

E simiglianti  a torma  d’atterrite 
Giovenche,  che  lion  di  notte  assalta. 

Alla  prima,  che  abbranca,  ei  figge  i duri 
Denti  nel  eolio,  e,  avidamente  il  sangue 
Succhiatone,  n’incanna  i palpitanti 
Visceri;  e tale  gl’inseguia  l’Atride, 

Sempre  il  postremo  atterrando,  e quei  sempre 
Spaventati  fuggendo:  e giù  dal  cocchio 
Altri  cadca  boccone,  altri  supino 
Sotto  i colpi  del  re,  che  innanzi  a tutti 
Oltre  modo  coll’asta  infuriava. 

E già  in  cospetto  gli  veni'an  dell’  alto 
Ilio  le  mura,  e vi  giungea;  quand’ecco 
Degli  uomini  il  gran  padre  e degli  Dei 
Scender  dal  cielo , e maestoso  in  cima 
Sedersi  dell’acquosa  Ida,  stringendo 
La  folgore  nel  pugno.  Iri  a sè  chiama, 
L’ali-dorata  messaggiera;  e;  Vanne, 

Vola,  le  disse,  Iri  veloce,  e ad  Ettore 
Porta  queste  parole.  Infin  ch’ei  vegga 
Tra’  primi  combattenti  Agamennóne 
Romper  le  file  furibondo,  ci  cauto 


ILIADE 


**.  a6i>3<»u 


a3i 

Stiasi  in  disparte,  c d'animar  sia  pago 
Gli  altri  a far  testa,  e oprar  le  mani.  Appena 
O di  lancia  percosso  o di  saetta 
L’Atride  il  cocchio  monterà,  si  spinga 
Ei  ratto  nella  mischia,  lo  porgerogli 
Alla  strage  la  forza,  inGn  che  giunga 
Vincitore  alle  navi,  e al  dì  caduto 
Della  notte  succeda  II  sacro  orrore. 

Disse  ^ e veloce  la  veloce  Diva 
Dal  giogo  idèo  discende  al  campo,  c trova 
Stante  in  piè  sul  suo  carro  il  bellicoso 
Piramide ^ e,  appressata:  O tu,  gli  disse. 

Che  il  consiglio  d’un  Dio  porti  nel  core, 
Ettore,  le  parole  odi,  che  Giove 
Per  me  ti  manda.  InGn  che  Agamennone 
Vedrai  tra’  primi  infuriar,  rompendo 
De’  guerrieri  le  Gle,  il  piè  ritira 
Tu  dal  conflitto,  e fa,  che  col  nemico 
Pugni  il  resto  de’  tuoi.  Ma  quando  el  d’ asta 
O di  strale  ferito  darà  volta 
Sopra  il  suo  cocchio,  allor  t’avanza.  Avrai 
Tal  da  Giove  un  vigor  , eh’  anco  alle  navi 
La  strage  spingerai,  Gnchè  la  sacra 
Ombra  si  stenda  su  la  morta  luce. 

Disse;  e sparve.  L’eroe  balza  dal  cocchio 
Risonante  nell’ armi;  e,  nella  mano 
Palleggiando  la  lancia,  il  campo  scorre, 

E raccende  la  pugna.  Allor  destossi 
Grande  conflitto.  Rivoltai'o  i Teucri 
Agli  AchivI  la  faccia,  e di  rincontro 
Le  lor  falangi  rinforzàr  gli  AchivI. 

Venuti  a fronte,  rinnovossi  il  cozzo, 

E primiero  si  mosse  Agaanennónc 
Innanzi  a tutti,  di  pugnar  bramoso. 

Muse  dell’alto  Olimpo  abitatrici. 

Or  voi  ne  dite  chi  primicr  si  spinse, 

O trojano  guerriero  od  alleato. 

Contro  il  supremo  Atride.  IGdamantc, 
D’Antèuore  Ggliuolo,  un  giovinetto 
D’altere  forme  c di  gran  cor,  nudritu 


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301-3^0  LIBRO  XI 

Nell’opima  di  greggi  odrbia  terra. 

L’educò  bambinetto  in  propria  casa 
Della  bella  Teano  il  genitore, 

Gisséo,  l’avo  materno^  e,  maturati 
Di  gloriosa  pubertate  i giorni, 

Sposo  aUa  figlia  il  diè.  Ma  cólta  appena 
D’Imen  la  rosa,  al  talamo  strappollo 
Da  dodici  navigli  accompagnato 
Della  venuta  degli  Achei  la  fama. 

Quindi  lasciate  alla  percopia  riva 
Le  sue  navi,  pedone  ad  Ilio  ei  venne, 

E primo  si  piantò  contro  l’Atride. 

Giunti  al  tiro  dell’asta,  Agamennòne 
Vibrò  la  sua , ma  in  fallo.  Ifidamante 
Appuntò  l’avversario  alla  cintura 
Sotto  il  torace,  e colla  man  robusta 
Di  tutta  forza  l’asta  sospingea; 

Ma  non  valse  a forame  il  ben.  tessuto 
Cinto,  e spuntossi  nell’argentea  lama 
L’acuta  punta,  come  piombo  fosse. 

A due  mani  l’ afferra  allor  l’Atridc 
Con  ira  di  hone^  a sè  la  tira; 

Gliela  svelle  dal  pugno;  e,  traUo  il  brando, 
Lo  percuote  alla  nuca,  e lo  distende. 

Sì  cadde,  e chiuse  in  ferreo  sonno  i lami. 
Miserando  garzoni  venne  a difesa 
Del  patrio  suolo,  e vi  trovò  la  morte; 

Nè  gli  compose  i rai  la  giovinetta 
Consorte,  nè  di  lei  frutto  lasciava. 

Che  il  ravvivasse:  e sì  l'avea  con  molti 
Doni  acquistata;  perocché  da  prima 
Di  cento  buoi  dotolla,  e mille  in  oltre 
Madri  promise  di  lanute  torme. 

Che  numerose  gli  pasceva  il  prato. 

Spoglia  Atride  l’ucciso,  e le  beffarmi 
Ne  porta  ovante  Ira  le  turbe  achee. 

Come  vide  Coon  morto  il  fratello, 
(D’Antenore  era  questi  il  maggior  figlio, 

E guerriero  di  grido),  una  gran  nube 
Di  dolor  gl’  ingombrò  la  mente  e gli  occhi. 


■<34  ILIADE  ... 

Pensi  in  agguato  con  un  darilo  in  mano 
AI  re  (li  costa,  e vibra.  A mezzo  il  braccio 
ConGccossi  la  punta  sotto  il  cubito, 

E trapassollo.  Inorridì  del  colpo 
L’Atride  regnatore  ma  non  per  questo 
Abbandona  la  pugna;  anzi  più  Gero, 

Colla  salda  dagli  Euri  asta  nudrita, 
Avventossi  a Coon,  che  frettoloso 
Dell'  amato  fratello  IGdamante 
D’un  piè  traca  la  salma,  alto  chiedendo 
De'  più  forti  l’aita.  Lo  raggiunge 
In  quell'atto  l'Atride;  c sotto  il  colmo 
Dello  s(nido  gli  caccia  impetuoso 
La  zagaglia,  e l' atterra.  Indi  sul  corpo 
D' IGdamante  il  capo  gli  recide. 

Così  n' andar,  compiuto  il  fato,  all'Orco 
Per  man  d'Atride  gli  antendrci  Ggli. 

Finché  fu  calda  la  ferita,  il  sire 
Coll'asta,  colla  spada  e con  enormi 
Ciotti  la  pugna  seguitò;  ma  come 
Stagnossi  il  sangue  e s'aggelò  la  piaga. 
D'acerbe  doglie  saettar  sentissi. 

Qual  traGggc  la  donna,  aì  partorire, 
L'acuto  strale  del  dolor,  vibrato 
Dalle  Gglie  di  Giuno  alme  Ilitic, 

D'amare  Gttc  apportatrici;  c tali 
Eran  le  punte  ebe  ferian  l'Atridc. 

Salì  dunque  sul  carro,  ed  all'auriga 
Comandò  di  dar  volta  alla  marina; 

E,  cruccioso  elevando  .alto  la  voce: 

Prenci,  amici,  gridava,  e voi  valenti 
C.apitani  de'  Greci,  allontanate 
Dalle  navi  il  conGitto,  or  che  di  Giove 
Non  consente  il  voler,  ch'io  <pii  compisca. 
Combattendo  co'  Teucri,  il  giorno  intero. 

Disse;  e l'aui'iga  Gagcllò  i destrieri 
Verso  le  navi;  e quei  volàr,  spargendo 
Le  belle  chiome  all'aura;  c,  il  petto  aspersi 
D'  alta  spuma  e di  polve,  in  un  baleno 
Fuor  del  campo  ebber  tratto  il  re  ferito. 


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V. 


UBRO  XI 


a35 


Come  dall' armi  ritirarsi  il  vide, 

Dii  un  alto  grido  Ettorrc;  c,  rincorando 
Trojani  e Licj  e Dàrdani,  tonava; 

Uomini  siate,  amici,  e richiamate 
L’antica  gagliardia:  lasciato  ha  il  campo 
Quel  fortissimo  duce,  e a me  promette 
L’Olimpio  Giove  la  vittoria.  Or  via; 

Gli  animosi  cornipedi  spingete 
Dirittamente  addosso  ai  forti  Achivi, 

C acquisto  fate  d’ immortai  corona. 

Disse;  c in  tutti  destò  la  forza  e il  core. 
Come  buon  cacciator  centra  un  l'ione 

0 silvestre  cignale  il  morso  aizza 
De’  fìer  molossi;  così  l’ira  instiga 
De’  magnanimi  Troi  contro  gli  Achivi 
Il  Pr'iamide  Marte:  cd  ei  tra’  primi 
Intrepido  si  volvc,  e nel  più  folto 
Della  mischia  coll’impeto  si  spinge 
Di  sonante  procella,  che  dall’alto 
Piomba  c solleva  il  ferrugineo  flutto. 

Allor  chi  pria,  chi  poi  fu  messo  a morte 
Dal  Pr'iamide  eroe,  quando  a lui  Giove 
Fu  di  gloria  cortese?  Asséo  da  prima  j 
Autònoo,  Opite,  e Dòlope  di  Clito, 

Ofeltio  ed  Agclao,  Esimno  ed  Oro 
E il  bellicoso  Ippónoo.  Fur  questi 

1 danai  duci,  che  il  Trojano  uccise: 

Dopo  lor,  multa  plebe.  Come  quando 
Di  Ponente  il  soffiar  Tumide  figlie 
Di  Noto  aggfra,  e con  rapido  vortice 
Le  sbatte  irato;  il  mar  gonfiati  c crebri 
Vulve  i flutti,  e dal  turbo  in  larghi  sprazzi 
Sollevata  diflondesi  la  spuma; 

Tal  Ettore  cader  confuse  e spesse 
Fa  le  teste  plebee.  Disfatta  intera 
Allor  saria  seguita,  e colla  strage 
De’  fuggitivi  ineluttabil  danno. 

Se  con  questo  parlar  l’accorto  Ulisse 
Non  destava  il  valor  di  Diomede: 
Magnanimo  Tidide,  c qual  disdetta 


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23G 


rLlAOB 


•.  ^2|.^6o 


Della  nostra  virtù  ci  toglie  adesso 
La  ricordanza?  or  su;  ti  metti,  amico, 

Al  mio  fianco,  e tien  fermo:  onta  sarebbe 
Lasciar,  che  piombi  su  le  navi  Ettorre. 

E Diomede  di  rincontro:  Io  certo 
Rimarrò,  pugnerò;  ma  vano  il  nostro 
Sforzo  sarà;  cbè  la  vittoria  ai  Teucri 
Dar  vuole,  non  a noi,  Giove  nemico. 

Disse;  e coll’asta  alla  sinistra  poppa 
Timbréo  percosse,  e il  riversò  dal  carro. 
Ulisse  uccise  Molion,  guerriero 
D’apparenza  divina,  e valoroso 
Del  re  Timbréo  scudiero.  E,  spenti  questi, 
SI  cacclàr  nella  turba,  simiglianti 
A due  cinghiali  di  gran  cor,  che  II  cerchio 
Sbarattano  de’  veltri;  c impetuosi 
Voltando  faccia,  sgominaro  i Teucri , 

Sì  che  fuggenti  dall’ettórco  ferro 
Preser  conforto  e respirar  gli  AchivI. 

Combattean  6*3  le  turbe  alti  sul  carro, 
Fortissimi  campioni,  i due  figliuoli 
Di  Mcrope  Percòsio.  Il  genitore, 

Celebrato  indovino,  avea  dell’ armi 
Il  funesto  mestier  loro  interdetto. 

Non  l’ obbedirò  i figli,  e la  possanza 
Seguir  del  fato,  che  traeali  a morte. 
Coll’asta  in  guerra  sì  famosa  entrambi 
Gl’ investì  Diomede,  c colla  vita 
Dell’ armi  li  spogliò,  mentre  per  mano 
Cadean  d’ Ulisse  Ippòdamo  c Ipirdco. 
Contemplava  dall’ Ida  i combattenti 
DI  Saturno  il  gran  figlio,  c nel  suo  senno 
Equilibrava  tuttavia  la  pugna, 

E l’orror  della  strage.  Infuriava 
Pedon  tra’  primi  battaglianti  il  figlio 
Di  Peone,  Agastrófo,  c non  avea 
L’incauto  eroe  dappresso  i suoi  corsieri. 
Onde  all’uopo  salvarsi  ; chò  in  disparte 
Lo  scudi cr  li  tenea.  Mirollo,  c ratto 
L’assalse  Diomede,  e all’ anguinaglia 


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LIBRO  XI 

Lo  feri  di  tal  colpo,  che  l’uccise. 

Cader  lo  vide  Ettorre;  e tra  le  file 
Si  spinse,  alto  gridando,  e lo  seguiéno 
Le  trojane  falangi.  Al  suo  venire 
Turbossi  il  forte  Diomede;  e,  volto 
Ad  Ulisse , dicea  ; Ci  piomba  addosso 
Del  furibondo  Ettorre  la  mina. 

Stiam  saldi,  amico,  e sosteniam  lo  scontro. 

Disse;  e drizzando  alla  nemica  testa 
La  mira , fulminò  l’ asta  vibrata, 

E colse  al  sommo  del  cimier;  ma  il  ferro 
Fu  respinto  dal  ferro,  e non  ofiese 
La  bella  fi'onte  dell’eroe;  cbè  il  lungo 
Triplice  elmetto  l’impedì,  fatato 
Dono  d’ Apollo.  Sbalordì  del  colpo 
Ettore,  e lungi  riparò  tra’  suoi. 

Qui  cadde  su  i ginocchi,  puntellando 
Contro  il  suol  la  gran  palma,  c tenebroso 
Su  le  pupille  gli  si  stese  un  velo. 

Ma  mentre  corre  a ricovrar  Tidide 
La  fitta  nella  sabbia  asta  possente. 

Si  riebbe  il  caduto;  e,  sopra  il  carro 
Balzando,  nella  turba  si  confuse 
Novellamente,  ed  ischivò  la  morte; 

Perocché  il  figlio  di  Tidéo  coll’asta 
Un’altra  volta  l’assalia,  gridando: 

Cane  trojan,  di  nuovo  tu  la  scappi 
Dalla  Parca,  che  già  t’avea  raggiunto. 

Gli  è Febo  che  ti  salva,  a cui,  dell’armi 
Entrando  nel  fragor,  ti  raccomandi. 

Ma  se  verrai  per  anco  al  paragone. 

Ti  spaccerò,  s’io  pure  ho  qualche  Dio. 
Qualunque  intanto  mi  verrà  ghermito. 
Sconterà  la  tua  fuga.  — E sì  dicendo. 
L’ucciso  figlio  di  Peon  spogliava. 

Ma  della  ben  chiomata  Elena  il  drudo, 
Alessandro,  tenea  contro  il  Tidide 
Lo  strale  in  cocca,  standosi  nascoso 
Dirctro  al  cippo  sepolcral,  che  al  santo 
Dardanid’Uo,  antico  padre,  eresse 


a3S 


ILIADE 


9.  Soi«^o 


De’  Teucri  In  pietà.  Curvo  l’ eroe , 

Di  dosso  al  morto  Agàstrofo  traca 
n variato  usbergo,  cd  il  brocchiero 
Ed  il  pesante  elmetto,  allor  che  l’altro 
Lento  la  corda,  e non  invan.  Veloce 
n quadrello  volò;  nell' ima  parte 
Del  destro  piò  s'infisse;  e,  trapassando, 
Gonficcossi  nel  suolo.  Usci  d'agguato. 
Sghignazzando  il  fellone;  e;  Sei  ferito, 
Glorioso  gridò:  Ve’  s’io  t’ho  còlto 
Pur  finalmente!  Oh  t’avess’io  trafitta 
Più  vltal  fibra,  e tolta  l’alma!  Avrebbe 
Dairafianno  dell’ armi  respirato 
D popolo  trojaiio,  a cui  se’  orrendo. 

Come  il  leone  alle  belanti  agnclle. 

Villan,  cirrato  arciere,  e di  fanciulle 
Vagheggiator  codardo  (gli  rispose 
Nulla  atterrito  Diomede),  vieni 
In  aperta  tenzon;  vieni,  e vedrai 
A che  l’arco  ti  giova,  c la  di  strali 
Piena  faretra.  Mi  graffiasti  un  piede, 

E sì  gran  vampo  meni?  Io  de’  tuoi  colpi 
Prendo  il  timor,  che  mi  darebbe  il  fuso 
Di  femminetla,  o di  fanciul  lo  stecco; 

Che  non  fa  piaga  degl’imbelli  il  dardo. 

Ma  ben  altro  è il  ferir  di  questa  mano. 
Ogni  puntura  del  mio  telo  è morte 
Del  mio  nemico,  e pianto  de’  suoi  figli 
E della  sposa  che  le  gote  oltraggia; 

Mentre  di  sangue  il  suol  quegli  arrossando, 
Imputridisce,  e intorno  gli  s’accoglie. 

Più  che  di  donne,  d’avoltoi  corona. 

Così  parlava.  Accorso  intanto  Ulisse, 

Di  sò  gli  fea  riparo  : cd  ci , seduto 
Dell’ amico  alle  spalle,  il  dardo  acuto 
Sconficcassi  dal  jiiedc.  Allor  gli  venne 
Per  tutto  il  corpo  un  dolor  grave  c tanto. 
Che  angosciato  nell’alma  c impaziente 
Montò  sul  cocchio,  cd  all’auriga  impose 
Di  portarlo,  volando,  alle  sue  tende. 


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LIBRO  XI 


1-580 

Solo  rimase  di  Laerte  il  figlio^ 

Chè  la  paura  avea  tutti  sbandati 
Gli  Argivi^  ond’cgli  addolorato  e mesto 
Seeo  nel  chiuso  del  gran  cor  dicca: 

Misero,  che  farò?  Male,  se  in  fuga 
Mi  volgo  per  timor:  peggio,  se  solo 
Qui  mi  coglie  il  nemico  ora  che  Giove 
Gli  altri  Achei  sgominò.  Ma  quai  pehsicri 
Mi  ragiona  la  mente?  Ignoro  io  forse. 

Che  nell' armi  il  vii  fugge,  e resta  il  prode 
A ferire  o a morir  morte  onorata? 

Mentre  in  cor  queste  cose  egli  discorre, 
Di  sentati  Trojani  ecco  venirne 
Una  gran  torma,  che  l’accerchia.  Stolti! 

Chè  il  proprio  danno  si  chiudean  nel  mezzo. 
Come  stuol  di  molossi  c di  fiorenti 
Giovani  intorno  ad  un  cinghiai  s’addensa 
Per  investirlo,  ed  ei  da  folto  vepre 
Sbocca  aguzzando  le  fulminee  sanne 
Tra  le  curve  mascelle;  d'ogni  parte 
Impelo  fassi,  c suon  di  denti  ascolti, 

E della  belva  si  sosticn  l’assalto, 

Benché  tremenda  irrompa  e spaventosa; 

Tali  intorno  ad  Ulisse  furiosi 
S’aggruppano  i Trojani.  Alto  ci  sull’asta 
Insorge,  e primo  all’ómcro  ferisce 
Il  buon  Dciopitc;  indi  Toone 
Mette  a morte  ed  Ennomo,c  dopo  questi 
Chersidamantc  nel  saltar  che  fca 
Dal  cocchio  a terra.  Gli  cacciò  la  picca 
Sotto  il  rotondo  scudo  all’umbilico, 

E quei,  riverso  nella  polve,  strinse 
Colla  palma  la  sabbia.  Abbandonati 
Costor,  coll’asta  avventasi  a Caropo, 
D’Ippaso  figlio,  c dell’illustre  Soco 
Fratcl  germano;  c lo  ferisce.  Accorre 
Il  deiforme  Soco  in  sua  difesa; 

E,  all’Itacense  fattosi  vicino. 

Fermasi,  c parla:  Artefice  di  frodi 
Famoso,  c sempre  infatigato  Ulisse, 


ILIADE 


581-020 


Oggi  0 palmn  otterrai  d’ entrambi  i figli 
D’Ippaso;  e,  spenti,  n’avrai  l’armi:  o cólto 
Tu  dal  mio  telo  perderai  la  vita. 

Vibrò,  ciò  detto,  e lo  colpì  nel  mezzo 
Della  salda  rotella.  Il  violento 
Dardo  lo  scudo  traforò;  ficcossi 
Nella  corazza,  e gli  stracciò  sul  fianco 
Tutta  la  pelle:  non  permise  al  ferro 
L’addentrarsi  di  più  Palla  Minerva. 

Conobbe  tosto,  che  letal  non  era 
n colpo  Ulisse;  e,  retrocesso  alquanto: 
Sciagurato,  rispose  al  suo  nemico. 

Or  sì  che  morte  al  varco  ti  raggiunse. 

Mi  togliesti,  egli  è vero,  il  poter  oltre 
Pugnar  co’  Teucri;  ma  ben  io  t’ affermo. 

Che  questa  di  tua  vita  è l’ultim’ora, 

E cbe  tu,  dalla  mia  lancia  qui  domo. 

La  palma  a me  darai,  lo  spirto  a Pluto. 

Disse;  e l’altro  fuggiva.  ÀI  fuggitivo 
Scaglia  Ulisse  il  suo  cerro,  e a mezzo  il  tergo 
Si  glielo  pianta,  cbe  gli  passa  al  petto. 

Diè  d’armi  un  suono  nel  cadere,  e il  divo 
Yincitor  l’insultò:  Soco,  del  forte 
Ippaso  cavaliero  audace  figlio. 

Morte  t’ba  giunto  innanzi  tempo,  e vana 
Fu  la  tua  fuga.  Misero!  nè  il  padre 
Gli  occhi  tuoi  chiuderà,  nè  la  pietosa 
Madre,  ma  densi  a te  gli  scaveranno 
Gli  avoltoi,  dibattendo  le  grandi  ali 
Su  la  tua  fronte;  e me  spento  di  tomba 
Onoreranno  i generosi  Achei. 

Detto  ciò,  dalla  pelle  e dal  ricolmo 
Brocchier  si  svelse  del  possente  Soco 
H duro  giavellotto;  c,  nel  cavarlo, 

Diè  sangue,  c forte  dolorossi  il  fianco. 

Visto  il  sangue  d’Ulisse,  i coraggiosi 
Teucri,  l’un  l’altro  inanimando,  mossero 
Per  assalirlo;  ma  l’accorto  indietro 
Si  ritrasse,  e i compagni  ad  alta  voce 
Chiamò.  Tre  volte  a tutta  gola  ci  grida. 


r.6ll-«6o  LtBSO  XI  a^l 

Tre  volte  il  marzio  Menelao  l' intese^ 

E ad  Ajace  converso:  Àjace,  ei  disse, 

Telamdnio,  regai  seme  divino, 

Sento  all’orecchio  risonarmi  il  grido 
Del  sofferente  Ulisse^  e tal  mi  sembra. 

Qual  se,  solo  rimasto,  ei  sia  da’ Teucri 
Nel  forte  della  mischia  oppresso  e chiuso. 

Corriamo  chè  giusto  è l’aitarlo:  solo 
Fra  nemici  potrebbe  il  valoroso 
Grave  danno  patirne,  e cesterìa 
La  sua  morte  agli  Achei  molti  sospiri. 

Si  mise  in  via,  ciò  detto,  e lo  seguiva 
Quel  magnanimo,  tale  al  portamento. 

Che  un  Dio  detto  l’avresti:  e il  caro  a Giove 
disse  ritrovar  da  densa  torma 
Accerchiato  di  Teucri.  A quella  guisa, 

Che  affamate  s’attruppano  le  linci 
Dintorno  a cervo  di  gran  coma,  a cui 
Fisse  lo  strale  il  cacciator  nel  fianco, 

E il  ferito  fuggi  dal  feritore 

Finché  fu  caldo  il  sangue  e lesto  il  piede; 

Ma  domo  alfine  dallo  strai  nel  bosco 
Lo  dismembran  le  linci;  allor,  se  guida 
Colà  fortuna  un  ficr  lion,  disperse 
Sfrattano  quelle,  ed  ei  fa  sua  la  preda; 

Molta  turba  cosi  di  valorosi 

Teucri  intorno  al  pugnace  astuto  Ulisse 

Aggirasi;  ma,  l’asta  dimenando. 

L’eroe  tien  lungi  la  fatai  sua  sera. 

E comparir  tremendo  ecco  d' Ajace 
Il  torreggiante  scudo;  eccolo  fermo 
Dinanzi  a quell’oppresso,  e scombujarsi 
Chi  qua  chi  là  per  lo  spavento  i Teucri. 

Per  man  lo  prende  allora  il  generoso 
Minor  Atride,  e fiior  dell’ armi  il  tragge. 

Finché  l’auriga  i corridor  gli  adduca. 

Ma  il  Telamónio  eroe,  centra  i Trojani 
Irrompendo,  il  Priamide  bastardo 
Doride  uccide;  e poi  Pandoco,  e poi 
Lisandro  fiede  c Piraso  e Pilarte. 

Mosti.  Iliade. 


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2^2  ILIADE  V.  66|'70o 

E come  quando  ruinoso  un  fiume  ^ 

Cui  crebbe  l’invernai  pioggia  di  Giove, 

Si  devolve  dal  monte  alla  pianura, 

E,  molte  aride  querce  e molti  pini 
Rotando,  spinge  una  gran  torba  al  mare; 

Tal,  cavalli  tagliando  e cavalieri, 

L’illustre  Àjace  furioso  insegue 

Per  lo  campo  i Trojani;  e non  per  anco 

N’aveva  Ettoire  udita  la  mina, 

Cb’ei  della  zuffa  sul  sinistro  corno 
Pugnava  in  riva  allo  Scamandro,  dove 
Q cader  delle  teste  era  piu  spesso, 

E infinito  il  clamor  dintorno  al  grande 
Nèstore  e al  marzio  Idomenéo.  Qui  stava 
Ettore,  e oprava  orrende  cose,  e densa 
Colla  lancia  e col  carro  distruggeva 
La  gioventude  aebea.  Nè  ancor  per  tanto 
Avrìan  gli  Argivi  abbandonato  il  campo, 

Se  il  bel  marito  della  bella  Elèna, 

Alessandro,  ritrar  non  fea  dall’ armi 
n bellicoso  Macaon,  ferendo 
L’illustre  duce  all’ òmero  diritto 
Con  trisulca  saetta.  Di  quel  colpo 
Tremàr  gli  Acbivi,  e si  scorar,  temendo 
Che,  inclinata  di  Marte  la  fortuna. 

Non  vi  restasse  il  buon  guerriero  ucciso. 

Onde  a Nèstore  vólto  Idomenèo: 

Eroe  Neli'de,  ei  disse,  alto  splendore 
Degli  Acbivi,  t’afiretta;  il  carro  ascendi, 

E Macaone  vi  raccogli,  e ratto 

Sferza  i cavalli  al  mar,  salva  quel  prode; 

Ch’egli  vai  molte  vite,  e non  ha  pari 
Nel  cavar  dardi  dalle  piaghe,  e spargerle 
Di  balsamiche  stille.  — A questo  dire 
Montò  l’antico  cavaliero  il  cocchio 
Subitamente;  vi  raccolse  il  figlio 
D’Esculapio,  divin.  medicatore; 

Sferzò  i destrieri,  e quei  volaro  al  lido 
Volonterosi  e dal  desio  chiamati. 

Vide  in  questa  de’  Teucri  lo  scompiglio 


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LIBRO  XI 


<^43 


I».  70i*7.'|0 

Cebriun,  clic  d'EUom;  al  fianco  stava; 

E,  rivolto  a quel  duce:  Elltorc,  ui  disse, 
Noi  di  Danai  qui  stiamo  a far  macello 
Nel  corno  estremo  dell’orrenda  mischia, 
E gli  altri  Teucri  intanto  in  fuga  vanno, 
Cavalli  e battaglicr  cacciati  e rotti 
Dal  Telamónio  Ajace:  io  ben  lo  scemo 
All’  ampio  scudo  che  gli  copre  il  petto. 
Drizziamo  il  carro  a quella  volta;  ch’ivi 
Più  feroce  de’  fanti  c cavalieri 
È la  zuffa , e più  forti  odo  le  grida. 

Cosi  dicendo , col  flagcl  sonoro 

I ben  chiomati  corridor  percosse, 

Che,  sentita  la  sferza,  a tutto  corso 

Fra  i Troiani  e gli  Achei  traean  la  biga, 
Cadaveri  pestando  ed  elmi  e scudi. 

Era  tutto  di  sangue  orrido  e lordo 
L’asse  di  sotto  c l’ambito  del  cocchio. 
Cui  l’ugna  de’  corsieri  e la  veloce 
Ruota  spargean  di  larghi  sprazzi.  Anela 

II  teucro  duce  di  sfondar  la  turba, 

E spezzarla  d’  assalto.  In  un  momento 
Gli  Achivi  sgominò,  sempre  coll’asta 
Fulminando;  e scorrendo  entro  le  file. 
Colla  lancia,  col  brando  e con  enormi 
Macigni  le  rompea.  Solo  d’Ajacc 
Evitava  lo  scontro.  Ma  l’Eterno 
AltO'sedente  al  cor  d’Ajacc  incusse 
Tale  un  terror,  che  attonito  ristette, 

E paventoso  si  gittò  sul  tergo 
La  settemplice  pelle;  e,  nel  dar  volta. 
Come  una  fiera  si  guatava  intorno 
Nel  mezzo  della  turba , e tardi  e lenti 
Alternando  i ginocchi,  all’inimico 
Ad  or  ad  ora  converti'a  la  fronte. 

Come  fulvo  leon,  che  dall’ovile 
Vien  da’  cani  cacciato  e da’  pastori. 

Che  de’  buoi  gli  firastomano  la  pingue 
Preda,  la  notte  vigilando  intera; 

Famelico  di  carac  ei  nondimeno 


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a44 


ILIADE 


Dritto  si  scaglia,  e in  van,  chè  dall’ ardite 
Destre  gli  piove  di  saette  un  nembo 
E di  tizzi  e di  faci,  onde  il  feroce 
Atterrito  rifugge,  e in  sul  mattino 
Mesto  i campi  traversa,  e si  rinselva; 

Tale  Ajace  da’  Teucri,  in  suo  cor  tristo 
E di  mal  grado  assai,  si  diparti'a. 

Delle  navi  temendo.  E quale  intorno 
Ad  un  pigro  somier,  che  nella  messe 
Si  ficcò,  s’arrabattano  i fanciulli, 

Molte  verghe  rompendogli  sul  tergo  ^ 

Ed  ei  pur  segue  a cimar  l’alta  biada. 

Nè  de’  lor  colpi  cura  la  tempesta^ 

Chè  la  forza  è bambina,  e appena  il  ponno 
Allontanar  poiché  satolla  ha  l’epa; 

Non  altrimenti  i Teucri  e le  coorti 
Collegate  inseguian  senza  riposo 
Il  gran  Telamom'de , e colle  basse 
Lance  nel  mezzo  gli  ferìan  Io  scudo. 

Ma  memore  l'eroe  di  sua  virtude. 

Or  rivolta  la  faccia,  e le  falangi 
Respinge  de’  nemici,  or  lento  i passi 
Move  alla  fuga:  e si  potette  ci  solo, 

Che  di  sboccarsi  al  mar  tutti  rattenne. 
Ritto  in  mezzo  ai  Trojan!  ed  agli  Achivi 
Infuriava,  e sostcnea  di  strali 
Una  gran  selva  sull’immenso  scudo, 

E molti  a mezzo  spazio  e senza  forza. 

Pria  che  il  corpo  gustar,  pcrdcano  il  volo, 
Desiosi  di  sangue.  In  questo  stato 
Lo  mirò  d’Evemon  l’inclito  figlio, 

Eun'pilo;  ed  a lui,  che  sotto  il  nembo 
Degli  strali  languia,  fatto  dappresso, 

A vibrar  cominciò  l’asta  lucente, 

E il  duce  Apisaon , di  Fausia  figlio , 
Nell’epate  percosse,  e gli  disciolse 
De’  ginocchi  il  vigor.  Sovra  il  caduto 
Eun'pilo  awentossi,  e le  bell’ armi 
Di  dosso  gli  traea.  Ma  come  il  vide 
Paride,  il  drudo  di  beltà  divina, 


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•.  ;8i-8io  LIBRO  XI  >4^ 

Del  morto  Apisaon  l’armi  rapire, 

Mise  in  cocca  lo  strale,  e d’aspra  punta 
La  destra  coscia  gli  ferì.  Si  franse 
11  calamo  pennuto',  e tal  nell’anca 
Spasmo  destò,  che  ad  ischivar  la  morte 
Gli  fu  mestieri  ripararsi  a’  suoi. 

Alto  gridando:  O amici,  o prenci  achiri. 

Volgetevi',  sostate;  liberate 

Da  morte  Ajace;  egli  è da’  teli  oppresso, 

S\  ch’io  pavento,  ohimè!  che  piè  non  abbia 
Scampo  l’eroe:  correte;  circondate 
De’  vostri  petti  il  Telamónio  figlio. 

Cosi  disse  il  ferito;  e quelli  a gara. 

Stretti  inclinando  agli  òmeri  gli  scudi, 

C Faste  sollevando,  al  grande  Ajacc 
Si  fèr  dappresso;  ed  ei  venuto  in  salvo 
Tra’  suoi,  di  nuovo  la  terribil  faccia 
Converse  all’inimico.  In  colai  guisa, 

Come  fiamma,  tra  questi  ardea  la  zuffa. 

Di  sudor  molli  intanto  c polverose 
Le  cavalle  nelée  fuor  della  pugna 
Traean,  col  duce  Macaon,  Nestorre. 

Lo  vide  il  divo  Achille,  e lo  conobbe, 

Mentre  ritto  si  stava  in  su  la  poppa 
Della  sua  grande  capitana,  e il  fiero 
Lavor  di  Marte,  e degli  Achei  mirava 
La  lagrimosa  fuga.  Incontanente 
Mise  un  grido,  e chiamò  dall’alta  nave 
Il  compagno  Patròclo:  e questi  appena 
Dalla  tenda  l’udi,  che  fuori  apparve 
In  marz'ial  sembianza;  e da  quel  punto 
Eibbe  inizio  fatai  la  sua  sventura. 

Parlò  primiero  di  Menézio  il  figlio: 

A che  mi  chiami,  a che  mi  brami,  Achille? 

O mio  diletto  nobile  Patròclo, 

Gli  rispose  il  Pelide,  or  sì  che  spero 
Supplicanti  e prostesi  a’  miei  ginocchi 
Veder  gli  Achivi;  che  suprema  c dura 
Necessità  li  preme.  Or  vanne,  o caro; 

Vanne,  e chiedi  a Nestòr  chi  quel  ferito 


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ILIADE 


9.  8ii*86o 


Sia,  eh’ ci  ritragge  «lalla  pugna.  Il  vidi  . ^ 

Ben  io  da  tergo,  e Macaon  mi  parve, 
D’Esciilapio  il  Cgliuo4  ma  del  guerriero 
Non  vidi  il  volto;  ehè  veloci  innanzi 
JVIi  passar  le  cavalle,  e via  sparirò. 

Disse;  e Patroclo,  obbctliente  al  cenno 
Dell’  amico  diletto , già  eorrca 
Tra  le  navi  e le  tende.  E quelli  intanto 
Del  buon  Neb'dc  al  padiglion  venuti 
Dismontaro,  e l’auriga  Eurimedonte 
Sciolse  dal  carro  le  nelce  puleilrc, 

Mentr’cssl  al  vento  asciugano  sul  lido 
Le  tuniche  sudate,  c delle  membra 
Rinirescano  la  vampa;  indi  raccolti 
Dentro  la  tenda  s’ adagiar  su  i seggi. 
Apparecchiava  intanto  una  bevanda 
^a  ricciuta  Ecaméde.  Era  costei 
Del  magnanimo  Àrsi'noo  una  Bgliuola , 

Che  il  buon  vecchio  da  Ténedo  condotta 
Àvea  quel  dì,  che  la  distrusse  Achille; 

E a lui , perchè  vincea  gli  altri  di  senno , 

Fra  cento  eletta  la  donàr  gli  Achivi. 

Trass’ella  innanzi  a lor  prima  un  bel  desco 
Su  piè  sorretto  d’un  color,  che  imbruna; 

Sovra  il  desco  un  tagUer  pose  di . rame , 

E fresco  miei  sovresso,  e la  cipolla 
Del  largo  bere  in-itatrice,  e il  bore 
Di  sacra  polve  cercai.  V aggiunse 
Un  bellissimo  nappo,  che  recato 
Aveasi  il  veglio  dal  paterno  tetto. 

D’aurei  chiovi  trapunto,  a doppio  fondo. 

Con  quattro  orecchie,  e intorno  a ciascheduna 
Due  beventi  colombe,  auree  pur  esse. 

Altri  a stento  l’avria  colmo  rimosso; 

L’alzava  il  veglio  agevolmente.  In  questo 
La  simile  alle  Dee  presta  donzella 
Pramnio  vino  versava;  indi,  tritando 
Su  le  spume  caprin  latte  rappreso, 

E spargendovi  sovra  un  leggici-  nembo 
Di  candida  farina,  una  bevanda 


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UBKO  XI 


r.  86i-goo 


Uscir  ne  fece  di  coUl  mistura, 

Che  apprestata  e libata,  ai  due  guerrieri 
La  sete  estinse,  e rinfrancò  le  forze. 

Diersi,  ciò  fatto,  a ricrear,  parlando, 

Gli  affaticati  spirti;  e sulla  soglia 
Bieco  apparir  Patróclo,  e soffermarsi 
In  sembianza  di  nume  il  giovinetto. 

Nel  vederlo,  levossi  il  vecchio  in  piedi 
Dal  suo  lucido  seggio,  e l’introdusse, 
Presol  per  mano,  e di  seder  pregollo. 

Egli  all’invito  resistea,  dicendo: 

Di  seder  non  m’è  tempo,  egregio  veglio, 
Nè  obbedirti  poss’io.  Tremendo,  iroso 
È colui,  che  mi  manda  a interrogarti 
Del  guerrier,  che  ferito  hai  qui  condotto. 
Or  io  mel  so  per  me  medesmo,  e in  lui 
Ravviso  il  duce  Macaon.  Ritorno 
Dunque  ad  Achille  relator  di  tutto. 

Sai  quanto,  augusto  veglio,  ei  sia  stizzoso, 
E a colpar  pronto  l’innocente  ancora. 

Disse;  e il  gerenio  cavalier  rispose: 

E donde  avvien,  che  de’  feriti  Achivi 
Sente  Achille  pietà?  Nè  ancor  sa  quanta 
Pel  campo  s’innalzò  nube  di  lutto. 

Piagati  altri  da  lungi,  altri  da  presso, 
Nelle  navi  languiscono  i più  prodi. 

Di  saetta  ferito  è Diomede, 

D’asta  l’inclito  Ulisse  e Agamennòne, 
Eurìpilo  di  strale  nella  coscia, 

E di  strale  egli  por  questo,  che  vedi 
Da  me  condotto.  Il  prode  Achille  intanto 
Ninna  si  prende  nè  pietà  nè  cura 
Degl’infelici  Achivi.  Aspetta  ei  forse, 

Che,  mal  grado  di  noi,  la  fiamma  ostile 
Arda  al  lido  le  navi,  e che  noi  tutti 
L’un  su  l’altro  cadiam  trafitti  e spenti? 
Ahi  che  la  possa  mia  non  è più  quella, 

Gh’ agili  un  tempo  mi  facea  le  membra! 
Oh  quel  fior  m’avess’io  d’anni  e di  forza, 
Ch’io  m’ebbi  allor  che  per  rapiti  armenti 


x47 


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ILIADE 


»•  901-9^0 


Tra  noi  sursc  e gli  Eiléi  fiera  contesa! 

Io  predai  con  ardita  rappresaglia 
Del  nemico  le  mandre,  e l’ebese 
Ipirochide  Itimonéo  distesi. 

Combattca  de’  suoi  tauri  alla  difesa 
L'uom  forte,  e un  dardo  di. mia  mano  uscito 
Lui  tra’  primi  percosse^  e,  al  suo  cadere, 
L’agreste  torma  si  disperse  in  fuga. 

Noi  molta  preda  n’  adducemmo  e ricca  : 

Di  buoi  cinquanta  armenti,  ed  altrettante 
Di  porcelli,  d’aguellc  e di  caprette, 

Distinte  mandre,  e cento  oltre  cinquanta 
Fulve  cavalle,  tutte  madri,  e molte 
Col  poledro  alla  poppa.  Ecco  la  preda, 

Che  noi  di  notte  nc  menammo  in  Pilo. 

Gioì  Neléo,  vedendo  il  giovinetto 
Figlio  guerrier  di  tante  spoglie  opimo. 

Venuto  il  giorno,  la  sonora  voce 
De’  banditor  chiamò  tutti  cui  fosse 
Qualche  compenso  dagli  Elei  dovuto. 

Di  Pilo  i capi  congregarsi^  e grande 
Sendo  il  dovere  degli  Elei,  fu  tutta 
Scompartita  la  preda,  e riutegrate 
L’ antiche  offese;  perciocché  la  forza 
D' Ercole  avendo  desolata  un  giorno 
La  nostra  terra,  e i più  prestanti  uccisi, 

E di  dodici  figli  di  Neléo 
Prodi  guerrier  rimasto  io  solo  in  Pilo 
Con  altri  pochi  oppressi,  i baldanzosi 
Elei,  di  nostre  disventurc  alteri. 

N’insultar,  ne  fér  danno.  Or  dunque  in  serbo 
Tenne  il  vecchio  per  sé  di  tauri  intero 
Un  armento  trascelto,  e un’ampia  greggia 
Di  ben  trecento  pecorelle,  insieme 
Co’  mandriani:  giusta  ricompensa 
Di  quattro  egregi  corridoi',  mandali 
In  im  col  caiTO  a conquistargli  un  tripode 
Nell’  olimpica  polve , e dall’  eleo 
Rege  rapiti,  rimandando  spoglio 
De’  bei  corsieri  il  doloroso  auriga. 


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LIBRO  ZI 


>49 


».  94*-9^ 

Di  qnesti  oltraggi  il  TeccUo  padre  irato, 

Larga  preda  si  tolse,  e al  popol  diede. 

Giusta  il  dovuto,  a ripartirsi  il  resto. 

Mentre  intenti  ne  stiamo  a queste  cose, 

E ollriam  per  tutta  la  città  solenni 
Sacrifici  agli  Eterni,  ecco  nel  terzo 
Giorno  gli  Elèi  con  tutte  de'  lor  fanti 
E cavalli  le  forze  in  campo  uscire. 

Ed  ambedue  con  essi  i Moboni, 

Giovinetti  ancor  sori  ed  inesperti 
Negl’impeti  di  Marte.  Su  l’Alféo 
In  arduo  colle  assisa  è una  cittade. 

Trioessa  nomata,  ultima  terra 

Dell’arenosa  Pilo.  Desiosi 

Di  porla  al  fondo,  la  cingean  d’assedio. 

Ma  come  tutto  superavo  il  campo. 

Frettolosa  e notturna  a noi  discese 
Dall’Olimpo  Minerva  ad  avvisarne 
Di  pigliar  l’armi^  e congregò  le  turbe 
Per  la  cittade,  non  già  lente  e schive. 

Ma  tutte  accese  del  desio  di  guerra. 

Non  mi  assentiva  il  genitor  Neléo 
L’uscir  con  gli  altri  armato^  e perchè  destro 
Nel  fiero  Marte  ancor  non  mi  credea, 
Occultommi  i destrieri.  Ed  io  pedone 
V’andai  scorto  da  Pallade,  e tra’  nostri 
Cavalier  mi  distinsi  in  quella  pugua. 

Sul  fiume  Minieo,  che  presso  Arena 
Si  devolve  nel  mar,  noi  squadra  equestre 
Posammo  ad  aspettar  l’ alba  divina , 

Finché  n’avesse  la  pedestre  aggiunti. 

Riunito  l’esercito,  movemmo 
Ben  armati  ed  accinti,  e sul  merigge 
D’Àlféo  giungemmo  all’ onde  sacre.  Quivi 
Propiziammo  con  opime  ofierte 
L’  onnipossente  Giove  ^ al  fiume  un  toro 
Svenammo,  un  altro  al  gran  Nettunno,  e intatta 
A Palla  una  giovenca.  Indi  pel  campo. 

Preso  a drappelli  della  sera  il  cibo. 

Tutti  nc  demmo,  ognun  coll’ armi  indosso, 


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aSo  ILIADE  ».  981-10» 

Lungo  il  fiume  a dormir.  Stringean  frattanto 
D’assedio  la  cittade  i forti  Elèi, 

D’ espugnarla  bramosi.  Ma  di  Marte 
Ebber  tosto  davanti  una  grand’opra. 

Brillò  sul  volto  della  terra  il  Sole^ 

E noi  Minerva  supplicando  e Giove, 

Appiccammo  la  zufia.  Aspro  fu  il  cozzo 
Delle  due  genti,  ed  io  primiero  uccisi 
(E  i corsieri  gli  tolsi)  il  bellicoso 
Mulio,  gener  d’Augia,  del  quale  in  moglie 
La  maggior  figlia  possedea,  la  bionda 
Agaméde,  cui  nota  era,  di  quante 
L’almo  sen  della  terra  erbe  produce. 

La  medica  virtù.  Questo  io  trafissi 
Coll’asta,  e lo  distesi,  e,  dell’ucciso 
Salito  il  cocchio,  mi  cacciai  tra’  primi. 

Visto  il  duce  cader  de’  cavalieri. 

Che  gli  altri  tutti  di  valor  vincea. 

Si  sgomentaro  i generosi  Elei , 

E fuggir  d’ogni  parte.  Io,  come  turbo. 

Mi  serrai  loro  addosso,  e di  cinquanta 
Carri  fei  preda,  e intorno  a ciascheduno 
Mordeaii  la  polve  dal  mio  ferro  ancisi 
Due  combattenti.  E messi  a morte  avrei 
Gli  Attóridi  pur  anco,  i due  medesmi 
Molioni,  se  fuor  della  battaglia 
Non  li  traea,  coprendoli  di  nebbia. 

Il  gran  rege  Nettunno.  Al  nostro  ardire 
Alta  vittoria  allor  Giove  concesse^ 

Perocché  per  lo  campo,  tutto  sparso 
Di  scudi  e di  cadaveri,  tant’ oltre 
Gl' inseguimmo  uccidendo,  e raccogliendo 
Le  bell’ armi  nemiche,  che  spingemmo 
Fino  ai  buprasj  solchi  i corridori. 

Fino  all’  olenio  sasso , ed  alla  riva 
D’Alcsio,  al  luogo,  che  Calon  si  noma. 

Qui  fér  alto,  per  cenno  di  Minerva, 

I vincitori^  c qui  l’estremo  io  spensi. 

Da  Buprasio  frattanto  i nostri  prodi 
Riconduceano  a Pilo  i polverosi 


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r.  toji-106»  IJ»*0  M aSi 

Carri,  e dar  lande  si  sentla  da  tnUi 
A Giove  in  cielo,  ed  a Ncstorre  in  terra. 

Tal  nelle  pugne  apparve  il  valor  mio. 

Ma  del  valor  d’Acbille  il  solo  Achille 
Cedrassi;  e quando  consumati  ahi!  tutti 
Vedrà  gli  Achivi,  piangerà,  ma  indarno. 

Caro  Patroclo,  nel  pensier  richiama 
Di  Menézio  i precetti,  onde  il  buon  veglio 
T’accompagnava  il  giorno,  che  da  Ftia 
Ti  spediva  all’Atride  Agamennone. 

Fummo  presenti,  e gli  ascoltammo  interi 
Il  divo  Ulisse  ed  io  Nestorre,  entrambi 
Al  regai  tetto  di  Peléo  venuti 
A far  eletta  di  guerrieri  achei. 

Ivi  l’eroe  Menézio  e te  vedemmo 
D’Achille  al  fianco.  Il  cavalier  PeUo, 

Venerando  vegliardo,  entro  il  cortile 
Al  fulminante  Giove  ardea  le  pingui 
Cosce  d’un  tauro,  e sull’ ardenti  fibre 
Negro  vino  da  nappo  aureo  versava. 

Voi  vi  stavate  preparando  entrambi 
Le  sacre  carni,  e noi  giungemmo  in  quella 
Sul  limitar.  Stupì,  levossi  Achille; 

Per  man  no  prese,  e n’introdusse;  in  seggio 
Nc  collocò;  ne  pose  innanzi  i doni 
Che  il  santo  dritto  dell’ospizio  chiede. 

Ristorati  di  cibo  e di  bevanda, 

Io  parlai  primamente,  e v’esortava 
L’uno  e l’altro  a seguirne;  e il  bramavate 
Voi  fortemente.  E quai  de’  due  cannti 
Furo  allora  i conforti?  Al  figlio  Achille 
Raccomandò  Pelòo  l’oprar  mai  sempre 
Da  prode,  e a tutti  di  valor  star  sopra. 

Ma  vólto  a te  l’Attóride  Menézio: 

Figlio,  il  vecchio  dicca,  ti  vince  Achille 
Di  sangue,  e tu  lui  d’anni;  egli  di  forza, 

Tu  di  consiglio.  Con  prudenti  avvisi 
Dunque  il  governa  e l’ammonisci,  e all’uopo 
T obbedirà.  Tal  era  il  suo  precetto  ; 

Tu  l’obblYasti.  Or  via;l’adempi  adesso. 


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ILUDB 


1061-1100 


a5i 

Parla  all'amico  bellicoso,  e tenta 
Siiaderlo.  Chi  sa?  Qualche  buon  Dio 
Animerà  le  tue  parole,  c l’alma 
Toccherà  di  quel  fiero.  Ài  cor  va  sempre 
L’ammonimento  d'un  diletto  amico. 

Chè  s’ei  paventa  in  suo  segreto  un  qualche 
Vaticinio , se  alcuno  a lui  da  Giove 
La  madre  ne  recò,  te  mandi  almeno 
Co’  MIrmidóni  a confortar  gli  Àchivi 
Nella  battaglia,  e l’armi  sue  ti  ceda. 

Forse  ingannati  dall’aspetto  i Teucri 
Ti  crederan  lui  stesso,  e fuggiranno, 

E gli  egri  Achei  respireranno:  è spesso 
Di  gran  momento  in  guerra  un  sol  respiro. 

E voi  freschi  guerrieri  agevolmente 
Respingerete  lo  stanco  nemico 
Dalle  tende  c dal  mare  alla  cittadc. 

Sì  disse  il  saggio;  e tutto  si  commosse 
Il  cor  nel  petto  di  Patróclo.  Ei  corse 
Lungo  il  lido  ad  Achille;  c giunto  all’alta 
Capitana  d’ Ulisse,  ove  nel  mezzo 
Ài  santi  altari  si  tenea  ragione 
E parlamento,  d’  Evemonc  il  figlio, 

Euripilo,  scontrò,  che  di  saetta 
Ferito  nella  coscia  e vacillante 
Dalla  pugna  partia.  Largo  il  sudore 
Gli  discorrea  dal  capo  e dalle  spalle, 

E molto  sangue  dalla  ria  ferita. 

Ma  intrepida  era  l’alma.  Il  vide,  e n’ebbe 
Pietade  il  forte  Meneziade;  e a lui, 
Lagrimando , si  volse  : Oh  sventurati 
Duci  Achei!  così  dunque,  ohimè!  lontani 
Dai  cari  amici  e dalla  patria  terra 
De’  vostri  corpi  saziar  di  Troja 
Dovevate  le  belve?  Eroe  divino 
Euripilo,  rispondi:  Sosterranno 
Gli  Achei  la  possa  dell’immane  Ettorrc, 

O cadran  spenti  dal  suo  ferro?  — Oh  diva 
Stirpe,  Patróclo!  (Euripilo  rispose) 

Nullo  è più  scampo  per  gli  Achei,  se  scampo 


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V.  iioi*it3i 


LIBRO  XI 


>53 


^on  ne  danno  le  navi.  I più  gagliardi 
Tutti  giaccion  feriti,  e ognor  più  monta 
De’  Trojani  la  forza.  Or  tu  cortese 
Conservami  la  vita.  Alla  mia  nave 
Guidami,  e svelli  dalla  coscia  il  dardo; 

Con  tepid’onda  lavane  la  piaga, 

E su  vi  spargi  i farmaci  salubri. 

De’  quali  è grido  che  imparata  hai  l’arte 
Dal  Peh'de,  e il  Pelide  da  Chirone, 

De’  Centauri  il  più  giusto.  Or  tu  m’ai'ta; 

Chè  Podalirio  e Macaon  son  lungi: 

Questi,  credo,  in  sua  tenda,  anch’ ei  piagato 
È di  medica  man  necessitoso; 

L’ altro  co’  Teucri  in  campo  si  travaglia. 

Qual  fia  dunque  la  fin  di  tanti  affanni  f 
Soggiunse  di  Men<:zio  il  forte  figlio: 

E che  faremo,  Eurìpilo?  Gran  fretta 

Mi  sospinge  ad  Achille  a riportargli 

Del  guardiano  degli  Achei  Nestorre 

Una  risposta;  ma  pietà  non  vuole 

Che  in  questo  stato  io  t’abbandoni.  — 11  cinse 

Colle  braccia,  ciò  detto,  e nella  tenda 

Il  menò,  l’adagiò  sopra  bovine 

Pelli  dal  servo  acconciamente  stese; 

Indi  col  ferro  dispiccò  dall’anca 
L’acerbissimo  strale,  e con  tepenli 
Linfe  la  tabe  ne  lavò.  Vi  spresse 
Poi  colle  palme  il  leniente  sugo 
D’uu’amara  radice.  Incontanente 
Calmossi  il  duolo,  ristagnossi  il  sangue, 

Ed  asciutta  si  chiuse  la  ferita. 


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LIBRO  DUODECIMO 


ARGOMENTO 


I Troi^ttì,  UKÌati , |wr  coa»igìù>  di  Polidamuilef  t oro  r«m , vamno  la  fotu  che  cir- 
conda gli  acqmpimeoli  dei  Greri } e benché  cpatcuUtì  da  ud  prodigio  celnlc  | pure  mmI- 
gOfw  U muraglia.  Sarpedoote  oe  frolla  uno  dei  lorrii.  Ajaee  r Teucro  oyipongonsi  a Ini. 
Ettore  « infrante  con  uu  nufiguo  le  {orte,  mira  legiulu  dai  Tmjani.  1 Gmi  fuggouo  verto 
le  navi. 


Così  dentro  alle  tende  medicava 
D’  Euripilo  la  piaga  il  valoroso 
Meneziade.  Frattanto  alla  rinfusa 
Pugnan  Teucri  ed  Achei;  nè  scampo  a questi 
E più  la  fossa  ornai,  nè  l'ampio  muro 
Che  l'armata  cingea.  L'avcan  gli  Achivi 
Senza  vittime  eretto  a custodire 
I navigli  e le  prede.  EdiGcato 
Dunque  malgrado  degli  Dei,  gran  tempo 
Non  durò.  Finché  vivo  Ettore  fue, 

E irato  Achille  , e Troja  in  piedi , il  muro 
Saldo  si  stette;  ma  de’  Teucri  estinte 
L'almc  piu  prodi,  e degli  Achei  pur  molte, 

E al  dccim’anno  Ilio  distrutto,  e il  resto 
Degli  Argivi  tornato  al  patrio  lido , 

Decretar  del  gran  muro  la  caduta 
Nctlunno  e Apollo,  l’impeto  sfrenando 
Di  quanti  fiumi  dalle  cime  idee 
Si  devolvono  al  mai',  Reso,  Granico, 

Rodio,  Carcso,  Eptaporo  ed  Esépo 


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j|.6o  ILIADE,  LIBRO  XII  355 

E il  divino  Scamandro  e Simoenta 
Che  volge  sotto  Tonde  agglomerati 
Tanti  scudi,  tant’  elmi  e tanti  croi. 

Di  questi  rivoltò  Febo  le  bocche 
Contro  l’ alta  muraglia,  e vi  sospinse 
Nove  giorni  la  piena.  Intanto  Giove, 

Perchè  più  ratto  l’ ingojasse  il  mare. 

Incessante  piovea.  Nettunno  istesso 
Precorrea  le  fiumane,  e col  tridente 
E coll’  onda  atterrò  le  fondamenta 
Che  di  travi  e di  sassi  v’  avean  posto 
1 travigliosi  Àchivi^  infin  che  tutta 
Al  piano  1’  adeguò  lungo  la  riva 
Dell’ Ellesponto.  Smantellato  il  muro, 

Fe  di  quel  tratto  un  arenoso  lido, 

E tornò  le  bell’acque  al  letto  antico. 

Di  Nettunno  (piest’era  e in  un  d’ Apollo 
L'opra  futurSL  Ma  la  pugna  intorno 
A quel  valido  muro  or  ferve  e mugge. 

Cigolar  delle  torri  odi  percosse 
Le  compàgi,  e gli  Achei  dentro  le  navi 
Chiudonsi  domi  dal  flagel  di  Giove, 

E paventosi  dell’ ettoreo  braccio. 

Impetuoso  artefice  di  fuga^ 

Perocché  pari  a turbine  l’eroe 
Sempre  combatte.  E qual  cinghiale  o bieco 
Leon,  cui  fanno  cacciatori  e cani 
Densa  corona,  di  sue  forze  altero 
Volve  dintorno  i truci  occhi,  nè  teme 
La  tempesta  de’ dardi  nè  la  morte. 

Ma  generoso  si  rigira,  e guarda 

Dove  slanciarsi  fra  gli  armati^  e , ovunque 

Urta,  s'arretra  degli  armati  il  cerchio^ 

Tal  fra  l’armi  s’avvolge  il  teucro  duce, 

I suoi  spronando  a valicar  la  fossa. 

Ma  non  l’ ardian  gli  ardenti  corridori 
Che  mettean  fermi  all’orlo  alti  nitriti. 

Dal  varco  spaventati  arduo  a saltarsi 
E a tragittarsi^  perocché  dintorno 
S’aprìan  profondi  precipizi,  e il  sommo 


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i56 


lUADE 


^ 6t«lCM> 


Margo  d' acati  pali  era  mnnito, 

Di  che  folto  v’avean  contro  il  nemico 
Confitto  un  bosco  gli  operosi  Achei , 

Tal  che  passarvi  non  potean  le  rote 
Di  volubile  cocchio.  Ma  bramosi 
Ardean  d’ entrarvi  e superarlo  i fanti. 

Fattosi  innanzi  allor  Polidamante, 

Ad  Ettore  si  disse:  Ettore,  e voi 
Duci  trojani  e collegati , udite  : 

Stolto  ardire  è il  cacciar  dentro  la  fossa 
Gli  animosi  cavalli.  E non  vedete 
Il  difficile  passo  e la  foresta 
D'acute  travi  che  circonda  il  maro? 

Di  ninna  guisa  ai  cavalier  non  lice 
Calarsi  in  quelle  strette  a far  conflitto, 

Senza  periglio  di  mortai  ferita. 

Se  il  Tonante  in  sno  sdegno  ha  risoluta 
Degli  Achei  la  mina  e il  nostro  scampo , 

Ben  io  vorrei,  che  questo  intervenisse 
Qui  tosto,  e che  dal  caro  Argo  lontani 
Perdesser  tutti  coll’  onor  la  vita. 

Ma  se  voltano  fronte,  e dalle  navi 
Erompendo  con  impeto,  nel  fondo 
Ne  stringono  del  fosso,  allor,  cred’io. 

Ninno  in  Troja  di  noi  nunzio  ritorna 
Salvo  dal  ferro  de’ conversi  Achei. 

Diam  dunque  effetto  a un  mio  pcnsicr  : sul  fosso 
Ogni  auriga  rattenga  i corridori; 

E noi  pedoni , corazzati  c densi , 

Tutti  in  punto  seguiam  l’ orme  d’ Ettorre. 

Non  sosterranno  il  nostro  urto  gli  Achivi, 

Se  l’ora  estrema  del  lor  fato  è giunta. 

Disse;  e ad  Ettore  piacque  il  saggio  avviso. 
Balzò  dunque  dal  carro  incontanente 
Tutto  nell’ armi,  e balzàr  gli  altri  a gara. 

Visto  l’esempio  di  quel  divo.  Ognuno 
Fe  precetto  all’  auriga  di  sostarsi 
Co’  destrieri  alla  fossa  in  ordinanza; 

Ed  essi  in  cinque  battaglion  divisi 
Seguirò  i duci.  Andò  la  prima  squadra 


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LIBRO  XII 


l'.  10l*l4o 


Con  Ettore  e col  buon  Polidamante-, 

Ed  era  questa  il  fiore  e il  maggior  nerbo 
De’  combattenti , desiosi  tutti 
Di  spezzar  l'alto  muro,  e su  le  navi 
Portar  la  pugna:  terzo  condottiero 
Li  scguia  Cebii'on,  messo  in  sua  vece 
Alla  custodia  dcll'ettorco  carro 
Altro  men  prode  auriga.  Erano  i duci 
Della  seconda  Paride,  Alcatóo 
Ed  Agenorre:  della  terza  il  divo 
Deifobo  ed  Eléno  ed  Asio,  il  prode 
D'Irtaco  figlio,  cui  d’Arisba  a Troja 
Portarono  e dall'  onda  Selleente 
Due  dcstrier  di  gran  corpo  e biondo  pelo. 
Capitan  della  quarta  era  d’Ancbise 
L'egregia  prole.  Enea,  co' due  d'Anténore 
Pugnaci  figli,  Archiloco  e Acamante. 
Degl'incliti  alleati  è condottiero 
Sarpedonte,  con  Glauco  e Asteropéo, 

Da  lui  compagni  del  comando  assunti 
Come  i più  forti  dopo  sè,  tenuto 
n più  forte  di  tutti.  In  ordinanza 
Posti  i cinque  drappelli,  e di  taurine 
Targhe  coperti,  mossero  animosi 
Contro  gli  Achei,  sperando  entro  le  navi 
Precipitarsi  alfin  senza  ritegno. 

Mentre  tutti  e Trojani  ed  alleati 
Al  consiglio  obbedian  dell'  incolpato 
Polidamante,  il  duce  Asio  sol  esso 
Lasciar  nè  auriga  nè  corsier  non  volle, 

Ma  vèr  le  navi  li  sospinse.  Insano  ! 

Que' corsieri,  quel  cocchio,  ond'egli  csnlta  , 
Noi  terranno  alla  morte , e dalle  navi 
In  Ilio,  no,  noi  tomeran.  La  nera 
Parca  già  il  copre,  e all'asta  lo  consacra 
Del  chiaro  Deucalide  Idomenéo. 

Alla  sinistra  del  naval  recinto. 

Ove  carri  c cavalli  in  gran  tumulto 
Venian  cacciando  i fuggitivi  Achei, 
Spius'cgli  i suoi  corsier  verso  la  porta, 
Mosti.  Iliade,  i] 


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a58 


ILIADE 


r.  i^l-iSo 


Non  già  di  sbarre  assicurata  e chiusa, 

Ma  spalancata  e da  guerrier  difesa 
A scampo  de'  fuggenti.  11  coraggioso 
Flagellò  drittamente  i corridori 
A quella  voltai  e con  acute  grida 
Altri  il  segm'an,  sperandosi,  che  rotti, 
Senza  far  testa,  nelle  navi  in  salvo 
Precipitosi  fuggirìan  gli  Achivi. 

Stolta  speranza!  Gustodian  la  porta 
Due  fortissimi  eroi , germi  animosi 
De’  guerrieri  Lapiti  : era  1’  un  d’ essi 
Polipéte,  figliuol  di  Piritdo^ 

L’altro,  il  feroce  Leontéo.  Sublimi 
Stavan  quivi  costor , sembianti  a due 
Eccebe  querce  in  cima  alla  montagna. 
Che  ferme  e colle  lunghe  ampie  radici 
Abbracciando  la  terra,  eternamente 
Sostengono  la  piova  e le  procelle. 

Cosi  fidati  nelle  man  robuste  , 

Ben  lungi  dal  voltar  per  tema  il  tergo, 
Voltan  anzi  la  fronte  i due  guerrieri, 
D’Asio  aspettando  la  gran  furia.  Ed  esso, 
Goll’Asiade  Acamante,  e con  Oreste 
E Jameno  e Toone  ed  Enomào 
Sollevando  gli  scudi,  il  forte  muro 
Van  con  fracasso  ad  assalir.  Ma  fermi 
Sull’  ingresso  i due  prodi  altrui  fan  core 
Alla  difesa  delle  navi.  Alfine 
Visti  i Teucri  avventarsi  alla  muraglia 
D’ogni  parte,  e fuggir  con  alto  grido 
Di  spavento  gli  Achivi,  impeto  fece 
L’ ardita  coppia^  e fiero  anzi  le  porte 
Un  conflitto  attaccar,  come  silvestri 
Verri  ch’odon  sul  monte  avvicinarsi 
11  firagor  della  caccia^  impetuosi 
Fulminando  a traverso,  a sò  dintorno 
Rompon  la  selva,  schiantano  la  rosta 
Dalle  radici,  c sentir  fanno  il  suono 
Del  terribile  dente,  infin  che  còlti 
D’ acuto  strale  perdono  la  vita. 


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V.  iSi-jK)  J->»RO  XII  a5g 

Di  questi  due  così  sopra  i percossi 
Petti  sonava  il  luminoso  acciaro , 

E così  combattean , nelle  gagliarde 
Destre  fidando,  e nel  valor  di  quelli 
Che  di  sopra  dai  merli  e dalle  torri 
Piovean  nembi  di  sassi  alla  difesa 
Delle  tende,  dei  legni  e di  si  stessi. 

Cadean  spesse  le  pietre  come  spessa 
La  grandine,  cui  vento  impetuoso 
Di  negre  nubi  agitator  riversa 
Sull'  alma  terra  ^ nè  piovean  gli  strali 
Sol  dalle  mani  achive,  ma  ben  anco 
Dalle  trojane;  e al  grandinar  de’ sassi 
Smisurati , mettean  roco  un  rimbombo 
Gli  elmi  percossi  e i risonanti  scudi. 

Fremendo  allor  si  battè  1’  anca  il  figlio 
D’Irtaco,  e disse  disdegnoso:  O Giove, 

E tu  pur  ti  se’ fatto  ora  l’amico 
Della  menzogna?  Chi  pensar  potea 
Contro  il  nerbo  di  nostre  invitte  mani 
Tal  resistenza  dagli  Achei?  Ma  vèUi, 

Che  come  vespe  maculose  in  erti  - 
Nidi  nascoste , a chi  dà  lor  la  caccia 
S’ avventano  feroci , e per  le  cave 
Case  e pe’  figli  battagliar  le  vedi. 

Così  costor,  benché  due  soli,  addietro 
Dar  non  vonno  che  morti  o prigionieri. 

Così  parlava;  nè  perciò  di  Giove 
Si  mutava  il  pensier;  chè  al  solo  Ettorre 
Dar  la  palma  volea.  Aspro  degli  altri 
All’  altre  porte  intanto  era  il  conflitto. 

Ma  dura  impresa  mi  sana  dir  tutte. 

Come  la  lingua  degli  Dei,  le  cose; 

Perocché  quanto  è lungo  il  saldo  muro. 

Tutto  è vampo  di  Marte.  Alta  costringe 
Necessità,  quantunque  egri,  gli  Achei 
A pugnar  per  le  navi:  e degli  Achei 
Tutti  eran  mesti  in  cielo  i numi  amici. 

Qui  cominciàr  la  pugna  i due  Lapiti. 

Vibrò  la  lancia  il  forte  Polipéte, 


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36o 


XLikVB 


V.  %%ua6o 


E Damaso  colpì  tra  le  ferrate 
Guance  dell’  elmo.  L’  elmo  non  sostenne 
La  furiosa  punta,  che,  spezzati 
I temporali,  gli  allagò  di  sangue 
Tutto  il  cerébro,  e morto  lo  distese; 

Indi  all’  Orco  Pilon  spinse  ed  Ormeno. 

Nè  la  strage  è minor  di  Leontéo, 
D’Àntimaco  figliuolo,  anzi  di  Marte. 

Sul  confin  della  cintola  ci  percotc 
Ippomaco  coll’asta;  indi,  cavata 
Dal  fodero  la  daga,  per  lo  mezzo 
Della  turba  si  scaglia,  e pria  d’un  colpo 
Tasta  Antifonte  che  snpin  stramazza  ; 

Poi  rovescia  Mcnon,  Jameno,  Oreste, 

Tutti  l’un  sovra  l’altro  nella  polve. 

Mentre  che  Polipète  e Leontéo 
Delle  bell’ armi  spogliano  gli  uccisi. 

La  numerosa  e di  gran  core  armata 
Trojana  gioventude , impaziente 
Di  spezzar  la  muraglia,  arder  le  navi, 
Polidamante  ed  Ettore  segui'a, 

I «pai  repente  all’  orlo  della  fossa 
Irresoluti  s’ arrestar,  dubbiando 
Di  passar  oltre;  perocché  sublime 
Un’aquila  comparve,  che  sospeso 
Tenne  il  campo  a sinistra.  Il  fero  augello 
Stretto  portava  negli  artigli  un  drago 
Insanguinato,  smisurato  e vivo. 

Ancor  guizzante,  c ancor  pronto  all’ofiese, 
Sì  che  vólto  a colei  che  lo  gbermia. 

Lubrico  le  vibrò  tra  il  petto  e il  collo 
Una  ferita.  Allor  la  volatrice, 

Aperta  l’ugna  per  dolor,  lasciollo 
Cader  dall’alto  fra  le  turbe;  e,  forte 
Stridendo,  sparve  per  le  vie  de’ venti. 

Visto  in  terra  giacente  il  maculato 
Serpe,  prodigio  dell’ Egioco  Giove, 

Inorridirò  i Teucri;  e,  fatto  avanti 

All’  intrepido  Ettór,  Polidamante 

Sì  prese  a dir:  Tu  sempre,  ancorché  io  porti 


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LIMO  XII 


■3oo 

Ottimi  avvisi  in  parlamento , o duce , 

Hai  pronta  contro  me  qualche  rampogna^ 

Nè  pensi  che  non  lice  a cittadino 
Nè  in  assemblea  tradir  nè  in  mezxo  all’  armi 
La  verità,  servendo  all’  augumento 
Di  tua  possanza.  Dirò  firanco  adunque 
Ciò  che  il  meglio  or  mi  sembra.  Non  si  vada 
Coll’  armi  ad  assalir  le  navi  achee. 
n certo  evento  che  n’  attende,  è scritto 
Nell’  augurio  comparso  alla  sinistra 
Dell’esercito  nostro,  appunto  in  quella 
Che  si  volea  travalicar  la  fossa  ^ 

Dico  il  volo  dell’aquila,  portante 
Nell’ ugna  un  drago  sanguinoso,  immane 
E vivo  ancor.  Gom’  ella  cader  tosto 
Lasciò  la  preda,  pria  che  al  caro  nido 
Giungesse,  e pasto  la  recasse  a’  suoi 
Dolci  nati^  così,  quando  n’  accada 
Pur  de’  Greci  atterrar  le  porte  e il  muro 
E fame  strage,  non  pensar  per  questo 
Di  ritoraarae  con  onor;  chè  indietro 
Molti  Trojani  lasceremo  ancisi 
Dall’  argolico  ferro , combattente 
Per  la  tutela  delle  navi.  Ognuno 
Che  ben  la  lingua  de’prodigj  intenda 
E da’ profani  riverenza  ottegna. 

Questo  verace  interpretar  lima. 

Lo  guatò  bieco  Ettorre,  e gli  rispose: 
Polidamante,  il  tuo  parlar  non  viemmi 
Grato  all’orecchio,  e una  miglior  sentenza 
Or  dal  tuo  labbro  m’  attendea.  Se  parli 
Persuaso  c davvero,  io  ti  fo  certo. 

Che  l’ ira  degli  Dei  ti  tolse  il  senno  ^ 

Poiché  m’esorti  ad  obbliar  di  Giove 
Le  giurate  promesse,  e all’  ale  erranti 
Degli  augelli  obbedir;  de’  quai  non  curo  , 

Se  volino  alla  dritta,  ove  il  sol  nasce, 

O alla  sinistra  dove  muor.  Ben  calmi 
Del  gran  Giove  seguir  1’  alto  consiglio; 

Gh’  ei  de’  mortali  e degli  Eterni  è il  sommo 


a6a  iLUBE  ,,  301.340 

Imperadoi'e.  Augurio  ottimo  e solo 
È il  pugnar  per  la  patria.  Perchè  tremi 
Tu  dei  perigli  della  pugna?  Ov’  anco 
Cadiam  noi  tutti  tra  le  navi  ancisi, 

Temer  di  morte  tu  non  dèi;  chè  cuore 
Tu  non  hai  d’aspettar  l’  urto  nemico, 

Nè  di  pugnar.  Se  poi  ti  rimanendo 
Lontano  dal  conflitto,  esorterai 
Con  codarde  parole  altri  a seguire 
La  tua  viltà,  per  dio!  che  tu  percosso 
Da  questa  lancia  perderai  la  vita. 

Si  spinse  avanti  cosi  detto;  e gli  altri 
Con  alte  grida  lo  seguiéno.  Allora 
11  Folgorante  dall’  idèa  montagna 
Un  turbine  destò,  che  drittamente 
Verso  le  navi  sospingea  la  polve , 

E agli  Achivi  rapia  gli  occhi  e 1’  ardire. 

Ad  Ettorre  il  crescendo  ed  a’Trojani, 

Che,  nel  prodigio  e nelle  proprie  forze 
Confidati , assalir  1’  alta  muraglia 
Per  diroccarla.  E già  divelti  i merli 
Delle  torri  cadean;  già  le  bertesche 
Si  sfasciano,  e le  leve  alto  sollevano 
Gli  sporgenti  pilastri,  eccelso  e primo 
Fondamento  alle  torri.  Intorno  a questi 
Travagliansi  i Trojani,  ampia  sperando 
Aprir  la  breccia.  Nè  perciò  d’  un  passo 
S’  arretrano  gli  Achei  ; ma  di  tatmine 
Targhe  schermo  facendo  alle  bastite, 

Ferìan  da  qnelle  chi  venia  di  sotto. 

Animosi  dall’ una  all’altra  torre, 

L’acheo  valor  svegliando,  ambo  frattanto 
Scorrean  gli  Ajaci;  e con  parole  or  dure. 

Or  blande  rampognando  i neghittosi: 

O compagni,  dicean,  quanti  qui  siamo 
Primi,  secondi  ed  infimi  (chè  tutti 
Non  siamo  eguali  nel  pugnar,  ma  tutti 
Necessari  ),  or  gli  è tempo , e lo  vedete , 

D’oprar  le  mani.  Non  vi  sia  chi  pieghi 
Dunque  alle  navi  per  timor  di  vana 


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UBRO  XII 


363 


•>J4i-3So 

Minaccia  ostil;  ma  procedete  aranti, 

E l'un  l'altro  incoratevi,  e mertate 
Che  1’  Olimpio  Tonante  vi  conceda 
Di  rùotpinger  l’ inimico , e rotto 
Iiuegoirlo  fin  dentro  alle  sue  mura. 

Sì  sgridando,  animàr  l’acheo  certame. 
Come  cadono  spessi  ai  dì  vernali 
I fiocchi  della  neve,  allorché  Giove 
Versa  incessante,  addormentati  i venti, 

I suoi  candidi  nembi , e l’ alte  cime 
Delle  montagne  inalba  e i campi  erbosi , 

E i pingui  seminati  e i porti  e i lidi; 
L'onda  sola  del  mar  non  sofifre  il  velo 
Delle  fioccanti  falde,  onde  il  celeste 
Nembo  ricopre  delle  cose  il  volto; 

Tale  allor  densa  di  volanti  sassi 

La  tempesta  piovea  quinci  da'  Teucri 
Scagliata,  e quindi  dagli  Àcbivi;  e immenso 
Sorgea  rumor  per  tutto  il  lungo  muro. 

Ma  nè  i Trojani  nè  l'illustre  Ettorre 
N'  avrìan  le  porte  spezzato  e le  sbarre , 

Se  alfin  contro  gli  Achei  non  incitava 
Giove  1'  ardir  del  figfio  Sarpedonte , 

Quale  in  mandra  di  buoi  fiero  bone. 
Imbracciossi  1'  eroe  subitamente 

II  bel  rotondo  scudo , ricoperto 

Di  ben  condotto  sottil  bronzo,  e dentro 
V avea  l' industre  artefice  cucito 
Cuoi  taurini  a più  doppj,  e orlato  intorno 
D' aurea  verga  perenne  il  cerchio  intero. 
Con  questo  innanzi  al  petto,  e nella  destra 
Due  lanciotti  vibrando,  incamminossi 
Qual  montano  bon  che , stimolato 
Da  lunga  fame  e dal  gran  cor,  1'  assalto 
Tenta  di  pieno  ben  munito  ovile  ; 

E quantunque  da'  cani  e da'  pastori 
Tutti  sull' armi  custodito  il  trovi, 

Senza  prova  non  soffre  esser  respinto 
Dal  pecorile,  ma  vi  salta  in  mezzo, 

E vi  fa  preda , o da  veloce  telo 


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i64 


ILÌADE 


*•  38i-4so 


Di  man  pronta  riccTe  aspra  ferita. 

Tale  il  divino  Sarpedon  dal  forte 
Suo  cor  quel  muro  ad  assalir  fu  spinto, 

E a spezzarne  i ripari.  E,  vólto  a Glauco, 
D' Ippóloco  figlinol  : Glauco , gli  disse  , 
Perchè  siam  noi  di  seggio  e di  vivande 
E di  ricolme  tazze  innanzi  a tutti 
Nella  Licia  onorati,  cd  ammirati 
Pur  come  numi?  Ond’è  che  lungo  il  Xanto 
Una  gran  terra  possediam  d'ameno 
Sito,  e di  biade  fertili  e di  viti? 

Certo  acciocché  primieri  andiam  tra’  Licj 
Nelle  calde  battaglie , onde  alcun  d’ essi 
Gridar  s’ intenda  : Gloriosi  e degni 
Son  del  comando  i nostri  re;  squisita 
È lor  vivanda,  e dolce  ambrosia  il  vino. 
Ma  grande  il  core,  c nella  pugna  i primi. 
Se  il  fuggir  dal  conflitto,  o caro  amico. 

Ne  partorisse  eterna  giovinezza. 

Non  io  certo  vorrei  primo  di  Marte 
I perigli  ailrontar,  ned  invitarti 
A cercar  gloria  ne’  guerrieri  aiGinni. 

Ma  mille  essendo  del  morir  le  vie. 

Nè  scansar  nullo  le  potendo,  andiamo: 

Noi  darem  gloria  ad  altri , od  altri  a noi. 

Disse;  nè  Glauco  si  ritrasse  indietro. 

Nè  ritroso  il  segtù.  Con  molta  mano 
Dunque  di  Licj  s’avviàr.  Li  vide 
Rovinosi  e diritti  alla  sua  torre 
Affilarsi  il  Petide  Menestéo, 

£ sgomentossi.  Girò  gli  occhi  intorno 
Fra  gli  Achivi,  spiando  un  qualche  duce 
Che  lui  soccorra  e i suoi  compagni  insieme. 
Scorge  gli  Ajaci  che  indefessi  c fermi 
Sostenean  la  battaglia,  e avean  dappresso 
Teucro,  pur  dianzi  della  tenda  uscito. 

Ma  non  potea  far  loro  a venm  modo 
Le  sue  grida  sentir  : tanto  è il  fragore. 

Di  che  1’  aria  rimbomba  alle  percosse 
Degli  scudi,  degli  elmi  e delle  porte 


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LIBBO  XII 


365 


Tutte  a un  tempo  assalite,  onde  spezzarle 
E spalancarle.  Immantinente  ei  dunque 
Manda  ad  Àjace  il  banditor  Toota  ^ 

E:  Va,  gli  dice,  illustre  araldo^  vola; 

Chiama  gli  Àjaci,  chiamali  ambedue; 

Chè  questo  è il  meglio  in  sì  grand’  uopo.  Un’  alta 
Strage  qui  veggo  già  imminente.  I duci 
Del  lido  stuol  con  tutta  la  lor  possa 
Qua  piombano,  e mostràr  già  in  altro  incontro 
Gh’  eili  son  nelle  zuffe  impetuosi. 

S’ambo  gli  eroi  ch’io  chiedo,  in  gran  travaglio 
Si  trovano  di  guerra , almen  ne  vegna 
n forte  Ajace  Telamdnio,  e il  segua 
Teucro  coll’arco  di  ferir  maestro. 

Corse  l’araldo  obbediente;  e,  ratto 
Per  la  lunga  muraglia  traversando 
Le  file  degli  Achei,  giunse  agli  Ajaci; 

E con  preste  parole:  Ajaci,  ci  disse. 

Incliti  duci  degli  Argivi,  il  caro 
Nobile  figlio  di  Petéo  vi  prega 
D’accorrere  veloci,  ed  aitarlo 
Alcun  poco  nel  rischio,  in  che  si  trova. 

Pregavi  entrambi  per  lo  meglio.  Un’  alta 
Strage  gli  è sopra;  perocché  di  tutta 
Forza  si  vanno  a rovesciar  sovr’esso 
I licj  capitani , e di  costoro 
L’impeto  è noto  nel  pugnar.  Se  voi 
Siete  in  gran  briga  voi  medesmi,  almeno 
Vien  tu,  forte  figliuol  di  Telamone, 

E tu.  Teucro,  signor  d’arco  tremendo. 

Tacque;  ed  il  grande  Telamdnio  figlio 
Al  figlio  d’ Oiléo  si  volse,  e disse: 

Tu,  Ajace,  e tu,  forte  Licomede, 

Qui  restatevi  entrambi,  ed  infiammate 
L’ acheo  coraggio  alla  battaglia.  Io  volo 
Colà  allo  scontro  del  nemico  ; e , data 
La  chiesta  aita,  subito  ritorno. 

Parti  1’  eroe,  ciò  detto;  ed  il  germano 
Teucro  il  seguiva,  e Pandìon  portante 
L’  arco  di  Teucro.  Costeggiando  il  muro, 


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a66 


ILUOE 


«'■  4^>’5oo 


Alla  torre  arriràr  di  Menestéo; 

Ed  entrar  nella  zoSa,  appunto  in  quella 
Che  a negro  turbo  simiglianti  i duci 
Animosi  de’  Licj  arean  de’  merli 
Già  vinto  il  sommo.  Si  scontràr  gli  eroi 
Fronte  a fronte,  e levossi  alto  clamore. 
Primo  l’Ajace  Telamònio  uccise 
Il  magnanimo  Epicle,  un  caro  amico 
Di  Sarpedon.  Giacca  sull’ardua  cima 
Della  muraglia  un  aspro  enorme  sasso , 

Tal  che  niun  de’  presenti , anco  sul  fiore 
Delle  forze,  il  potrebbe  agevolmente 
A due  man  sollevar.  Ma  lieve  in  alto 
Levollo  Ajace,  e lo  scagliò.  L’  orrendo 
Colpo  diruppe  il  bacinetto , e tutte 
L’ ossa  del  capo  sfracellò.  Dall’  alta 
Torre  il  percosso,  a notator  simile, 

Cadde,  e l’alma  fuggi.  Teucro  di  poi 
Di  strale  a Glauco  il  nudo  braccio  impiaga 
Mentre  il  muro  assalisce,  e lo  costrigne 
La  pugna  abbandonar.  Glauco  d’un  salto 
Già  dagli  spaldi  gittasi  furtivo. 

Onde  nessuno  degli  Achei  s’  avvegga 
Di  sua  ferita , e villania  gli  dica. 

Ben  se  n’  accorse  Sarpedonte,  ed  alta 
Dell’  amico  al  partir  doglia  il  trafisse. 

Ma  non  lentossi  dalla  pugna;  e giunto 
Colla  lancia  il  Testòride  Alcmeone, 

Gliela  ficca  nel  petto,  e a sè  la  tira. 

Segue  il  trafitto  1’  asta  infissa , e cade 
Boccone,  e l’armi  risonàr  sovr’esso. 

Colla  man  forte  quindi  il  licio  duce 
Un  merlo  afferra,  a sè  lo  tragge,  e tutto 
Lo  dirocca.  Snudossi  al  suo  cadere 
La  superna  muraglia,  e larga  a molti 
Fece  la  strada.  Allor  ristretti  insieme 
Mossero  centra  Sarpedonte  i due 
Telamonidi , e Teucro  d’  uno  strale 
Al  petto  il  saettò.  Raccolse  il  colpo 
11  lucente  fermaglio  dell’  immenso 


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LIBBO  XII 


•>.  50I-S40 


Scudo  ^ cbè  Giove  dal  suo  figlio  allora 
Allontanò  la  Parca,  e non  permise 
Che  davanti  alle  navi  egli  cadesse. 
L’assalse  Àjace  ad  un  medesmo  tempo, 

E allo  scudo  il  ferì.  Tutto  passollo 
La  fiera  punta,  ed  aspramente  il  caldo 
Guerrier  represse.  Dagli  spaldi  adunque 
Recede  alquanto  ei,  sì,  ma  non  del  tntto^ 
Ghè  il  cor  pur' anco  gli  porgea  spersmia 
Della  vittoria^  e,  al  suo  fedel  drappello 
Rivòltosi,  gridò:  Licj  guerrieri. 

Perchè  l’ impeto  vostro  si  rallenta? 

Benché  forte  io  mi  sia,  solo  poss’ io 
Atterrar  questo  muro , ed  alle  navi 
Aprir  la  strada?  A me  v’unite  or  dunque^ 
Ghè  forza  unita  tutto  vince.  — Ei  disse; 

E vergognosi  rispettando  i Licj 
Le  regali  rampogne,  s’ addensavo 
Dintorno  al  saggio  condottier.  Dall’  altro 
Lato  gli  Argivi  nell’interno  muro 
Rinforzan  le  falangi,  e d’ambe  parti 
Gresce  il  travaglio  della  dura  impresa; 
Perocché  nè  il  valor  degli  animosi 
Licj  a traverso  dell’  infiranto  muro 
Alle  navi  potea  farsi  la  strada , 

Nè  i saettanti  Achei  dall’  occupata 
Muraglia  i Licj  discacciar.  Ma  quale 
In  poder  che  comune  abbia  il  confine. 

Fan  due  villan,  la  pertica  alla  mano, 

Del  limite  barufia,  e poca  lista 
Di  terra  è tutto  della  lite  il  campo; 

Gosi  dei  merli  combattean  costoro, 

E sovra  i merli  contrastati  un  fiero 
Spezzar  si  fea  di  scudi  è di  brocchieri 
Su  gli  anelanti  petti;  e molti  intorno 
Gadean  gli  uccisi  : altri  dal  crudo  acciaro 
Nel  voltarsi  trafitti  il  tergo  ignudo; 

Altri,  ed  erano  i più,  da  parte  a parte 
Trapassati  le  targhe.  Da  per  tutto 
Torri  e spaldi  rosseggiano  di  sangue 


367 


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a68 


lUADB 


r.  54I-580 


E trojano  ed  acheo;  nè  fra  gli  Achei 
Nullo  ancor  segno  si  vedea  di  fuga. 

Siccome  onesta  femminetta , a cui 
Procaccia  il  vitto  la  conocchia,  in  mano 
Tien  la  bilancia,  e vi  sospende  e pesa 
Con  rigorosa  tnitina  la  lana. 

Onde  i suoi  figli  sostentar  di  scarso 
Alimento^  così  de’ combattenti 
Equilibrata  si  tenea  la  pugna, 

Finché  l’ora  pur  venne,  in  che  dovea 
Spinto  da  Giove  superar  primiero 
Ettore  la  muraglia.  Alza  ei  repente 
La  terribile  voce 5 ed:  Accorrete, 

Grida,  o forti  Trojani^  urtate  il  muro; 
Spezzatelo;  gittate  alfin  le  fiamme 
Vendicatrici  nella  classe  achea. 

L’ udirò  i Teucri;  ed  incitati  e densi 
Avventarsi  ai  ripari,  e sovra  il  muro 
Montar  coll’ aste  in  pugno.  Appo  le  porte 
Un  immane  giacea  macigno  acuto: 

Non  r avrian  mosso  agevolmente  due 
De’  presenti  mortali  anche  robusti 
Per  carreggiarlo.  A questo  diè  di  piglio 
Ettore;  ed  alto  soUevoUo,  e solo 
Senza  fatica  l’agitò;  che  Giove 
In  man  del  duce  lo  rendca  leggiero. 

E come  nella  manca  il  mandriiano 
Lieve  sostien  d’un  ariète  il  vello. 
Insensibile  peso;  a questa  guisa 
Ettore  porta  sollevato  in  alto 
L’enorme  sasso,  e va  dirittamente 
Contro  l’assito,  che  compatto  e grosso 
Delle  porte  muni'a  la  doppia  imposta , 

Da  due  forti  sbarrata  internamente 
Spranghe  traverse,  ed  uno  era  il  serrarne. 
Fattosi  appresso,  ed  allargate  e ferme 
Saldamente  le  gambe,  onde  con  forza 
n colpo  liberar,  percosse  il  mezzo. 

Al  fulmine  del  sasso  sgangherarsi 
I cardini  dirotti;  orrendamente 


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LIBHO  XU 


».  581-598 


Muggir  le  porte,  si  spezzàr  le  sbarre, 

Si  sfracellò  l'assito,  e d'ogni  parte 
Le  schegge  ne  volàr:  tale  fu  il  pondo 
E l’impeto  del  sasso,  che  di  dentro 
Cadde,  e posò.  Pel  varco  aperto  Ettorre 
Si  spinse  innanzi , simigliante  a scura 
Ruinosa  procella.  Folgorava 
Tutto  nell'  armi  di  terribil  luce^ 

Scotea  due  lance  nelle  man  ^ gli  sguardi 
Mettean  lampi  e faville;  e non  1’ avria, 
Quando  ei  fiero  saltò  dentro  le  porte. 
Rattenuto  verun,  che  Dio  non  fosse. 
Alle  sue  schiere  allor  si  volse,  e a tutte 
Comandò  di  varcar  l’achea  trincierà. 


Obbedirò  i Trojani  : immantinente 
Altri  il  muro  salir;  altri  innondavo 
Le  spalancate  porte.  Al  mar  gli  Achivi 
Fuggono,  e immenso  ne  seguia  tumulto. 


afig 


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LIBRO  DECIMOTERZO 


ÌRG01IE5TO 


Netlmmo,  bmmo  a eompauioM  ^ Greci,  preod»  ta  focma  di  CiVranU,  e Kcmora  prioi» 
gli  A^i , e poi  altri  capitaaL  Idomendo  la  prove  di  valore , ed  oeeide  Otrioodo  ed  altri. 
L' aU  ftiiiùtra  dei  Trojani  ^ ooktrelta  a eeden , Doa  aetacte  la  resifteoa  di  Eii«  e di  Det’ 
fobo.  Ettore  , cbe  alla  destra  sosteoevati  coatro  gli  Ajaci , esieodu  tribolato  dagli  arrim 
locresi , raduna  i tooi  ; e , passando  alla  anùtra , vi  raddriata  U pugna.  La  tniirhia  sì  b 
terribile  d’ambe  le  parli. 


Poiché  Giove  appressati  ebbe  alle  navi 
Con  Ettore  i Trojani,  ivi  in  travaglio 
Incessante  lasciolli^  e,  vólti  indietro 
I iìilgid' occhi,  a riguardar  si  pose 
Del  Trace,  di  cavalli  agitatore. 

La  contrada  e de'Misj  a stretta  pugna 
Valorosi  guerrieri  e de'  famosi 
Ippomolghi,  giustissimi  mortali, 

Cbe  di  latte  nudriti  a lunga  etadu 
Producono  i lor  di:  nè  piìk  di  Troja 
Dava  un  guardo  alle  mura,  in  sé  pensando. 
Che  nessun  Dio  discendere  de'  Teucri 
O de' Greci  in  aita  oso  sarebbe. 

Nè  invan  si  stava  alla  vedetta  intanto 
D re  Nettunno,  che  su  1'  alte  assiso 
Selvose  cime  della  tracia  Samo 
Contemplava  di  là  l'aspro  conflitto^ 

E tutto  l'Ida  e Troja,  c degli  Achei 
Le  folte  antenne  si  vedea  davanti. 

Ivi , uscito  dell'  onde , egli  sedea  \ 


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V.  at4So 


lUÀDE,  UBRO  XIU 

E del  cader  de’ Greci  impietosito, 

Contro  Giove  fremea  d’  alto  disdegno. 

Ratto  spiccossi  dall’  alpestre  vetta , 

E discese.  Tremàr  le  selve  e i monti 
Sotto  il  piede  immortai  dell’  incedente 
Irato  Enosigéo.  Tre  passi  ei  fece  5 
E al  quarto  giunse  alla  sua  meta  in  Ege, 
Ove  d’auro  corruschi  in  fondo  al  mare 
Sorgono  eccelsi  i suoi  palagi  eterni. 

Qui  venuto,  i veloci  oro-criniti 
EripedI  cavalli  al  cocchio  aggioga. 

In  aurea  vesta  si  ravvolge  tutta 
La  divina  persona;  ed , impugnato 
L’ aureo  flagello  di  gentil  lavoro , 

Monta  il  carro,  e leggier  vola  su  l’onda. 
Dagl’imi  gorghi  uscite  a lui  d’intorno. 
Conoscendo  il  re  lor,  l’ ampie  balene 
Estiltano,  e per  gioja  il  mar  si  spiana. 

Cosi  rapide  volano  le  rote. 

Che  dell’  asse  nè  pur  si  bagna  il  bronzo; 

E gli  agili  cavalli  a tutto  corso 
Verso  le  navi  achee  portano  il  Dio. 

Fra  Ténedo  e ira  l’ aspra  Imbro  nell’  imo 
S’  apre  dell’  alto  sale  ampia  spelonca. 

Qui  giunto  il  nume,  i corridor  sostenne, 

E dal  temo  gli  sciolse,  e ristorati 
D’ ambrosio  cibo , gli  allacciò  di  salde 
Auree  pastoje  d’insolubil  nodo. 

Onde  attendan  li  fermi  il  redituro 

Re  lor,  che  al  campo  degli  Achei  s’inilrizza. 

Una  fiamma  sembianti  0 una  procella, 
Aflbllati,  indefessi,  e,  d’alte  grida 
L’aria  empiendo  i TrojanI  e furiando, 
Seguon  d’Ettore  i passi,  il  cor  ripieni 
Della  speranza  d’  occupar  le  navi, 

E tra  le  navi  sterminar  gli  Achei. 

Ma,  di  Calcante  presa  la  sembianza 
E la  gran  voce,  raccendea  Nettunno 
Gli  argolìci  guerrieri;  pria  rivolto 
Agli  Ajaci , gridava  : Ah  ! vi  ricordi , 


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lUADE 


¥.  6i-ioo 


a7* 

Che  n campo  achlvo  col  valor  si  salva, 

Non  col  freddo  timor.  Non  io  de’ Teucri, 

Che  in  folla  superar  1’  alta  muraglia , 

Le  ardite  mani  agli  altri  posti  or  temo. 

Ove  a tutti  terran  fronte  gli  Achei  ^ 

Ma  qui  tem’ io  d’assai  qualche  sinistro. 

Qui,  dove  questo  inviperito  Ettorre, 

Che  del  gran  Giove  si  millanta  figlio , 

Guida  i Teucri , e s’ avventa  come  fiamma. 
Ma  se  in  mente  a voi  pone  un  qualche  iddio 
Di  contrastargli,  e di  dar  core  altrui. 

Certo  mi  fo,  che  lungi  dalle  navi 
Respingerete  il  suo  iuror,  foss’anco 
Lo  stesso  Giove  che  gl’ infonde  ardire. 

Così  parla  Nettunno;  e collo  scettro 
Toccandoli  ambidue,  per  le  lor  membra 
Una  divina  vigoria  diflìise. 

Che  tutta  alleggerendo  la  persona. 

Alle  man  polso  aggiunse , ed  ali  al  piede  ^ 

E,  ciò  fatto,  sparì  colla  prestezza 
Di  veloce  sparvier , che  nella  valle 
Visto  un  augello,  da  scoscesa  rupe 
Si  precipita  a piombo  su  la  preda. 

Ajace  d’ Oiléo  s’  accorse  il  primo 
Del  portento^  e,  al  figliuol  di  Telamone 
Di  subito  converso:  Amico,  ei  disse. 

Colui  che  ne  parlò , non  egli  al  certo 
È l’indovino  augurator  Calcante, 

Ma  qualche  dell’Olimpo  abitatore 
Che  ne  prese  le  forme,  e ne  comanda 
Di  pugnar  per  le  navi.  Agevolmente 
Si  riconosce  un  nume^  ed  io  da  tergo 
Lui  conobbi  all’  incesso  appunto  in  quella 
Che  si  partiva,  e me  1’  avvisa  il  core. 

Che  di  battaglia  più  che  mai  bramoso 
Mi  ferve  in  petto  si , che  mani  c piedi 
Brillar  mi  sento  del  desio  di  pugna. 

E a me,  risponde  il  gran  Telamonide, 

A me  pur  brilla  intorno  a questa  lancia 
L’  audace  destra,  e il  cor  mi  cresce  in  seno , 


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UBBO  XtU 


r.  101>l4o 

E r impulso  de'  piè  sento  di  sotto 
Si,  che  pur  solo  d' azzuilarmi  anelo 
Coll’  indomito  Ettorre.  — Era  di  questi 
Tale  il  discorso,  e tal  dell’ armi  il  caldo 
Desir  che  in  petto  area  lor  posto  il  nume. 

Nettunno  intanto  degli  Achei  ridesta 
L’ ultime  file  che,  scorate  e stanche 
Dal  marz'ial  travaglio,  appo  i navigli 
Prendean  respiro^  e di  gran  duol  cagione 
Era  loro  il  veder,  che  l’alto  muro 
Avean  varcato  con  tumulto  i TeuerL 
Piovea  lor  dalle  ciglia  a quella  vista 
Un  largo  pianto , di  scampar  perduta 
Ogni  speranza.  Ma  col  pronto  arrivo 
Le  ravvivò  Nettunno^  e pria  Letto 
E Teucro  e Deipiro  e Peneléo 
E Merione  e Antiloco  e Toante, 

Tutti  eroi  bellicosi,  inanimando; 

Oh  vergogna!  esclamò,  cosi  combatte 
Or  dell’  argiva  gioventude  il  fiore  ? 

Nel  valor  delle  vostre  armi  io  sperava 
Salve  le  navi  ^ ma  se  voi  la  fiera 
Pugna  cessate,  il  di  supremo  è questo 
Della  nostra  caduta.  Oh  cielo!  oh  indegno 
Spettacolo , eh’  io  veggo,  e ch’io  non  mai 
Possibile  credea!  fino  alle  navi 
Irrompere  i Trojani,  essi,  che  dianzi 
Non  eran  osi  nè  un  momento  pure 
Far  fronte  ai  Greci,  e ne  fuggian  la  possa 
Come  timide  cerve,  che  vaganti 
Per  la  foresta , e imbelli  e senza  core , 

Son  di  linci,  di  lupi  e leopardi 
L’ ingorde  canne  a satollar  serbate  ! 

Or  ecco  che  lontan  dalla  cittade 
Fino  alle  navi  la  battaglia  spingono, 

Colpa  del  duce  Atride , e noncuranza 
De’  guerrier , che  con  esso  incolloriti , 

Anzi  che  a scampo  delle  navi  armarsi , 
Trucidar  vi  si  fanno.  E nondimeno 
Benché  l’ Atride  eroe  veracemente 
Morti.  Iliade. 


i8 


ILIADE 


Sia  di  ciò  tatto  la  cagion , per  P onta 
Ch’egli  fece  al  Peli’de,  a noi  non  lice 
A veron  patto  abbandonar  la  pugna. 

Via,  s’emendi  l’error:  le  generose 
Alme  i lor  falli  a riparar  son  preste  *, 

Nè  voi,  sendo  i più  forti,  onestamente 
n valor  vostro  rallentar  potete; 

Ned  io  col  vile  che  pugnar  rieusa  , 

50  corrucciarmi,  ma  con  voi  mi  sdegno 
Altamente,  con  voi,  che  , fatti  or  molli 
Ed  ignavi  e codardi,  un  maggior  danno 
Vi  preparate.  In  sé  ciascuno  adunque 

n pudor  svegli  e del  disnor  la  tema. 

Grande  è il  certame  che  s’  accese:  il  prode 
Ettore  è quegli  che  le  navi  assalta , 

E le  porte  già  ruppe  e l’alta  sbarra. 

Da  questi  di  Nettunno  acri  conforti 
Incoraggiate  le  falangi  achee 

51  strinsero  agli  Ajaci  in  si  bel  cerchio. 

Che  stupito  n’avrìa  Marte  e la  stessa 
Minerva,  de’  guerrieri  eccitatrice. 

Questo  fior  di  gagliardi  il  duro  assalto 
De’  Trojani  e d’ Ettdr  fermo  attendea , 

Come  siepe  stipando  ed  appoggiando 

Scudo  a scudo,  asta  ad  asta,  ed  elmo  ad  elmo, 
E guerriero  a guerrier,  si,  che  gli  eccelsi 
Cimier  su  i coni  rilucenti  insieme 
Confondean  l’ onda  delle  chiome  equine. 

Cosi  densati  procedean  di  punta 
Contra  il  nemico  questi  forti,  ognuno 
Nella  robusta  mano  arditamente 
Bilanciando  il  suo  telo,  e di  dar  dentro 
Tutti  vogliosi.  Pur  primieri  i Teucri 
Stretti  insieme  a far  impeto , precorsi 
Dall’  intrepido  Ettdr , pari  a veloce 
Rovinoso  macigno  che  torrente 
Per  gran  pioggia  cresciuto  da  pelixisa 
Rupe  divelse  e spinse  al  basso;  ei  vola 
Precipite  a gran  salti,  e si  fa  sotto 
La  selva  risonar;  nè  il  corso  allenta , 


1'.  |8|'210 


LIBRO  xin 


Finché  giunto  alla  valle,  ivi  si  quota 
Immobile.  Cosi,  pel  campo  Ettorre 
Seminando  la  strage , infino  al  mare 
Penetrar  minacciava  , e senza  intoppo 
Fra  le  navi  cacciarsi  e fi-a  le  tende. 

Ma  come  a fronte  ei  giunse  della  densa 
Falange,  s’arrestò,  vano  vedendo 
Di  spezzarla  ogni  mezzo  : e dì  rincontro 
L’ appuntar  colle  lance  e colle  spade 
Si  fieri  i figli  degli  Achei,  che  a fòrza 
L’ allontanar.  Respinto  ei  diede  addietro. 

Ed  alto  a’ suoi  gridò:  Trojani  e Licj 
E Dàrdani , deh  ! voi  fermo  tenete  ^ 

Chè , benché  denso , lo  squadron  nemico 
Non  sosterrammi  a lungo , c all’  urto  io  spero 
Della  mia  lancia  piegherà,  se  invano, 

Non  eccitommi  il  più  possente  Iddio, 

L’ altitonante  dì  Giunon  marito. 

Di  eiascuno  destàr  la  lena  e il  core 
Queste  parole.  Àllor  di  Priamo  il  figlio 
Con  grande  ardir , Dè'ifobo , si  mosse  5 
E,  davanti  portandosi  lo  scucio 
Che  tutto  il  ricopriva , a lento  passo 
S’ avanzò.  Merion  di  mira  il  prese 
Colla  fulgida  lancia , e in  pieno  il  colse 
Nello  scudo  taurina  ma  di  forarlo 
Non  gli  successe^  ché  alla  prima  falda 
L’  asta  sì  fianse.  Paventando  il  telo  ■; 

Del  bellicoso  Merion,  dal  petto 
Discostossì  Dè'ifobo  il  brocchiero  ^ 

E l’argolico  eroe,  vista  spezzarsi 
La  lancia,  e tolta  la  vittoria,  irato 
Si  ritrasse  fra’  suoi  j quindi  lunghesso 
Le  navi  ei  corse  alla  ' sua  tenda  in  cerca 
D’un  riposto  lancìon.  La  pugna  intanto 
Cresce,  ed  immenso  si  solleva  il  grido. 

Il  Telamònio  Teucro  innanzi  a tutti 
Imbrio  distese  , acerrimo  guerriero , 

Cui  Mèntore  di  ricche  equestri  razze 
Possessor  generò.  Tenea  eostui , 


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ILI  IDE 


f.  221>26o 


Pria  dell’  arrivo  degli  Achei , suo  seggio 
In  Pedéo,  disposata  la  leggiadra 
Medcsicaste  , del  trojano  Sire 
Spuria  figliuola.  Ma  venuti  i Greci, 
Rivenne  ad  Dio  ei  pure , e fra’  Trojani 
Distinto  di  valor  nelle  regali 
Case  abitava,  e il  re  tenealo  in  pregio 
Del  par  che  i figli.  A costui  1’  asta  infisse 
Sotto  l’ orecchio  il  buon  Telamonide, 

E tosto  ne  la  svelse.  Imbrio  cadeo , 

A frassino  simil,  che  su  la  cima 
D’una  montagna  da  lontan  veduta 
Reciso  dalla  scure  al  suolo  abbassa 
Le  sue  tenere  chiome.  Cosi  cadde 
Riverso  , e l’  armi  gli  sonàr  d’ intorno. 

Di  rapirle  bramoso  immantinente 
Teucro  accorse  ^ ma  pronto  in  lui  diresse 
La  frilgid’  asta  Ettór.  L’  altro,  che  a tempo 
Del  colpo  s’  avvisò  , scansollo  alquanto , 

Ed  in  sua  vece  lo  raccolse  in  petto 
Il  figliuol  dell’Attòride  Cteato, 

Amfimaco , che  appunto  in  quel  momento 
Entrava  nella  mischia.  Strepitoso 
Ei  cadde,  e sopra  gli  tonò  l’usbergo. 

A levar  del  magnanimo  caduto 
Dalla  fronte  il  bell’  elmo  Ettore  vola  ; 

Ma  d’Ajace  1’  aggiunse  il  fulminato 
Splendido  telo,  che  l’ ettoreo  petto 
Non  offese  egli , no  ; chè  tutto  quanto 
Era  nel  ferro  orribilmente  chiuso^ 

Ma  di  tal  forza  gli  percosse  il  colmo 
Dello  scudo,  che  pur  lo  risospinse 
Sì , che  scostarsi  fu  mestier  dall’  uno 
Cadavere  e dall’  altro , ed  agli  Achivi 
Abbandonarli.  Amfimaco  fira’suoi 
Fu  ritratto  da  Stichio  e Menestéo, 

Atenèi  condottieri  ^ Imbrio  da’  forti 
Ajaci,  simiglianti  a due  leoni. 

Che  tolta  al  dente  di  gagliardi  cani 
Una  capra  talor,  fra  i densi  arbusti 


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LIBRO  XIII 


277 


p.  261*300 

La  portano  del  bosco  alta  da  terra 
Nell’ orrende  mascelle.  A questa  guisa 
Sublime  fra  le  braccia  i due  guerrieri 
D’ Imbrio  la  salma  ne  portare  ^ e a lui , 
Trattegli  l’ armi , il  6glio  d’  Oiléo , 

Della  morte  d’Amfimaco  sdegnoso , 

Mozza  la  testa  fe  volar  dal  busto  ^ 

Indi  fra  i Teucri  la  gittò  rotata 
Come  lubrico  globo , e al  piè  d’ Ettorre 
La  travolse  sanguigna  nella  polve. 

Non  fu  senz’alto  di  Nettun  disdegno 
D’Amfimaco  la  morte,  al  Dio  nipote. 
Risoluto  in  suo  cor  de’ Teucri  il  danno, 

Fra  le  navi  e le  tende  il  corniccioso 
Nume  awiossi  ad  animar  gli  Achivi. 
Scontrollo  Idomenéo  , che  appunto  in  quella 
Un  amico  lasciava  a lui  poc’  anzi 
Fuor  deUa  pugna  dai  compagni  addotto, 

E ferito  al  ginocchio.  Ai  medicanti 
Commessane  la  cura , il  re  cretese 
Da  quella  tenda  si  partia,  pur  sempre 
Desideroso  di  battaglia.  Ed  ecco 
(Preso  il  volto  e la  voce  di  Toante, 
D’Andrémone  figliuol , che  di  Pleiuone 
E dell’  eccelsa  Calidon  signore 
Agli  Etoli  imperava , e al  par  d’ un  nume 
Lo  riverìa  la  gente),  ecco  Nettunno 
Farglisi  innanzi,  e dire:  Idomenéo, 
Consiglier  de’ Cretesi,  ove  n’andaro 
Le  minacciate  ai  Teucri  alte  minacce 
Da’  figli  degli  Achei  7 — Nullo  qui  manca 
Al  suo  dover , rispose  il  gnossio  duce , 

Nullo , per  mio  sentire , e sappiam  tutti 
Pugnar.  Nessimo  da  vii  tema  è preso; 
Nessun  fiaccato  da  desidia  fugge 
L’  afianno  marzial.  Ma  del  possente 
Giove  quest’  è la  fantasia , che  lungi 
Dalla  patria  perire  inonorati 
Qui  debbano  gli  Achei.  Ma  tu  che  fosti 
Sempre  un  forte,  o Toante,  e altrui  se’uso 


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578  ILIADE  V Joi  3^0 

Destar  coraggio,  se  allentar  lo  vedi, 

Segui  a farlo,  e rinfranca  ogni  guerriero. 

Possa  da  Troja , replicò  Nettuono  , 

Non  si  far  più  ritorno , e qui  de'  cani 
Rimanersi  sollazzo,  ognun  che  cerchi 
In  questo  giorno  abbandonar  la  pugna. 

Va,  ti  tiarma,  e vieni , e tenteremo, 

Benché  due  soli , di  far  tale  un  fatto , 

Ch'utile  tomi.  La  congiunta  forza 
Pur  degl'  imbelli  è di  momento , c noi 
Ancor  co' prodi  guerreggiar  sappiamo. 

Disse  ^ e mischiassi  il  Dio  nel  travaglioso 
Mortai  conflitto.  Rientrò  veloce 
Nella  sua  tenda  Idomenéo^  di  belle 
Armi  vestissi  tutto  quanto^  e,  tolte 
Due  lance,  s'awi'ò,  simile  in  vista 
Alla  corrusca  folgore  che  Giove 
Vibra  dall'alto  a sgomentar  le  genti, 

E di  lucidi  solchi  il  ciel  lampeggia. 

Così  splendca  l' acciaro  intorno  al  [>etto 
Del  frettoloso  eroe.  Lungi  di  poco 
Dalla  tenda  scontroUo  il  suo  fedele 
Meri'un  che  venia  d'  altr'  asta  in  cerca. 

Figlio  di  Molo , Idomeuéo  gli  disse , 

Ove  curri  sì  ratto  ? c perchè  lasci , 

Diletto  amico  Merìon,  la  pugna? 

Se'  tu  forse  ferito,  e qualche  punta 
Ti  tormenta  di  strale?  od  a recarmi 
Qualche  avviso  ne  vieni?  Andiamo  ch'io  stesso 
Non  di  riposi , ma  di  pugna  ho  brama. 

Vengo,  rispose  Merìon,  d' un' asta  1 
A provedermi , Idomenéo  , se  alcuna  < 

Te  ne  rimase  al  padiglion.  La  mia 
Allo  scudo  la  ruppi  del  feroce 
Déifobo.  — Non  una,  il  re  riprese. 

Ma  venti,  se  le  brami,  alla  parete 
Ne  troverai  poggiate  entro  la  tenda , 

Tutte  belle  e trojane,  e da  me  tolte 
Ad  uccisi  nemici,  lo  li  combatto 
Sempre  dappresso  : c cosi  d'  aste  Io  feci 


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LIBRO  XIII 


»79 


V.  341*380 

E (F  elmetti  e di  scudi  ombelicati 
E di  lucidi  usberghi  un  tanto  acquisto. 

Ed  io  pur  nella  tenda  e nella  nave 
Ho  molte  spoglie  de^Trojani  in  serbo, 
Soggiunse  Merion^  ma  lungi  or  sono. 

E neppur  io  mi  spero  in  obbbanza 
Aver  posto  il  valor  ; chè  anch’io  ne’ campi 
Della  gloria  so  starmi  in  mezzo  ai  primi, 
Quando  di  Marte  la  tenzon  si  desta. 

Forse  al  più  degli  Achei  mal  noto  in  guerra 
È il  mio  valor ^ ma  tu  il  conosci,  io  spero. 

Si,  lo  conosco,  Idomenéo  riprese; 

Ma  che  ridirlo  or  tu?  L’agguato  è il  campo. 
Ove  in  sua  chiarità  splende  il  coraggio, 

E dal  codardo  si  disceme  il  prode. 

Color  cangia  il  codardo , e il  cor  mal  fermo 
Non  gli  permette  di  tenersi  immoto 
Un  solo  istante;  mancagli  il  ginocchio, 

Sul  calcagno  s’accascia;  e,  immaginando 
Vicino  il  suo  morir,  l’alma  nel  seno 
Palpita,  e trema  dibattendo  i denti. 

Ma  collocato  nell’  insidia,  il  forte 
Nè  cor  cangia  nè  volto,  e della  zuffa 
n momento  sospira.  E a noi  tenuti 
Tra’  più  gagliardi , se  l’ andar  ne  tocchi 
O’  un  agguato  al  periglio,  a noi  pur  anco 
E del  tuo  braccio  e del  tuo  cor  palese 
Si  farla  la  virtù.  Se  nella  pugna 
Fia  che  ti  colga  un  qualche  telo , al  certo 
Il  tergo , no , ma-  piagheratti  il  petto  , 

E diritto  corrente  all’  inimico  , 

E tra’  primieri  avvolto , e nel  più  denso 
Della  battaglia.  Ma  non  più  parole; 

Onde  a caso  qualcun  sopravvenendo , 

Di  vanitosi  cianciatori  a dritto 

Non  ci  getti  rampogna.  Orsù;  t’affretta 

Nella  tenda,  c una  forte  asta  ti  piglia. 

Disse  ; e 1’  altro  volò  ; prese  veloce 
Una  ferrata  lancia  ; e , la  battaglia 
Anelando,  raggiunse  Idomenéo. 


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ILIADE 


r.  38i-^ao 


Qual  s’  avanza  al  conflitto  il  sanguinoso 
Nume  dell’  anni,  e suo  diletto  figlio 
L’accompagna  il  Tem>r,  che  audace  e forte 
Anco  i più  Cenni  fa  tremar;  F orrenda 
Coppia,  lasciati  della  Tracia  i lidi, 

Va  degli  Efiri  a guerreggiar  le  genti 
O i magnanimi  Flegj , e non  ascolta 
Più  quei  che  questi , ancor  dubbiando  a cui 
La  vittoria  inviar;  tali  nel  ferro 
Lampeggianti  procedono  alla  pugna. 
Condottieri  di  prodi , Idomenéo 
E Mellone , che  primier  dicea  : 

Da  qual  parte  in  battaglia  entrar  t’  aggrada, 
O Deucaltde  valoroso  ? a destra , 

0 pur  nel  centro  ? o sosterrem  più  tosto 
La  sinistra  ? Gli  è quivi , a mio  parere , 

Che  di  soccorso  ai  nostri  è più  mcstiero. 

11  centro  ha  buoni  difensor,  rispose 
n re  di  Creta;  ha  l’uno  e Faltro  Ajace, 

E il  più  prestante  saettier  de’  Greci , 

Teucro , gagliardo  combattente  insieme 
A piè  fermo.  Daran  questi  ad  Ettorre, 

Per  audace  ch’ei  sia,  molto  travaglio 
Nella  fervida  mischia  , e costar  caro 
Gli  faranno  il  tentar  di  superarne 
L’invitta  forza,  e i minacciati  legni 
Colle  fiamme  assalir,  se  pur  lo  stesso 
Giove  non  scenda  colle  proprie  mani 
A gittarvi  gl’  incendj.  A mortai  uomo 
Che  sia  di  frutto  cerea!  nudrito , 

E cui  possa  del  ferro  o delle  pietre 
Il  colpo  violar,  non  fia  che  mai 
Il  grande  Ajace  Telamónio  ceda, 

Non  allo  stesso  violento  Achille, 

Che  di  corso  bensì,  ma  fior  noi  vince 
Nel  pugnar  di  piè  fermo.  Or  noi  del  campo 
Rivolgiamci  alla  manca;  e vediam  tosto 
Se  darem  gloria  ad  altri,  od  altri  a noi. 

Volar , ciò  detto , alla  prefissa  meta. 

1 Trojani , veduto  Idomenéo 


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LIBRO  XIII 


vw  411-460 


aSi 


Come  vampa  di  foco  alla  lor  volta 
Col  suo  scudier  venirne , orrendo  ei  pnre 
Di  scintillanti  arnesi , inanimando 
Sè  medesmi  a vicenda,  ad  incontrarli 
Mossero  tutti  dì  conserto.  Allora 
Surse  avanti  alle  poppe  aspro  conflitto. 

A quella  guisa  che  ne'  caldi  giorni , 

Quando  copre  le  vie  la  molta  polve, 

S'alza  turbo  di  vento,  che  solleva. 

Sibilando,  di  sabbia  una  gran  nnbe^ 

Tali,  ardendo  nel  cor  di  porsi  a morte 
Co' ferri  acuti,  s’ attaccàr  le  schiere. 

Irto  era  tutto  il  campo  ( orrida  vista  1 ) 

Di  lunghe  aste  impugnate;  e il  ferreo  lampo 
Degli  usberghi , degli  elmi  e degli  scudi 
Tutti  in  confuso  folgoranti  e tersi 
Facea  barbaglio  agli  occhi;' e stato  el  fora 
Ben  audace  quel  cor  che  vista  avesse 
Tranquillo  e lieto  la  cmdcl  contesa. 

Cosi  divisi  di  favor  li  due 
Possenti  figli  di  Saturno,  acerbe 
Ordian  gravezze  ai  combattenti  eroi. 

Di  qua  Giove  ai  Trojani  e al  forte  Ettorre 
La  vittoria  desia;  non  ch'egli  intero 
Voglia  lo  scempio  della  gente  achea. 

Ma  sol  quanto  a innalzar  del  grande  Achille 
Basti  la  gloria,  ed  onorar  la  madre. 

Di  là , furtivo  da'  suoi  gorghi  uscito , 

Nettunno  infiamma  colla  dia  presenza 
Degli  Argivi  II  coraggio , e del  vederli 
Domi  dai  Teucri  doloroso  freme 
Contro  Giove  di  sdegno.  Una  è d' entrambi 
L’origine  divina  e U nascimento; 

Ma  nacque  Giove  il  primo,  e più  sapea. 

Quindi  il  minor  fratello  alla  scoperta 

Oso  non  era  d’ aitarli , e solo 

Celatamente  ed  in  sembianza  umana 

Infondea  loro  ardire.  A questo  modo 

L’  un  nume  e l’altro  agli  uni  e agli  altri  iniqua 

D’aspre  discordie  ordiro  una  catena 


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a8a 


ILIADE 


V.  461-50D 


Che  nè  «pezzarc  si  potea  nè  sciorre, 

E che  stese  di  molti  al  suol  la  forza. 

Quantunque  sparso  di  canizie  il  crine , 

Con  vigor  fresco  allora  Idomenèo, 

Fatto  ai  Greci  coraggio , i Teucri  assalse , 

E sbaragliolli , ucciso  Otrionéo. 

Di  Càbeso  poc’  anzi  era  costui 
Venuto  al  grido  della  guerra,  e a sposa 
La  più  bella  cbiedea , senza  dotarla , 

Delle  fanciulle  pr'iamée,  Cassandra; 

E l’ alta  impresa  di  scacciar  da  Troja , 

Lor  malgrado , gli  Àcfaivi  impromettea. 

Gli  area  di  questo  intenzion  già  data 
n re  vecchio  e l’assenso;  ed,  animato 
Dalle  promesse,  il  vantator  pugnava 
Arditamente  , ed  incedea  superbo. 

Colla  fulgida  lancia  Idomenèo 
L’  adocchiò  , lo  colpi , gl’  infisse  il  telo 
In  mezzo  all’  epa,  dalle  piastre  invano 
Del  torace  difesa.  Alto  fragore 
Diè,  cadendo,  il  guerriero;  e,  l’ insultando  , 
Il  vincitor  si  disse  ; Otrionéo  , 

Se  tutte  che  tu  festi  al  re  trojano 
Alte  promesse,  adempirai,  su  tutti 

I mortali  pur  io  terrotti  in  pregio. 

Priamo  la  figlia  ti  promise,  e noi 
Altra  sposa  t’  ofiriam  , la  più  leggiadra 
Delle  figlie  d’Atride  ; e lei  qui  tosto 
Farem  d’Argo  venir,  a questo  patto 
Che  tu  di  Troia  ad  espugnar  n’aiti 
La  superba  città.  Dunque  ne  segui. 

Onde  alle  navi  contrattar  le  nozze , 

E suoceri  n’  avrai  larghi  e cortesi. 

SI  dicendo,  per  mezzo  alla  battaglia 
Strascinollo  d'  un  piede.  A vendicarlo 
Avanzossi  pedon  nanzi  al  suo  carro 
Asio,  e anelanti  al  tergo  gli  guidava 

II  fido  auriga  i corridor.  Mentr’  egli 
A ferir  d' un  bel  colpo  Idomenèo 

Tutto  intende  il  suo  cor,  questi  il  prevenne. 


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. Soi-54o  i-nno  XIII  ag} 

E la  lancia  gl!  spinse  nella  gola 
Sotto  il  mento,  e passoUa.  Asio  cadeo 
Siccome  quercia  o pioppo  od  alto  pino 
Cui  sul  monte  tagliar  con  raffilate 
Bipenni  i fabbri  a nautic’oso.  Ei  giacque 
Lungo  a terra  disteso  innanzi  al  cocehio, 

E digrignava  i denti , e colle  mani 
Strignea  rabbioso  la  cruenta  polve. 

Smarrì  l' auriga  il  cor  ; nè  per  sottrarsi 

Alla  man  de'  nemici  addietro  osava 

Dar  volta  al  cocchio.  Il  giunse  in  quello  stato 

Antiloco  coll'asta,  e in  mezzo  al  ventre 

Lo  trivellò^  che  nulla  lo  difese 

L'interzata  lorica.  Ei  dal  bel  carro 

Riversossi  anelante  ; ed , ai  cavalli 

Dato  di  piglio  il  vincitor , dai  Teucri 

Li  sospinse  agli  Achei.  D'Asio  caduto 

Dèifobo  dolente  , colla  picca 

Si  strinse  addosso  al  re  di  Creta,  e trasse. 

Previde  il  colpo , e curvo  Idomenéo 

Sotto  il  grand'  orbe  si  raccolse  tutto 

Dello  scudo  taurin  che  di  fulgente 

Ferro  il  contorno  e doppia  avea  la  guiggia. 

Riparalo  da  questo  , egli  la  punta 

Schivò  dell'  asta  ostil  che , sorvolando 

Veloce,  delibò  nel  suo  trascorso 

Lo  scudo,  e secco  risonar  lo  fece. 

Nè  indarno  usc'i  dalla  man  forte  il  telo  ^ 

Ma  l' Ippaside  Ipsénore  percosse 

Sotto  i precordj , e 1'  atterrò.  Gran  vanto 

Si  diè  sul  morto  l' uccisor , gridando  : 

Asio  non  giace  inulto,  e alle  tremende 
Porte  scendendo  di  Pluton,  mi  spero 
Fia  del  compagno , eh'  io  gli  do , contento. 

Contristò  degli  Achei  quel  vanto  i petti) 
D'Anliloco  su  gli  altri  il  bellicoso 
Cor  ne  fu  tocco)  nè  lasciò  per  questo 
In  abbandon  l'amico)  anzi,  accorrendo. 

Lo  coprì  dello  scudo,  e lo  protesse 
Si,  che  Alastorre  e Mecistéo,  due  cari 


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a84 


ILI4DE 


1^.  S^i-58o 


Dell'estinto  compagni,  in  su  le  spalle 
Recarselo  poterò  ed  alle  navi 
Trasportarlo,  mettendo  alti  lamenti. 

Non  rallentava  Idomenéo  frattanto 
n magnanimo  core^  e vie  plii  sempre 
L'in6ammava  la  brama  o di  coprire 
Qualche  Trojano  dell'  eterna  notte , 

O far  di  sua  caduta  egli  medesmo 
Risonante  il  terren , sol  che  de'  Greci 
Allontani  l' eccidio.  Eira  fra’  Teucri 
Un  caro  figlio  d’ Esiéta , il  prode 
Alcatóo,  già  consorte  alla  maggiore 
Delle  figlie  d'Anchise , Ippodamia , 

Che  al  genitor  carissima  e alla  madre. 
Onoranda  matrona,  ogni  compagna 
Vincea  di  volto  e di  prudenza,  esperta 
In  tutte  1'  arti  di  Minerva;  ond'  ella 
D' un  de’  più  chiari  fra  gli  eroi  fu  sposa 
Di  quanti  Ilio  n’avea  nel  suo  gran  seno. 

Ma  sotto  la  cretense  asta  domollo 
Nettunno  ; e prima  gli  annebbiò  le  luci; 

Poi  per  le  belle  membra  gli  difluse 
Tale  un  torpor,  che  nè  fuggirsi  addietro. 

Nè  scansarsi  potea,  ma  immoto  e ritto 
Come  colonna  o pianta  alto  chiomata 
Starasi;  e tale  lo  colpì  nel  petto 
D' Idomenéo  la  lancia,  e la  lorica  , 

Della  persona  inutile  difesa , 

Gli  traforò.  Diè  un  rauco  e sordo  suono 
Il  lacerato  usbergo;  strepitoso 
Alcatòo  cadde  ; e il  battere  del  core 
Fe  la  cima  tremar  dell’  asta  infissa , 

Ch’ivi  alfin  tutta  si  quetò.  Superbo 
Del  glorioso  colpo,  Idomenéo 
Alto  sciamò:  Déifobo , e' ti  sembra, 

Che  ben  s'adegui  con  tre  morti  il  conto 
D’  un  solo  ? Inane  fu  il  tuo  vanto , o folle. 
Viemmi  a fronte,  e vedrai  qual  io  mi  regna 
Qui  rampollo  di  Giove.  Ei  primo  ceppo 
Minosse  generò , giusto  di  Creta 


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V.  581^10  LORO  xiu  a85 

Conscrvator,  Minosse  il  generoso 
Deucalione,  e questi  me  nell’ampia 
Creta  di  molto  popolo  signore^ 

Ed  ora  a Troja  mi  portàr  le  navi 
A te  fatale  e al  padre  e a tutti  i Teucri. 

Stette  all’acre  parlar  fra  due  sospeso 
Deifobo , se  in  cerca  retroceda 
D’uu  valoroso  che  l’ajnti,  o s’egli 
Si  cimenti  pur  solo.  In  tal  pensiero 
Ir  d’Ànchise  al  figliuol  gli  parve  il  meglio , 

E negli  estremi  lo  trovò  del  campo 
Stante  e il  cor  roso  di  perpetuo  cruccio , 

Perchè  lui,  che  tra’ prodi  avea  gran  fama, 
Inonorato  il  re  trojan  lasciava. 

Venne  a lui  dunque,  e cosi  disse:  Enea, 

Chiaro  de’  Teucri  capitan , se  cura 
De’  congiunti  ti  tocca , il  tuo  cognato 
Esanime  soccorri.  Andiamo  la  morte 
Vendichiam  d’Alcatòo,  che  un  di  marito 
Di  tua  sorella  t’educò  bambino, 

E eh’  or  d’ Idomenèo  l’ asta  ti  spense. 

Si  commosse  1’  eroe  racceso  il  petto 
Del  desio  della  pugna,  ed  alla  volta 
D’ Idomenèo  volò.  Nè  già  si  volse 
Come  fanciullo  in  iìiga  il  re  cretese; 

Ma  fermo  stette  ad  aspettarlo.  E quale 
Cinghiai  che  sente  le  sue  forze,  aspetta 
In  solitario  loco  alla  montagna 
De’cacciator  la  turba;  alto  sul  dosso 
Arriccia  il  pelo,  e,  una  terribil  luce 
Lampeggiando  dagli  occhi,  i denti  arruota. 

Di  sbaragliar  le  torme  impaziente 
Degli  uomini  e de’ cani;  in  tal  sembianza 
Fermo  si  stava  Idomenèo , 1’  assalto 
Aspettando  d’  Enea.  Por  vólto  a’  suoi , 

•\scàlafo  chiamonne  ed  Afarèo 
E Dèipiro  e Merione  e Antiloco, 

Mastri  di  guerra , e gl’  incitò  con  queste 
Ratte  parole:  Amici,  a darmi  assalto 
Corre  il  figlio  d’Anchise:  egli  è di  stragi 


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»S6 


ILIiDB 


r.  6ai>6G* 


Opcrator  gagliardo  , e,  ciò  che  forma 
11  maggior  nerbo,  ha  por  degli  anni  il  fiore, 
lo  son  qui  solo , nè  del  par  la  fresca 
Gioventù  mi  sorride.  Ove  ciò  fosse, 

Con  questo  cor  qui  tosto  glorioso 
O lui  mia  morte,  o me  la  sua  farebbe. 

Disse;  e tutti  gli  fùr  concordi  al  fianco 
Con  gf  inclinati  scudi.  Enea  , dall'  altra 
Parte  eccitando  i suoi  compagni,  appella 
Déifbbo  a soccorso  e Pari  e il  diro 
Agenore,  ebe  tutti  eran  con  esso 
Condottieri  de’  Teucri , e li  seguia 
Molta  man  di  guerrieri,  a simiglianza 
Di  pecorelle  che  dal  prato  al  fonte 
Van  su  la  traccia  del  lanoso  duce  , 

E ne  gode  il  pastor.  Tale  d’  Enea 
Pel  seguace  squadron  l’alma  gioisce. 

Colle  Inngh’astc  intorno  ad  Alcatóo 
S’azzniTàr  questi  e quelli.  Intorno  ai  petti 
Orribilmente  risonava  il  ferro 
De’ combattenti  ; e due  guerrier  famosi, 
D’Ancbise  il  figlio  e il  regnator  di  Creta , 
Pari  a Marte  ambedue,  con  dispictato 
Ferro  a vicenda  di  ferirsi  lian  brama. 

Trasse  primiero  Enea;  ma,  visto  il  colpo, 
L’  avversario  scbivollo , e tremolante 
Al  suol  s’infisse  la  dardania  punta, 

Invan  fuggita  dalla  man  robusta. 

Idomcnéo  percosse  a mezzo  il  ventre 
Enòmào.  Spezzò  1’  asta  l’ incavo 
Della  corazza,  e gl’intestini  incise 
Sì,  ch’egli  cadde  nella  polve,  c strinse 
Colle  pugna  il  sabbion.  Svelse  dal  morto 
La  lancia  il  vincitor;  ma  le  bell’ armi 
Rapirgli  non  poteo;  cbè  degli  strali 
L’  opprimea  la  tempesta  , c non  avea 
Salde  al  correr  le  gambe  e al  ripigliarsi 
L’asta  scagliata,  ed  a schivar  l’ ostile. 
Quindi  a piè  fermo  ci  ben  sapea  per  anco 
La  morte  allontanar;  ma  dal  conflitto 


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LIBRO  Xlll 


¥.  66i«70o 


Mal  nel  bisogno  sottraealo  il  piede. 

Deifobo,  che  caldo  il  cor  di  rabbia 
Sempre  in  lui  mira,  vistolo  ritrarsi 
A lenti  passi,  gli  avventò,  ma  indarno 
Pur  questa  volta,  il  telo  che,  veloce 
Via  trasvolando,  Àscòlafo  raggiunse. 

Prole  di  Marte,  e all’ òmero  il  trafisse. 

Ei  cadde,  e steso  brancicò  la  polve. 

Nè  del  caduto  figlio  allor  veruna 
Ebbe  notizia  il  violento  Iddio, 

Che  dal  comando  di  Giove  impedito 
Stava  in  quel  punto  su  le  vette  assiso 
Dell’Olimpo,  e il  copn'a  d’oro  una  nube 
Misto  agli  altri  Immortali,  a cui  vietato 
Era  dell’  armi  il  sanguinoso  ludo. 

Una  pugna  crudel  sul  corpo  intanto 
D’Ascàlafo  incomincia.  Al  morto  invola 
Dèifobo  il  bell’  elmo  5 e Merione 
Tale  sul  braccio  al  rapitor  disserra 
Di  lancia  un  colpo,  che  di  man  gli  sbalza 
Risonante  al  terren  1’  aguzzo  elmetto. 

E qui  di  nuovo  Merton  scagliossi 
Come  fiero  avoltojo^  e,  dal  nemico 
Braccio  sconfitta  dell’  astil  la  punta , 

Si  ritrasse  tra’ suoi.  Corse  al  ferito 
Il  suo  german  Poh'te^  e,  per  traverso 
L’abbracciando,  il  cavò  dal  rio  conflitto^ 

Ed  in  parte  venuto,  ove  l’auriga 
Lungi  dall’ armi  co’ cavalli  il  cocchio 
In  pronto  gli  tenea,  questi  il  portare 
Gemente,  afflitto  e per  la  fresca  piaga 
Tutto  sangue  la  mano,  alla  cittade. 

Cresce  intanto  la  pugna , e al  ciel  nc  .vanno 
Immense  grida.  Enea  d’asta  colpisce 
Nella  gola  Afaréo  Caletorìde, 

Che  l’ invesU'a  di  fronte.  Riversossi 
DaU’  altra  parte  il  capo , e n’  andar  seco 
L’  elmo  e lo  scudo , e lui  la  morte  avvolse. 
Visto  Toone  che  volgea  le  terga  , 

Antiloco  l’  assalta , e al  fuggitivo 


a8y 


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a88 


ILIIOE 


r.  701*740 


Netta  incide  la  vena  che  pel  dosso , 

Quanto  è lungo,  scorrendo,  al  collo  arriva^ 
Netta  r incide , e resupino  ei  casca 
Nella  sabbia,  stendendo  a' suoi  compagni 
Ambe  le  mani.  Gli  iìi  ratto  addosso 
Àntiloco^  e,  delibarmi  il  dispogliando, 

Gli  occhi  ai  Teucri  tenea,  che,  d’  ogni  parte 
Serrandolo , il  lucente  ampio  pavese 
Gli  tempestan  di  dardi;  e mai  veruno 
Di  tanti  teli  disfiorar  del  fi^o 
Di  Nèstore  il  gentil  corpo  potea; 

Ghè  da  tutti  il  guardava  attentamente 
L'  Enosigéo  Nettunno.  Eid  il  guerriero. 

Non  che  ritrarsi  dai  nemici,  sempre 
Coll’asta  in  moto  s’avvolgea  fra  loro. 

Pronto  a ferir  da  lungi  e da  vicino. 

Mentre  in  cor  volge  nuovi  danni , il  vede 
L’Asiade  Adamante;  e,  in  lui  repente 
Impeto  fatto,  colla  lancia  il  fere 
A mezza  targa.  Preservò  del  Greco 
La  vita  il  nume  dalle  chiome  azzurre, 

E spezzò  la  nemica  asta , che  mezza 
Rimase  infissa  nello  scudo  a guisa 
D’adusto  palo,  c mezza  giacque  a terra. 
Diede  addietro  a tal  vista  il  feritore. 
Salvandosi  fra’  suoi.  Ma  Merione 
Spinse  1’  asta  nel  ventre  al  fuggitivo 
Fra  l’umbilico  e il  pube,  ove  del  ferro 
È mortai  la  ferita , e lo  confisse. 

Cadde  il  confitto  su  la  lancia,  e tutto 
Si  contorcea  qual  bue  cui  di  ritorte 
Funi  annodato  su  pel  monte  a forza 
Strascinano  i bifolchi;  e tale  anch’egli  . 

Si  dibattea;  ma  il  suo  penar  fu  breve; 

Chò  tosto  accorse  Merione  ; e , svelta 
L’ asta  dal  corpo , l’ acchetò  per  sempre. 

Grande  e battuta  su  le  tracie  incudi 
Alza  Elleno  la  spada , ed  alla  tempia 
Dèipiro  fendendo  , gli  dirompe 
L’elmo,  e dal  capo  glielo  sbalza  iu  terra. 


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V.  74'-7*»  LIBKO  TIII  aSg 

Ruzzolò  risonante  la  celala 

Fra  le  gambe  agli  Achivi,  c fu  dii  tosto 

La  raccolse  ; ma  iicgra  eterna  notte 

Deipiro  coperse.  Addolorato 

Del  morto  amico  il  buon  minore  Alride , 

Contro  il  regale  eroe  che  a morte  il  mise  , 
Minaccioso  avanzossi , alto  squassando 
L'acuta  lancia^  ed  Eleno  a rincontro 
L'  arco  tese.  Affrontarsi  ambo  i guerrieri , 

Bramosi  di  vibrar  quegli  la  picca , 

Questi  lo  strale.  Saettò  primiero 
Di  Priamo  il  figlio , e colpì  P altro  al  petto 
Nel  cavo  del  torace.  Il  rio  quadrello 
Via  volò  di  risalto  ^ e a quella  guisa 
Che  per  1'  aja  agitato  in  largo  vaglio 
Al  soffiar  dell’  auretta  ed  alle  scosse 
Del  vagliator  sussulta  della  bruna 
Fava  o del  cece  1’  arido  legume  ^ 

Dall’  usbergo  cosi  di  Menelao 
Resultò  risospinto  il  dardo  acerbo. 

Di  risposta  l’Atridc  al  suo  nemico 
Ferì  la  man  che  il  liscio  arco  strignea, 

E all’  arco  stesso  la  confisse.  In  salvo 
Retrocesse  fra’  suoi  tosto  il  ferito  , 

Cui  penzolava  dalla  man  l’ infisso 
Frassineo  telo.  Glielo  svelse  alfine 
Il  generoso  Agenore,  c la  piaga 
Destramente  fasciò  d’  una  lanosa 
Fionda  che  pronta  il  suo  scudier  gli  ^avea. 

Al  tii'onfante  Atride  si  converse 
Pisandro  allor  di  punta  ^ e negro  fato 
A cader  lo  spigneva  in  rio  certame 
Sotto  i tuoi  colpi,  o Menelao.  Venuti 
Ambo  all’  assalto , gittò  l’ asta  in  fallo 
11  figliuolo  d’Atréo.  C(dse  Pisandro 
Lo  scudo  ostil^  ma  non  passollo  il  telo 
Dalla  targa  respinto  c nell’estrema 
Parte  spezzato^  nondimen  gioiniic 
Colui  nel  core,  e vincitor  si  tenne. 

Tratto  il  fulgido  brando,  allor  l'Atride 
Mo.sii.  Iliade.  icj 


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ILIADE 


i 781*830 


390 


Àvventossi  al  nemico^  e questi,  all'  ombra 
Dello  scudo,  impugnò  ferrata  e bella 
Una  bipenne , nel  polito  e lungo 
Manico  inserta  di  silvestre  olivo. 

Mossero  entrambi  ad  un  medesmo  tempo. 
Al  cono  dell’  elmetto  , irto  d’  equine 
Chiome,  sotto  il  cimier  Pisandro  indarno 
La  scure  dechinò  \ l’ altro  lui  colse 
Nella  fronte,  e del  naso  alla  radice. 
Crepitò  1’  osso  infranto , e sanguinosi 
Gli  cascàr  gli  occhi  nella  polve  al  piede. 
Incurvossi  cadendo  ^ e Menelao  , 

D’  un  piè  caleato  dell’  ucciso  il  petto , 

L’  armi  n’  invola  , e glorioso  esclama  : 
Ecco  la  via  , per  cui  de’  bellicosi 
Danai  le  navi  lascerele  alfine , 

Perfidi  Teucri,  ognor  di  sangue  ingordi. 
Vi  fu  poco  1’  aver , malvagi  cani , 

Con  altra  fellonia  , con  altre  offese 
Violati  i miei  lari , e del  tonante 
Giove  ospitai  sprezzata  la  tremenda 
Ira  , che  un  giorno  svellerà  dal  fondu 
L’  alta  vostra  città  ; poco  il  rapirmi 
Una  giovine  sposa  e assai  ricchezza 
Da  nulla  ingiuria  offesi , anzi  a cortese 
Ospizio  accolti  e accarezzati  : or  anco 
Desio  vi  strugge  di  gittar  nel  mezzo 
Delle  navi  le  fiamme,  e degli  achivi 
Eroi  far  scempio.  Ma  verrà  chi  ponga. 
Vostro  malgrado,  a furor  tanto  il  freno. 
Giove  padre,  per  certo  uomini  e Dei 
Di  saggezza  tu  vinci,  c nondimeno 
Da  te  vien  tutto  sì  nefando  eccesso, 

D.i  te , de’  Teucri  difensor , di  questa 
Sempre  d’  oltraggi  e d’ ingiustizie  amica 
Razza  iniqua , che  mai  delle  rie  zuffe 
Di  Marte  non  si  sbrama.  11  cor  di  tutte 
Cose  alfin  sente  sazietà  , del  sonno , 

Della  danza,  del  canto  e dell’amore, 
Piacer  più  c.irl  che  la  guerra  ; e mai 


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™ LIBRO  XIII  Vt()l 

Sazi  (li  guerra  non  saranno  i Teucri  ? 

Tolse  l’armi,  ciò  detto,  a ipiell’ estinto , 

Di  sangue  asperse  ^ e come  in  man  rimesse 
L’  ebbe  de'  suoi , di  nuovo  all’  inimico 
Volse  la  faccia  nelle  prime  (Ile. 

Fiero  1’  assalse  allor  di  Pileméne 
II  figlio  , Àrpalion  , che  il  suo  diletto 
Padre  alla  guerra  accompagnò  di  Troja 
Per  non  mai  più  redire  al  patrio  lido. 

S’avanzò,  fulminò  l’asta  nel  colmo 
Dello  scudo  d'Atride  ^ e,  senza  effetto 
Visto  il  suo  colpo,  s’arretrò,  salvando 
Fra' suoi  la  vita,  e d’ ogni  parte  attento 
Guatando  che  noi  giunga  asta  nemica. 

Ed  ecco  dalla  man  di  Mcriione 
Una  freccia  volar  che  al  destro  clune 
Colse  il  fuggente , e sotto  1’  osso , accanto 
Alla  vescica,  penetrò  diritto. 

Caduto  sul  ginocchio , egli  nel  mezzo 
De’ cari  amici  spirando  giacca. 

Steso  al  suol  come  verme  ^ e in  larga  vena 
II  sangue  sul  terrcn  facea  ruscello. 

Gli  fur  d’intorno  con  pietosa  cura 
I generosi  Paflagoni,  e lui 
Collocato  sul  carro  alla  cittade 
Conduccan , dolorando.  Iva  con  essi 
Tutto  in  lagrime  il  padre,  e dell'  ucciso 
Figlio  nessuna  il  consolò  vendetta. 

Pel  morto  Arpalion  forte  crucciossi 
Paride  che  cortese  ospite  1’  ebbe 
Fra’  Paflagoni  un  tempo  , e dalla  cocca 
Sfrenò  di  ferrea  punta  una  saetta. 

Era  un  certo  Eucbenòr,  dell’  indovino 
PolÙde  figliuol , uom  prode  e ricco 
E di  Corinto  abltator,  che  appieno 
Del  reo  suo  fato  istrutto,  avea  di  Troja 
Veleggiato  alle  rive.  A lui  sovente 
Detto  aveva  il  buon  veglio  Polùde , 

Che  d’  atro  morbo  nel  paterno  tetto , 

O di  ferro  trojano  egli  morrebbe 


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29« 


ILIADE 


>.  1^1*900 


Fra  lu  argoliche  navi:  e,  più  che  morte, 

Di  tetra  infermità  l’aspro  martire 
K degli  Achei  lo  spregio  egli  temette. 

Di  Paride  lo  strai  ctjlse  costui 
Sotto  l’ orecchio  alla  mascella  ; e tosto 
L’  abbandonò  la  vita , ed  un  orrendo 
Perpetuo  bujo  gli  coprì  le  luci. 

In  questa  guisa  ardea  la  pugna,  e ancor* 
Il  diletto  di  Giove  alto  guerriero, 

Ettore,  intesa  non  avea  la  strage 
Che  di  sue  genti  segue  alla  sinistra 
Della  battaglia , e che  ornai  piega  U volo 
La  vittoria  agli  Achei  ; tale  è l’ impulso , 
Tale  il  nerbo  e 1’  ardir  di  che  furtivo 
Li  soccorre  Nettunno.  A quella  parte 
Starasi  Ettorre , ov’  egli  avea  da  prima 
Le  porte  a forza  superato  e il  muro , 

C rotte  degli  Achei  le  dense  ille. 

Ivi  d’Ajace  e di  Protcsilao 
Coronavnn  le  navi  al  secco  il  lido^ 

E perchè  da  quel  lato  era  più  basso 
Edificato  il  muro,  ivi  più  forte 
De'  cavalli  e de’  fanti  era  la  pugna. 

Flj  , Beozi , Locrc.si  , c colle  lunghe 
Lor  tuniche  gl’  lonj  c'  i chiari  Epéi 
Ivi  eran  tutti  ^ e tutti  a tener  lungi 
Dalle  navi  d'  Ettorre  la  rovina 
Opravano  le  mani:  e tanti  insieme 
A rintuzzar  dell’  infiammato  eroe 
Non  bastano  la  furia.  Il  fior  d’Atene 
Stassi  alle  prime  file,  ed  il  Petide 
Mcncsti'o  li  conduce  , ajutatori 
Stichio , Fida  c Bìantc.  E degli  Epéi 
Duce  Megele  e Dracio  ed  Amfione; 

De’  Ftj  Medonte  e il  pugnator  Podarce , 
Podarce,  nato  del  Filàcio  Ificlo, 

-Medonte,  d’Oiléo  bastarda  prole 
E d’Ajace  fratei , che , dal  paterno 
Suolo  esulando,  in  Filace  abitava, 

.Messo  a morte  il  german  della  matrigna 


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LIBRO  XIII 


■ilio 

Eriopide , d’  Qiléo  moglicra. 

Degli  eletti  di  Ftia  questi  alla  testa, 

Giunti  ai  Beozi,  difendean  le  navi. 

Àjace  d’  Ollép  mai  sempre  al  fianco 
Del  Telamdnio  combattea.  Siccome 
Due  negri  buoi  d’ una  medesma  voglia , 
Nella  dura  maggese  il  forte  aratro 
Traggono , c al  ceppo  delle  corna  intorno 
Largo  rompe  il  sudor , mentre  dal  solo 
Giogo  divisi  per  lo  solco  eguali 
Stampano  i passi , e dietro  loro  il  seno 
Si  squarcia  della  terra  ; a questa  immago 
Pugnavano  congiunti  i duo  guerrieri. 

Molta  e gagliarda  gioventù  seguiva 
Il  Telamdnio  ^ e quando  la  fatica 
E il  sudor  lo  fiaccava,  i suoi  compagni 
Il  grave  scudo  ne  prendean.  Ma  i Locri, 

À cui  poco  durar  solca  1'  ardire 
Nella  pugna  a piò  fermo  , d’  Oiléo 
L’  audace  figlio  non  seguian.  Costoro 
Non  elmi  avean  d’equino  crine  ondanti. 

Nè  tondi  scudi , nè  frassinee  lance , 

Ma,  d’archi  solo  armati  e di  ben  torte 
Lanose  fionde,  ad  Ilio  il  seguitaro^ 

E da  quest’  archi  e queste  fiondo  in  campo 
Scagliavano  la  morte,  e de’ Trojan i 
Le  falangi  rompean.  Per  questo  modo , 
Mentre  gli  Ajaci  nella  prima  fronte 
Di  bell’  arme  precinti  alla  ruinà 
Del  fiero  Ettór  fann’  argine , al  lor  tergo 
Nascosti  i Locri , saettando  sempre 
E frombolando , le  ordinanze  tutte 
Turban  de’  Teucri  ornai  smarriti  e rotti. 

D’  alta  strage  percossi  allora  i Troi , 

Da  navi  e tende  si  sarian  ritratti 
Al  ventoso  llion,  se  non  volgea 
All’animoso  Ettdr  queste  parole 
Polidamante  : Ettorre,  ai  saggi  avvisi 
Tu  mal  presti  l’orecchio.  E perchè  Giove 
Alto  ti  diede  militar  favore, 


ig4  ILIADE  *. 

Vuoi  tu  forse  per  questo  agli  altri  ir  sopra 
Di  prudenza  e consiglio  ? Ad  un  sol  tempo 
Tutto  aver  tu  non  puoi.  Di  Giove  il  senno 
Largisce  a questi  la  virtù  guerriera^ 

L'  arte  a quei  della  danza  ; ad  altri  il  suono 
R il  canto  delle  musc^  ad  altri  in  petto 
Pon  la  saggezza  che  i mortai  governa 
E le  città  conserva;  e sànne  il  prezzo 
Chi  la  possiede.  Or  io  dirò  l'avviso 
Che  mi  sembra  il  miglior.  Per  tutto , il  vedi , 
Ti  cinge  il  fuoco  della  guerra.  I Teucri , 

Con  magnanimo  ardir  passato  il  muro , 

Parte  coll’  armi  già  dan  volta , c parte 
Pugnano  ancor , ma  pochi  incontro  a molti , 
R spersi  tutti  fra  le  navi.  Or  dunque 
Tu  ti  ritraggi  alquanto,  e tutti  aduna 
Qui  del  campo  ì migliori  ^ e , delle  cose 
Consultata  la  somma  , si  decida  , 

Se  delle  navi  ritentar  si  debba 
L’assalto,  ove  pur  voglia  un  qualehe  iddio 
Dame  alfin  la  vittoria  ^ o se  più  torni 
L’  abbandonarle  illesi.  11  cor  mi  turba 
Un  timor  che  non  paghi  oggi  il  nemico 
Il  debito  di  jeri.  In  quelle  navi 
Posa  un  guerricr  terribile,  che  all’  armi 
Per  mia  credenza  desterassi  in  breve. 

Piacque  ad  Ettorre  il  salutar  consiglio  ; 

R , d’ un  salto  gittandosi  dal  carro  , 

Gridò:  Polidamante,  i più  gagliardi 
Tu  qui  dunque  rattien  ^ eh’  io  là  ne  vado 
A raddrizzar  la  pugna;  e,  dato  ai  nostri 
Buon  ordine , farò  pronto  ritorno. 

Disse  ; e ratto  partì  con  elevato 
Capo,  sembiante  ad  un’ eccelsa  rupe  ; 

E , volando , chiamava  alto  de'  Teucri 
E delle  schiere  collegate  i duci , 

Che  tosto,  udita  dell’eroe  la  voce. 

Alla  volta  correan  del  Pantoide 
Polidamante,  del  valore  amico. 

Di  Deifoho  intanto  e del  regale 


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•1030 


LIBRO  Xilt 


Eleno  c deU’As'iade  Adamante 
E dell’  Irtacid’Asio  iva  per  tutto 
Qua  e là  tra  i primi  combattenti  Ettorrc 
Dimandando  e cercando.  Alfin  gli  avvenne 
Di  ritrovarli,  ma  non  tutti  ille.si 
Nè  tutti  in  vita  ; chè  domati  alcuni 
Dal  ferro  acheo  giaeean  nanti  alle  poppe 
Cadaveri  deformi  ; altri  tra  il  muro 
Languian  feriti  di  diverso  colpo. 
Dell’orrendo  conflitto  alla  sinisti'a 
Vide  egli  poscia  della  bella  Argiva 
Lo  sposo  rapitor  che  i suoi  compagni 
Confortava  alla  pugna.  Gli  fu  sopra, 

E acerbe  gli  tonò  queste  parole  : 

Ahi  ! funesto  di  donne  ingannatore , 

Che  di  bello  non  p.orti  altro  che  il  viso , 
Dé'ifobo  dov’  è?  dove  son  l’ariiii 
D’ Eleno,  d’Asio,  d’ Adamante?  dove 
Otrionéo?  Dal  sommo  cccd  già  tutto 
Il  grand’  Ilio  precipita^  e te  pure 
L’ ultimo  danno  , o sciagurato  , aspetta. 

E il  bel  drudo  a rincontro:  Ettore,  a torto 
Tu  mi  rampogni.  In  altri  tempi  io  forse 
Un  trascurato  mi  mostrai  , non  oggi. 

La  madre  un  vile  non  mi  fe.  Dal  punto 
Che  il  conflitto  attaccasti  appo  le  navi , 

Da  quel  punto  qui  fermo  e senza  posa 
Con  gli  Achei  mi  travaglio.  I valorosi , 

Di  che  tu  chiedi,  caddero.  Due  soli, 

Dèifobo  ed  Eléno, «arabi  alla  mano 
Feriti  si  partir,  sottratti  a morte 
Certo  da  Giove.  Or  dove  il  cor  ti  dice. 
Guidami  : io  pronto  sognirotti  ^ e quanto 
Potran  mie  forze,  ti  farò,  mi  spero. 

Il  mio  valor  palese.  Oltre  sua  possa. 
Benché  abbondi  il  voler,  nessuno  è forte. 

Piegàr  quei  detti  del  fratello  il  core, 

E di  conserva  entrambi  ove  più  ferve 
La  mischia  s’  avvi'àr.  Pugnano  quivi 
E Cebiione  e il  buon  Polidamantc 


ILIADE 


E il  diviii  Polifcle  e Falce  c Ortéo  , 

E i Ire  d'Ipponon  gagliardi  figli, 

Palmi , Mori  ed  Ascanio , dal  glebosu 
Suol  d’Ascaiiia  venuti  il  dì  precesso, 

E spinti  all'  armi  dal  voler  de'  numi. 

Come  di  venti  impetuosi  un  turbo 
Dal  tuon  di  Giove  generato  piomba 
Su  la  campagna,  c con  fracasso  orrendo 
Sovra  il  mar  si  diffonde^  immensi  c spessi 
Bollono  i fluiti  di  canuta  spuma, 

E con  fiero  mugghiar  1'  un  l' altro  incalza 
Al  risonante  lido  \ a questa  guisa 
In  ristretti  drappelli,  e gli  uni  agli  altri 
Succedenti  i Trojani  e scintillanti 
Tutti  nell’  armi  ne  venian  su  l’ orme 
De’  condottieri , e precoiTcali  Ellorre  , 

Non  minor  del  ten’ibilc  Gradivo. 

Un  tessuto  di  cuoi  tondo  broccliiero. 

Di  molte  piastre  rinforzato , il  prode 
Tiensi  davanti  ^ ed  alle  tempie  intorno 
Tutto  lampeggia  l'agitato  elmetto. 

Sicuro  all’ombra  del  suo  gran  pavese 
Passo  passo  ci  s’ avanza , c d’ ogni  parte 
Forar  si  studia  le  nemiche  file , 

E sgominarle.  Ma  de’  petti  achei 
Non  si  turba  il  coraggio;  e,  mossi  Ajacc 
I larghi  passi,  a provocarlo  il  primo  : 
.Accostati , gli  disse  : e che  pretendi 
Tu,  fier  spavaldo?  sgomentar  gli  Achivi  ? 
Non  siam  nell’  arte  manial  fanciulli  ; 

E chi  ne  doma,  non  se’ tu,  ma  Giove 
Con  funesto  flagello.  Se  le  navi 
Strugger  li  speri,  a rintuzzarti  pronte 
E noi  pur  anco  abbiani  le  mani , e tutta 
Struggeremo  noi  pria  la  tua  superba 
Cittade.  A te  predico  io  poi , che  1’  ora 
Non  è lontana,  che  tu  stesso  in  fuga 
Manderai  preghi  a Giove  c a tutti  i Divi, 
Che  siau  di  penna  di  sparvier  più  ratti 
1 corridori  che,  difTusc  al  vento 


»•.  io6i*io65 


LIBftO  XIII 


»97 


Le  belle  chiome,  porteranti  a Troja 
Entro  un  nembo  di  polve.  — Avea  quel  fiero 
Ciò  detto  appena,  che  alla  dritta  in  alto 
Un'  aquila  comparve.  Alzàr  le  grida, 

Fatti  più  franchi  a quell’  augurio , i Greci  ; 
Ma  non  fu  tardo  alla  risposta  Ettorre  : 

Stupida  massa  di  carname,  Ajace 
Millantator,  che  parli?  Eterno  figlio 
Cosi  foss’  io  di  Giove  e dell'  angusta  - 
Giuno,  e onorato  al  par  di  Palla  c Febo, 
Come  m’  accerto  che  funesto  a tutti 
Vi  sarà  questo  giorno:  e tu  fra’ morti, 

Tu  medesmo  cadrai,  se  di  mia  lancia 
T’ avrai  1’  ardire  d’ aspettar  lo  scontro. 

Rotto  da  questa  e qui  disteso  il  tuo 
Vizzo  corpaccio,  di  sua  pingue  polpa 
Gli  augci  di  Troja  farà  sazi  e i cani. 

Cosi  detto  s’  avanza^  e con  immenso 
Urlo  animosi  gli  van  dopo  i Teucri. 

Dall’  altro  lato  memori  gli  Achivi 
Della  virtù  guerriera,  e del  più  scelto 
Fiore  di  Troja  intrepidi  all’  assalto , 

Misero  anch’  essi  un  alto  grido  ; e d'  ambi 
Gli  eserciti  il  clamor  feria  le  stelle 
E i raggianti  di  Giove  almi  soggiorni. 


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LIBRO  DECIMOQUARTO 


ARGOvsirro 


Nc>tor«  f udito  0 finMMO  dt*  cnmfaaUouti , càct  dalla  nu  lauda  , a »’  invia  par  coonaltarn 
eoa  AganMamma  tul  perirolo  de*  Groci.  Agamaoueno  i nuovamaola  di  parrre  rba  *i  tonti 
la  fuga.  Uliua  ù oppone.  Diomada  contiglia  ai  duci  di  moatrani , beoctic  feriti , ai  goar* 
rieri,  e Kwimcnia  il  coraggio.  Nettuaoo  ioanimiace  ì Giuri.  Frattasto  Giunone , ottenuto 
il  cioto  di  Venere,  presentai  a Giove  sull'  Ida  j ed  invocata  I*  assùtensa  del  dio  Soobu  , 
giunge  ad  addonnenlare  il  marito.  Dorante  il  tonno  di  Giove , Nettunno  MxeofTe  i Greci , 
i quali  fanno  orrenda  strage  dei  Trojani.  Ettore  i ferito  eoo  un  seseo  da  Ajaec  Tdamdnio. 
L*  eroe  è portato  wnivivo  voreo  di  Tro^. 


De'  combattenti  udi  1’  alto  fracasso 
Nèstore  in  quella  che  nna  colma  tazza 
Accostava  alle  labbra;  e,  d'Escnlapio 
Rivolto  al  figlio:  Oh,  che  mai  fia,  diss' egli, 
Divino  Macaoni  Presso  alle  navi 
Dell'  usato  maggiori  odo  le  grida 
De'  giovani  guerrieri.  Alla  vedetta 
Vado  a saperne  la  cagion.  Tu  siedi 
Intanto,  e bevi  il  rubicondo  vino. 

Mentre  i caldi  lavacri  t'apparecchia 
La  mia  bionda  Ecamède,  onde  del  sangue. 
Di  che  vai  sozzo,  dilavar  la  gruma. 

Del  suo  figliuol  si  tolse  in  questo  dire 
11  brocchier  che  giacea  dentro  la  tenda , 

Il  fulgido  brocchier  di  Trasiméde 
Che  il  paterno  portava.  Indi,  una  salda 
Asta  d'acuta  cuspide  impugnata, 

Fuor  della  tenda  si  sofferma , e vede 

Miserando  spettacolo  : cacciati 

In  fuga  i Greci,  e alle  lor  spalle  i Teucri 


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V.  ai>6o 


»99 


ILIADE,  UBHO  XIV 

Inseguenti  e furenti,  e la  muraglia 
Degli  Achei  rovesciata.  Come  quando 
II  vasto  mar  s' imbruna , e presentendo 
De' rauchi  venti  il  turbine  vicino, 

Tace  l’ onda  atterrita , ed  in  nessuna 
Parte  si  volve,  finché  d'alto  scenda 
La  procella  di  Giove;  in  due  pensieri 
Cosi  del  veglio  il  cor  pendea  diviso; 

Se  fra  i rapidi  carri  de' fuggenti 
Danai  si  getti;  o se  alla  volta  ei  corra 
Del  duce  Atn'de  Agamennòn.  Lo  meglio 
Questo  gli  parve;  e s' avviò.  Seguia 
La  mutua  strage  intanto,  e intorno  al  petto 
De'  combattenti  risonava  il  ferro 
Dalle  lance  spezzato  e dalle  spade. 

Fuor  delle  navi  gli  si  féro  incontro 
I re  feriti,  Ulisse  e ERomede 
E Agamennòn.  Di  questi  a fior  di  lido 
Stavan  lungi  dall'  armi  le  carene. 

L' altre,  che  prime  lo  toccòr,  dedotte 
Più  dentro  alla  pianura,  eran  le  navi, 

A cui  dintorno  fu  costrutta  il  muro; 
Perocché  il  lido,  benché  largo,  tutte 
Non  potea  contenerle,  ed  acervate 
Stavan  le  schiere.  Statuiti  adunque 
L'uno  appo  l'altro,  come  scala,  i legni 
Tutto  empieono  del  lido  il  lungo  seno 
Quanto  del  mare  ne  chiudean  le  gole. 
Scossi  al  trambusto,  che  s'udia,  que’duci; 
E di  saper  lo  stato  impazienti 
Della  battaglia,  ne  venian  conserti. 

Alle  lance  appoggiati,  e gravi  il  petto 
D'  alta  tristezza.  Terror  loro  accrebbe 
Del  veglio  la  comparsa;  e Agamennòne, 
Elevando  la  voce:  O degli  Achei 
Inclita  luce.  Nèstore  Neli'de, 

Perché  lasci  la  pugna , c qui  ne  vieni  ì 
Temo,  ohimè!  che  d'  Ettòr  non  si  compisca 
La  minacciata  nel  trojan  consesso 
Fiera  parola  di  non  far  ritorno 


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3oo 


ILIADE 


6|'Ick> 


Nella  città,  se,  pria  spenti  noi  tutti, 

Tutte  in  faville  non  mettea  le  navi. 

Elcco  il  detto  adempirsi.  Eterni  Dei! 
Dunque  in  ira  son  io,  come  ad  Achille, 

A tutto  il  campo  acheo  si , che  non  voglia 
Più  pugnar  dell'  armata  alla  difesa? 

Ahi  ! pur  troppo  1’  evento  è manifesto  , 
Néstor  rispose;  nè  disfare  il  fatto 
Lo  stesso  tonator  Giove  potrebbe. 

11  muro , che  de'  legni  c di  noi  stessi 
Riparo  invitto  speravam,  quel  muro 
Cadde;  il  nemico  ne  combatte  intorno 
Con  ostinato  ardire  e senza  posa; 

Nè , come  che  tu  l’ occhio  attento  volga , 
Più  ti  sapresti  da  qual  parte  il  danno 
Degli  Achivi  è maggior;  tanto  son  essi 
Alla  rinfusa  uccisi , e tanti  i gridi , 

Di  che  1’  aria  risuona.  Or  noi  qui  tosto. 
Se  verun  più  ne  resta  util  consiglio, 
Consultiamo  il  da  farsi.  Entrar  nel  forte 
Della  mischia  non  io  però  v’  esorto  ; 

Chè  mal  combatte  il  battaglicr  ferito. 

Saggio  vegliardo,  replicò  l’Atrìdc, 
Poiché  fino  alle  tende  hanno  i nemici 
Spinta  la  pugna  , e più  non  giova  il  vallo 
Nè  della  fossa  nè  dell'  alto  muro  , 

A cui  tanto  sudammo,  e inviolato 
Schermo  il  tenemmo  delle  navi  e nostro  . 
Chiaro  ne  par  che  al  prepossente  Giove 
Caro  è il  nostro  perir  su  questa  riva. 
Lungi  d’Argo,  infamati.  Il  vidi  un  tempo 
Proteggere  gli  Achei  ; lui  veggo  adesso 
I Trojani  onorar  quanto  gli  stessi 
Beati  Eterni,  e incatenar  le  nostre 
Forze  e 1'  ardir.  Mia  voce  adunque  udite  : 
Le  navi,  che  ne  stanno  in  secco  al  primo 
Lembo  del  lido,  si  sospingan  tutte 
Nel  vasto  mare,  c tutte  sieno  in  allo 
Sull'  àncora  fermate  insin  che  fitta 
Giunga  la  notte,  dal  cui  velo  ascosi 


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l01-l4o 


LIBRO  XIV 


3oi 


Varar  potremo  il  resto,  ove  pur  sia 
Che  ne  dian  tregua  dalla  pugna  i Teucri. 
Non  è biasmo  fuggir  di  notte  ancora 
Il  proprio  danno  ^ ed  è pur  sempre  il  meglio 
Scampar  fuggendo,  che  restar  captivo. 

Lo  guatò  bieco  Ulisse,  e gli  rispose  : 
Àtride,  e quale  ti  fuggì  dal  labbro 
Rovinosa  parola  ? Imperadore 
Fossi  oh!  tu  di  vigliacchi,  e non  di  noi. 

Di  noi,  che  Giove  dalla  verde  etade 
Infine  alla  canuta  agli  ardui  fatti 
Della  guerra  incitò,  finché  ciascuno 
Vi  perisca  onorato.  E così  dunque 
Puoi  tu  de’ Teucri  abbandonar  l’altera 
Città,  che  tanti  già  ne  costa  affanni? 

Per  dio  ! noi  dire  ^ dagli  Achei  non  s’ oda 
Questo  sermone  , della  bocca  indegno 
D’ uom  di  senno  e scettrato,  e,  qual  tu  sei. 
Di  tante  schiere  capitano.  Io  primo 
II  tuo  parer  condanno.  Arde  la  pugna, 

C tu  comandi  rJie  nel  mar  lanciate 
Sien  le  navi?  Ciò  fora  un  far  più  certo 
De'  Trojani  il  vantaggio  , e più  sicuro 
Il  nostro  eccidio^  perocché  gli  Achivi 
In  quell’opra  assaliti,  anzi  che  fermi 
Sostener  l’ inimico , al  mar  terranno 
Rivolto  il  viso,  a’  Teucri  il  tergo:  e allora 
Vedrai  funesto,  o duce,  il  tuo  consiglio. 

Rispose  Agamennòn:  La  tua  pungente 
Rampogna,  Ulisse,  mi  feri  nel  core. 

Ma  mia  mente  non  é,  che,  lor  malgrado, 
Traggan  le  navi  in  mar  gli  Achivi^  c s’  ora 
Altri  sa  darne  più  pensato  avviso. 

Sia  giovine,  sia  veglio,  io  l’avrò  caro. 

Chi  darallo,  n’é  presso  (il  bellicoso 
Tidide  ripigliò);  né  fia  mestieri 
Cercarlo  a lungo,  se  ascoltar  vorrete, 

Né , perché  d’  anni  inferìor  vi  sono , 

Con  disdegno  spregiarmi.  Anch’io  mi  vanto 
Figlio  d’ illustre  gcnitor,  del  prode 


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3ol  ILIÀDE  'i>  >8o 

Tidéo,  di  Cadmo  nel  terreo  sepolto. 

Portéo  tre  figli  generò  , dell'  alta 
Galìdone  abitanti  e di  Pleurone, 

Agno,  Mela  ed  Eneo,  tutti  d'egregio 
Valor,  ma  tutti  li  vincea  di  molto 
11  cavaliero  Enéo,  padre  al  mio  padre. 

Ivi  egli  visse;  ma,  da'  numi  astietto 
A gir  vagando  il  padre  mio,  sua  stanza 
Pose  in  Argo , e d' Adrasto  a moglie  tolse 
Una  figlia;  e signor  di  ricchi  alberghi 
E di  campi  frugiferi  per  molte 
File  di  piante  ombrosi , e di  fecondo 
Copioso  gregge,  a tutti  ancor  gli  Argivi 
Ei  sovrastava  nel  vibrar  dell'  asta. 

Conte  vi  sono  queste  cose,  io  penso, 

Tutte  vere;  e sapendomi  voi  quindi 

Nato  di  sangue  generoso,  a vile 

Non  terrete  il  mio  retto  e franco  avviso. 

Orsù,  crudel  necessità  ne  spinge. 

Al  campo  adunque , tuttoché  feriti , 

E perchè  piaga  a piaga  non  s'  aggiunga , 

Fuor  di  tiro  si  resti,  ma  propinqui 
Sì , che  possiamo  gl'  indolenti  almeno 
Incitar  coll'  aspetto  e colla  voce. 

Piacque  il  consiglio;  e s'  aw'iàr  precorsi 
Dal  re  supremo  Agameunón.  Li  vide 
Nettunno  ; e,  tolte  di  guerricr  canuto 
Le  sembianze,  e per  man  preso  l'Àtride, 

Fe  dal  labbro  volar  queste  parole  : 

Atride,  or  sì,  che  degli  Achei  la  strage 
E la  fuga  gioir  fa  la  crudele 
Alma  d'Achille,  poiché  tutto  l' ira 
Gli  tolse  il  senno.  Oh  possa  egli  in  mal  punto 
Perire , e d’  onta  ricoprirlo  un  Dio  ! 

Ma  tutti  a te  non  sono  irati  i numi , 

E de' Teucri  vedrai  di  nuovo  i duci 
Empir  di  polve  il  piano , e dalle  tende 
E dalle  navi  alla  città  fuggirsi. 

Disse;  c corse,  e gridò  quanto  di  nove 
O dieci  mila  combattenti  alzarsi- 


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>*'->»  LIBRO  XIV  3oj 

Potrìa,  nell'atto  d’ azzuffarsi , il  grido: 

Tanto  fu  l’ urlo  che  dal  vasto  petto 
L'  Enosigéo  mandò.  Risorse  in  seno 
Degli  Achei  la  fortezza  a cpiella  voce, 

C il  desio  di  pugnar  senza  riposo. 

Su  le  vette  d’Olimpo  in  aureo  trono 
Sedea  Giono;  e di  là  visto  il  divino 
Suo  cognato  e fi^tel  che  in  gran  faccenda 
Per  la  pugna  scorrea,  gioinne  in  core. 

Sovra  il  giogo  maggior  scórse  ella  poscia 
Dell’irrigua  di  fonti  Ida  seduto 
L’  abborrito  consorte;  e in  suo  pensiero 
L’  augusta  Diva  a ruminar  si  mise 
D’ ingannarlo  una  via.  Calarsi  all’  Ida 
In  tutto  il  vezzo  della  sua  persona, 

Inflammarlo  d’amor,  trarlo  rapito 
Di  sua  beltà  nelle  sue  braccia , e dolce 
Nelle  palpebre  e nell’  accorta  mente 
Insinuargli  il  sonno:  ecco  il  partito 
Che  le  parve  il  miglior.  Tosto  al  regale 
Suo  talamo  s’avvia,  che  a lei  l’amato 
Figlio  Vulcano  fabbricato  area 
Con  salde  porte,  e un  tal  serrarne  arcano, 

Che  aperto  non  1’  avrebbe  iddio  veruno. 

Entrowi;  e,  chiusa  la  lucente  soglia. 

Con  ambrosio  licor  tutto  si  terse 
Pria  l’amabile  corpo,  e d’oleosa 
Essenza  l’irrigò,  divina  essenza 
Fragrante  sì,  che,  negli  eterni  alberghi 
Del  Tonante  agitata,  e cielo  e terra 
D’  almo  profumo  riempia.  Ciò  fatto, 

Le  belle  chiome  al  pettine  commise, 

E di  sua  mano  intorno  all’immortale 
Augusto  capo  le  compose  in  vaghi 
Ondeggianti  cincinni.  Indi  il  divino 
Peplo  s'indusse  che  Minerva  avea 
Con  grand’arte  intessuto,  c con  aurate 
Fulgide  fibbie  assicurollo  al  petto. 

Poscia  i bei  fianchi  d’  un  cintiglio  a molte 
Frange  ricinse,  c ai  ben  forati  orecchi 


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3o4 


ILUDE 


V.  32i-2(>0 


I gemmati  sospese  c rilucenti 

Suoi  ciondoli  a tre  gocce.  Una  leggiadra 
E chiara  come  sole  intatta  benda 
Dopo  questo  la  Diva  delle  Dive 
Si  ravTobe  alla  fronte.  Al  piè  gentile 
Àlfin  legossi  i bei  coturni^  e,  tutte 
Abbigliate  le  membra,  uscì  pomposa; 

Ed  in  disparte  Venere  chiamata, 

Cosi  le  disse:  Mi  sarai  tu,  cara, 

D’  una  grazia  cortese?  u meco  irata  , 

Perch'  io  gli  Acbivi , e tu  li  Teucri  aiti , 
Negarmela  vorrai  ? — Parla , rispose 
L'  alma  figlia  di  Giove  : il  tuo  desire 
Manifestami  intero  , o veneranda 
Saturnia  Giuno.  Mi  comanda  il  core 
Di  far  tutto  (se  il  posso,  e se  pur  lice  ) 

II  tuo  voler,  qual  sia.  — Dammi,  riprese 
La  scaltra  Giuno , 1’  amoroso  incanto , 

Che  tutti  al  dolce  tuo  poter  soggetta 

I mortali  e gli  Dei.  Dell’alma  terra 
Ai  fini  estremi  a visitar  men  vado 
L’ antica  Tcti  e 1’  Oceàn , de’  numi 
Gencrator,  che  presami  da  Rea, 

Quando  sotto  la  terra  e le  profonde 
Voragini  del  mar  di  Giove  il  tuono 
Precipitò  Saturno,  mi  nudriro 
Ne’  lor  soggiorni , e m’  educar  con  molta 
Cura  cd  afietto.  A questi  io  vado,  e solo 
Per  ricomporne  una  difficil  lite  , 

Ond'ei  da  molto  a gravi  sdegni  in  preda 
E di  letto  e d’  amor  stansi  divisi. 

Se  eon  parole  ad  acchetarli  arrivo 
E a rannodarne  i cuori,  io  mi  son  certa 
Che  sempre  avranmi  c veneranda  c cara. 

E l’ amica  del  riso  Citeréa  : 

Non  lice,  replicò,  nè  dòssi  a quella 
Che  del  tonante  Iddio  dorme  sul  petto. 

Far  di  quanto  ella  vuol  niego  veruno. 

Disse;  e dal  seno  il  ben  trapunto  e vago 
Cinto  si  sciolse,  in  che  raccolte  c chiuse 


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9.  a6i  3oo 


LIBRO  XIV 


3o5 


Erano  tutte  le  lusinghe.  V'  era 
D’amor  la  voluttà,  v’ era  il  desire 
E degli  amanti  il  favellio  segreto, 

Quel  dolce  favellio  eh’  anco  de’  saggi 
Ruba  la  mente.  In  man  gliel  pose,  c disse; 
Prendi  questo  mio  cinto,  in  che  si  chiude 
Ogni  dolcezza^  prendilo,  e nel  seno 
Lo  ti  nascondi , c tornerai , lo  spero , 

Tutte  ottenute  del  tuo  cuor  le  brame. 

L’alma  Giulio  sorrise,  e di  contento 
Lampeggiando  i grand’  occhi  in  quel  sorriso , 
Lo  si  ripose  in  seno.  Alle  paterne 
Stanze  Ciprigna  incamminossi  : e Giuno 
Frettolosa  lasciò  l’ olimpie  cime, 

E la  Pieria  sorvolando  e i lieti 
Emaz)  campi , le  nevose  vette 
Varcò  de’  trac)  monti , e non  toccava 
Col  piè  santo  la  terra.  Indi,  dell’Àto 
Superate  le  rupi,  all’  estuoso 
Ponto  discese,  e nella  sacra  Lenno, 

Di  Toante  città,  rattenne  il  volo. 

Ivi  al  fratello  della  Morte,  al  Sonno 
N’andò,  lo  strinse  per  la  mano,  c disse: 

Sonno,  re  de’ mortali  e degli  Dei, 

S’ unqua  mi  festi  d’  un  desio  contenta., 

Or  n’  è d’ uopo , e saprotti  eterno  grado. 
Tosto  ch’io  l'abbia  fra  mie  braccia  avvinto, 
M'addormenta  di  Giove,  amico  Dio, 

Le  fulgide  pupille:  ed  io  d’un  seggio 
D’  aiuro  incorrotto  ti  farò  bel  dono , 

Che  lavoro  sarà  maraviglioso 

Del  mio  figlio  Vulcan,  col  suo  sgabello. 

Su  cui  si  posi  a mensa  il  tuo  bel  piede. 

Saturnia  Giuno,  veneranda  Dea, 

Rispose  il  Sonno,  agevolmente  io  posso 
Ogni  altro  iddio  sopir,  ben  anche  i flutti 
Del  gran  fiume  Oceàn , di  tutte  cose 
Generatore;  ma  il  Saturnio  Giove 
Nè  il  toccherò  nè  il  sopirò,  se  tanto 
Non  comanda  egli  stesso.  1 tuoi  medesmi 
Mosti.  lUtde.  io 


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3otì 


ILIADI: 


3oi>3^o 


Cenni  di  questo  m’  assennar  quel  giorno 
Ch'  Ercole  il  suo  gran  figlio , Ilio  distrutto , 
Navigava  da  Troja.  Io  su  la  mente 
Dolce  mi  sparsi  dell’ Egioco  Giove, 

E r assopii.  Tu  intanto,  in  tuo  segreto 
Macchinando  al  suo  figlio  una  mina , 

Di  fieri  venti  sollevasti  in  mare 
Una  negra  procella,  e lui  sviando 
Dal  suo  cammin,  spingesti  a Coo,  da  tutti 
1 suoi  cari  lontano.  Àrse  di  sdegno. 

Destatosi,  il  Tonante,  e per  1’  Olimpo 
Scompigliando  i Celesti,  in  cerca  andava 
Di  me  fra  tutti;  e avria  dal  ciel  travolto 
Me  meschino  nel  mar,  se  l'alma  Notte, 

De’  numi  domatrice  e de’  mortali , 

Non  mi  campava  fuggitivo.  Ei  poscia. 

Per  lo  rispetto  della  bruna  Diva, 

Placossi.  E salvo  da  quel  rischio  appena 
Vuoi  che  con  esso  a perigliarmi  io  torni  ? 

Di  periglio  che  parli?  e di  che  temi? 

Gli  rispose  Giunon  ; forse  t’  avvisi , 

Che  al  par  del  figlio,  per  cui  sdegno  il  prese, 
Giove  i Teucri  protegga  ? Or  via , mi  segui  ; 
Ch’  io  la  minore  delle  Grazie  in  moglie 
Ti  dai'ò  , la  vezzosa  Pasitéa , 

Di  cui  so  che  sei  vago  e sempre  amante. 

Giuralo  per  la  sacra  onda  di  Stige, 

Tutto  in  gran  giubilio  ripiglia  il  Sonno; 

E 1’  alma  terra  d’  una  man , coll’  altra 
Tocca  del  mar  la  superficie;  e quanti 
Stansi  intorno  a Saturno  inferni  Dei 
Testimoni  ne  sian , che  mia  consorte 
Delle  Grazie  farai  la  più  fanciulla. 

La  gentil  Pasitéa,  cui  sempre  adoro. 

Disse;  e conforme  a quel  desir  giurava 
La  bianca  Diva,  e i sotterranei  numi 
Tutti  invocava,  che  Titani  han  nome. 

Fatto  il  gran  sacramento,  abbandonare 
D'  Imbro  e di  Leruio  le  cittadi,  e cinti 
Di  densa  nebbia  divorar  la  via. 


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».  34i  ^«<i  libro  »iv  3o7 

D’Ida,  allrice  di  belve  e di  ruscelli, 

Giunti  alia  falda,  uscir  della  marina 
Alla  punta  lettéa.  Prcser  leggieri 
Del  monte  la  salita,  e della  selva 
Sotto  i lor  passi  si  scotea  la  cima. 

Ivi  il  Sonno  arrestossi;  e,  per  celarsi 
Di  Giove  agli  occhi,  un  alto  abete  ascese, 

Che  sovrana  innalzava  al  cici  la  cima. 

Quivi  s'  ascose  tra  le  spesse  fronde 
In  sembianza  d'  arguto  augel  montano, 

Che  noi  Cimindi , e noman  Calci  i numi. 

Con  sollecito  piede  intanto  Giuno 
11  Gàrgare  salia.  La  vide  il  sonnnu 
Delle  tempeste  adunatore,  e pronta 
Al  cor  gli  corse  l’amorosa  fiamma. 

Siccome  il  dì  che , de’  parenti  al  guardo 
Sottrattisi,  gustàr  commisti  insieme 
La  furtiva  d’  amor  prima  dolcezza. 

Si  fece  incontro  alla  con.sorte , e disse: 

Giulio,  a che  vieni  dall’Olimpo,  c senza 
Cocchio  e destrieri?  — E a lui  la  scaltra:  lo  vado 
Dell’  alma  terra  agli  ultimi  confini 
A visitar  de’  numi  il  genitore 
Oceano  e Teti,  che  ne’ loro  alberghi 
Con  grande  cura  m’ educar  fanciulla. 

Vado  a comporne  la  discordia:  ei  sono 
E di  letto  e d’  amor  per  ire  acerbe 
Da  gran  tempo  divisi.  Alle  radici 
D’ Ida  lasciati  ho  i miei  destrier,  che  ratta 
Su  la  terra  e sul  mar  mi  porteranno. 

Oi'  qui  vengo  per  te;  chè  meco  irarti 

Non  dovessi  tu  poi,  se  taciturna 

Del  vecchio  iddio  n'andassi  alla  magione. 

Altra  volta  v’andrai,  Giove  rispose: 

Or  si  gioisca  in  amoroso  amplesso; 

Chè  nè  per  donna  nè  per  Dea  giammai 
Mi  si  diffuse  in  cor  fiamma  sì  viva: 

Non  quando  per  la  sposa  Issìonca, 

Che  Piritóo,  divin  senno,  produsse. 

Arsi  d’amor;  non  quando  alla  gentile 


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3o8 


ILUDK 


Figlia  d’ Acrisie  generai  Perseo, 
Prestantissimo  eroe;  nè  quando  Europa 
Del  diviii  Rndamanto  e di  Minosse 
Padre  mi  fece.  Nè  le  due  di  Tebe 
Beltà  famose,  Sémelc  ed  AIcmena, 

D'  Ercole  questa  geuitrice,  e quella 
Di  Bacco  de’  mortali  allegratore^ 

Nè  Cerere  la  bionda,  nè  Latona, 

Nè  tu  stessa  giammai,  siccome  adesso. 

Mi  destasti  d’ amor  tanto  disio. 

E l’ inganncvol  Diva  : Oh  che  mai  parli , 
Importuno!  Ascoltar  vuoi  tu  d’amore 
Le  fantasie  qui  d’ Ida  in  su  le  vette. 

Dove  tutto  si  scorge?  E se  qualcuno 
Degli  Dei  ne  mirasse,  e agli  altri  Eterni 
Cónto  lo  fésse,  rientrar  nel  cielo 
Con  che  fronte  ardirei  ? Ciò  fora  indegno. 
Pur  se  vera  d’ amor  brama  ti  punge , 

Al  talamo  n’andiam,  che  il  tuo  diletto 
Figlio  Vulcan  ti  fabbricò  di  salde 
Porte:  e quivi  di  me  fa  il  tuo  volere. 

Nè  d’  uom  mortale  nè  d’ iddio  veruno 
Lo  sguardo  ne  vedrà,  Giove  riprese. 
Diffonderotti  intorno  un’  aurea  nube 
Tal , che  per  essa  nè  del  Sol  pur  anco 
La  vista  passerà  quantunque  acuta. 

Disse  ^ ed  in  grembo  alla  consorte  il  6glio 
Di  Saturno  s’ infuse  : e 1’  alma  terra 
Di  sotto  germogliò  novelle  erbette, 

E il  rugiadoso  loto  e il  fior  di  croco 
E il  giacinto,  che  in  alto  li  reggea 
SoQice  e folto.  Qui  corcarsi,  e densa 
Li  ricopriva  una  dorata  nube. 

Che  lucida  piovea  dolce  rugiada. 

Sul  Gàrgare  così  quoto  dormia 
Giove  in  braccio  alla  Dea , preda  d'  amore 
E del  soave  Sonno,  che  veloce 
Corse  alle  navi  ad  avvisarne  il  nume 
Scotitor  della  Terra-,  e a lui  venuto  , 

Con  presto  favellar:  T’affretta,  ci  disse. 


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. ^ji-4fio  J-'in'o  XIV  3og 

A soccorrer  gli  Achivi,  o re  Ncttunno; 

E almeu  per  poco  vincllor  li  rendi , 

Fincbè  Giove  si  dorme.  Io  lo  ricinsi 
D'un  tenero  sopor  mentre,  ingannato 
Dalla  consorte,  in  seno  le  riposa. 

Sparve  il  Sonno,  ciò  detto,  e de'  mortali 
Su  l’ altere  città  l’ali  distese. 

Allor  Nettunno,  d’  aitar  bramoso 

Più  che  prima  gli  Achei,  diessi  nel  mezzo 

Alle  file  di  fronte,  alto  gridando: 

Achivi , lascerem  di  Priamo  al  figlio 
Noi  dunque  il  vanto  di  novel  trionfo, 

E la  gloria  d’  averne  arse  le  navi  ? 

Ei  certo  lo  si  crede,  e vampo  mena. 

Perchè  d’Achille  neghittosa  è l’ ira. 

Ma  d'Achille  non  fia  molto  il  bisogno , 

Se  noi  far  opra  delle  man  sapremo, 

E alternarci  gli  ajuti.  Or  su;  concordi 
Segniam  tutti  il  mio  detto  : i più  sicuri 
E grandi  scudi,  che  nel  campo  sièno, 
Imbracciamo,  c copriam  de’ più  lucenti 
Elmi  le  teste,  e,  le  più  lunghe  picche 
Strette  in  pugno,  marciam:  io  vi  precedo; 

Nè  per  forte  eh’  ei  sia  1’  audace  Ettorre , 

L’impeto  nostro  sosterrà.  Chiunque 
È guerrier  valoroso,  e di  leggiero 
Scudo  si  copre,  al  men  valente  il  ceda, 

E allo  scudo  maggior  sottentri  ei  stesso. 

Obbedir  tutti  al  cenno.  I re  medesmi 
Tidide,  Ulisse  e Agaroenndn,  sprezzate 
Le  lor  ferite,  in  ordinanza  a gara 
Poncan  le  schiere,  e via  dell’ armi  il  cambio 
Per  le  file  facean  : le  forti  al  forte  ; 

Al  peggior  le  peggiori.  E poiché  tutti 
Di  lucido  metallo  la  persona 
Ebber  coverta , s’  avviar.  Nettunno 
Li  precorrca,  nella  robusta  mano 
Sguainata  portandosi  una  lunga 
Orrenda  spada , che  parca  di  Giove 
La  folgore,  c mettea  nel  cor  paura. 


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3 IO  ILIADE  . 461.500 

Misero  quegli  ehe  la  scontra  in  guerra! 

Dall'  altra  parte  il  trojan  duce  i suoi 
Pone  ci  pure  in  procinto  ^ e senza  indugio 
L'illustre  Ettorrc  cd  il  ceruleo  Dio, 

L’uno  i Greci  incorando  e l'altro  i Teucri, 

Una  6era  attaccar  pugna  crudele. 

Gonfiasi  il  mare,  c i padiglioni  innonda 
E gli  argivi  navigli , c con  immenso 
Clamor  si  viene  delle  schiere  al  cozzo. 

Non  cosi  la  marina  onda  rimugge 
Dal  tracio  soffio  flagellata  al  lido  ^ 

Non  così  freme  il  foco  alla  montagna. 

Quando  va  furibondo  a divorarsi 
L’  arida  selva  ^ nè  d’  eccelsa  quercia 
Rugge  si  fiero  fra  le  chiome  il  vento , 

Come  orrende  de’  Teucri  e degli  Achei 
Nell’  assalirsi  si  sentian  le  grida. 

Contro  Ajace,  che  voltagli  la  fronte, 

Scaglia  Ettorre  la  lancia,  e lo  colpisce 
Ove  del  brando  e dello  scudo  il  doppio 
Baltco  sul  petto  si  distende:  c questo 
Dal  colpo  lo  salvò.  Visto  uscir  vano 
Ettore  il  telo  , di  rabbia  fremendo , 

In  securo  fra’ suoi  si  ritraca. 

Mentr’ei  recede,  il  gran  Tclamonidc 
Ad  un  sasso,  de’ molti  che  ritegno 
Delle  navi  giacean  sparsi  pel  campo 
De’ combattenti  al  piè,  dato  di  piglio, 

L’ avventò , lo  rotò  come  palèo, 

E sul  girone  dello  scudo  al  petto 
L’ avversario  ferì.  Con  quel  fragore , 

Che  dal  foco  di  Giove  fulminata 
Giù  ruma  una  quercia,  e grave  intorno 
Pel  grave  zolfo  si  diffonde  il  puzzoj 
L’  arator,  che  cadérsi  accanto  vede 
La  folgore  tremenda , imbianca  e trema^ 

Così  stramazza  Ettór*,  l'asta  abbandona 
La  man,  ma  dietro  gli  va  scudo  ed  elmo, 

E rimbombano  ranni  sul  caduto. 

V'  accorsero  con  alti  urli  gli  Achei, 


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LIBRO  XIV 


r.  SOI'S^O 


3 1 1 


Strascinarlo  sperandosi,  e di  strali 
Lo  tempestando;  ma  nessun  ferirlo 
Poteo;  chè  ratti  gli  fér  serra  intorno 
I più  valenti,  Enea,  Polidamante, 

Àgénore,  e de’  Licj  il  condottiero  , 

Sarpedonte  con  Glauco;  c nullo  in  somma 
De’  suoi  l’abbandonò;  ch’altri  gli  scudi 
Gli  anteposero,  e lunge  altri  dall’  armi 
L'  asportlr  su  le  braccia  a’  suoi  veloci 
Destrìer , che  fuori  della  pugna  a lui 
Tenea  pronti  col  cocchio  il  fido  auriga. 

Volàr  questi,  e portàr  1’  eroe  gemente 
Verso  1’  alta  città;  ma  giunti  al  guado 
Del  vorticoso  Xanto,  ameno  fiume 
Generato  da  Giove,  ivi  dal  carro 
Posàrio  a terra;  gli  spruzzar  di  fresca 
Onda  la  fronte;  ed  ei  rinvenne , e aperte 
Girò  le  luci  intorno,  e,  sui  ginocchi 
Suffulto,  vomitò  sangue  dal  petto. 

Ma  di  nuovo  all’  indietro  in  sul  terreno 
Riversossi;  e,  coll’alma  ancor  dal  colpo 
Doma , oscurarsi  all’  infelice  i lumi. 

Gli  Achei , veduto  uscir  del  campo  Ettorre , 

Si  fér  più  baldi  addosso  all’  inimico  ; 

E primo  Ajacc  d’  Oiléo  d’ assalto 
Satnio  ferì,  che  Nàide  gentile 
Ad  Enopo  pastor  lungo  il  bel  fiume 
Satnioente  partorito  avea. 

Lo  colpi  coll’acuta  asta  il  veloce 
Oilide  nel  lombo  ; ei  resupino 
Si  versò  nella  polve  , e intorno  a lui 
Più  che  mai  fiera  si  scaldò  la  zufia. 

A vendicar  l’estinto  oltre  si  spinge 
Polidamante;  e tale  a Protenorre, 

Figliuol  d’Aréilico , un  colpo  libra  , 

Che  tutto  la  gagliarda  asta  gli  passa 
L’omero  destro.  Ei  cadde,  c il  suol  sanguigno 
Colla  palma  ghermì.  Sovra  il  caduto 
Menò  gran  vanto  il  vincitor , gridando; 

Dalla  man  del  magnanimo  Pantide 


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ILIADE 


».  5^I-58o 


3|3 

Non  USCÌ,  panni,  indarno  il  telo;  e certo 
Lo  raccolse  nel  corpo  un  qualche  Acheo, 

Che  appoggiato  a quell'  a.sta  or  scende  a Fiuto. 

Feri  gli  Achivi  di  dolor  quel  vanto  ^ 

Più  che  tutti  ferì  1’  alma  del  grande 
Telamonide,  al  cui  fianco  caduto 
Era  quel  prode.  E tosto  al  borioso, 

Che  indietro  si  traca , la  fulgorante 
Asta  scagliò.  Polidamantc  a tempo 
Schivò  la  morte  con  un  salto  obliquo  ; 

E riccvella  (degli  Dei  tal  era 
L’aspro  decreto)  1’ antenóreo  figlio, 

Archiloco.  Lo  colse  il  fatai  ferro 
Alla  vertebra  estrema , ove  nel  collo 
S’innesta  il  capo,  e ne  precise  il  doppio 
Tendine.  Ei  cadde,  e del  meschin  la  testa  ^ 
Culla  bocca  davanti  e le  narici , 

Prima  a terra  n’andò,  che  la  persona. 

Alto  allora,  a quel  colpo,  Ajaec  esclama: 
Polidamantc,  ubi  guarda,  e dinne  il  vero. 

Non  vai  egli  Protcnorc  quest’ altro, 

Ch’io  qui  posi  a giacer?  Ned  ci  mi  sembra 
Mica  de’  vili , nè  d’ ignobil  seme , 

Ma  d’Antenore  un  figlio,  o suo  germano; 

Sì  n’  ha  l’ impronta  della  razza  in  viso. 

Così  parlava  infinto , conoscendo 
Ben  ci  1’  ucciso.  Addolorarsi  i Teucri; 

Ma  del  fratello  vindice  Acamante, 

A Prómaco  bcózio,  che  1’  estinto 
Traea  pc’ piedi,  fulminò  di  lancia 
Tale  un  subito  colpo,  che  lo  stese. 

Alto  allor  grida  l’ uccisor  superbo  : 

O voi  guerrieri  da  balestra , e forti 
Sol  di  minacce;  c voi  pur  anco,  Argivi, 
Morderete  la  polve , e non  saremo 
Noi  soli  al  lutto.  Dalla  mia  man  domo 
Mirate  di  che  sonno  or  dorme  il  vostro 
Prómaco , c paga  del  fratello  mio 
Tosto  lo  sconto.  Perciò  preghi  ognuno 
Di  lasciar  dopo  sè  vendicatore 


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«r.  58i-6so 


LIBRO  XIV 


3i3 


Di  sua  morte  un  firatel  nel  patrio  tetto. 

Destò  quel  vanto  negli  Achei  lo  sdegno. 
Sovra  ogni  altro  crucciossi  il  bellicoso 
Peneléo.  Si  scagliò  questi  con  ira 
Contro  Àcamante , che  del  re  1’  assalto 
Non  attese^  ed  il  colpo  a lui  diretto 
Ilionéo  percosse,  unica  prole 
Di  Forbante , che  ricco  era  di  molto 
Gregge  ^ e Mercurio , che  d’ assai  l’ amava , 

Di  dovizie  fra’  Troi  1’  avea  cresciuto. 

Il  colse  Peneléo  sotto  le  ciglia 
Deir  occhio  alla  radice  ; e , la  pupilla 
Schizzandone , passar  l’ asta  gli  fece 
Via  per  1’  occhio  alla  nuca.  Ilionéo 
Assiso  cadde  colle  man  distese; 

Ma,  stretta  Peneléo  l’acuta  spada, 

Gli  recise  le  canne,  e il  mozzo  capo, 

Coll’  elmo  e 1’  asta  ancor  nell’  occhio  infissa , 
Gli  mandò  nella  polve.  Indi,  l’alzando 
Languente  in  cima  alla  picca  e cadente 
Come  lasso  papavero , ai  nemici 
Lo  mostra , e altero  esclama  : In  nome  mio 
Dite,  o Teucri,  del  chiaro  Ilionéo 
Ai  genitor,  che  per  la  casa  innalzino 
Il  funebre  ulular,  da  che  nè  jiure 
Di  Prdmaco , figliuol  d’Alegenorre  , 

La  consorte  potrà  del  caro  aspetto 
Del  marito  gioir,  quando  da  Troja 
Fai'em  ritorno  alle  paterne  rive. 

Si  disse  ; e tutti  impallidir  di  tema , 

E col  guardo  ciascun  giva  cercando 
Di  salvarsi  una  via.  Celesti  Muse, 

Or  voi  ue  dite  chi  primier  le  spoglie 
Cruente  riporlo  , poi  che  agli  Achivi 
Fe  piegar  la  vittoria  il  re  Nettunno. 

Primiero  Ajace  Telamónio  uccise 
De"  forti  Misj  il  duce  Irzio  Girti’de  ; 

Antiloeo  spogliò  Falce  e Merméro; 

Da  Mcrion  fu  spento  Ippozionc 
Con  Mori;  a Protoone  c Perifete 


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3.4 


p. 


ILIADE,  LIBRO  IV 

Teucro  diè  moirte^  Menelao  nel  ventre 
Iperénore  colse,  e dalla  piaga 
Tutte  ad  un  tempo  useir  le  lacerate 
Intestina  e la  vita.  Altri  più  molti 
Ne  spense  Àjace  d'  Odèo  \ che  nullo 
Ratto  al  paro  di  lui  gli  spaventati 
Fuggitivi  inseguia,  quando  ne’ petti 
Della  fuga  il  tcrror  Giove  mettea. 


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LIBRO  DECIMOQUINTO 


AHGOMEHTO 


Giovr  ti  riirfgliii.  Egli  vrdc  i Grcrt  che  * «luUitt  da  Netlunno , mrttooo  in  rotta  t Tro* 
jani.  Garràrc  la  rontortr.  Parole  della  Dea  oel  contetio  dei  Nomi.  Iride  h maiulata  «la 
Giove  a nehiamare  Neltuoou  dalla  battaglia.  A{iollo,  per  volere  del  padre,  scende  a ravvi* 
vare  le  r«>ne  di  FUore.  I.0  stetto  Iddio  precede  1*  eroe  nel  romhatlimrnto  ) e rovescia  gli 
avanti  del  muro.  Terribile  pugna  ionanii  alle  navi.  Ajare  colla  tua  lancia  tiene  lontani  Et- 
tore ed  i Trojani , ebe  sono  sul  punto  di  mettere  il  fuoco  ncUe  navi  ntedetioie- 


Ma  poiché  il  vallo  superavo  e il  fosso 
Con  molta  di  lor  strage,  i fuggitivi, 

Nel  viso  smorti  di  terror,  fermarsi 
Ai  vóti  cocchi  ^ e Giove  in  quel  momento 
Sull’  Ida  risvegliossi  accanto  a Giuuo. 

Surse , stette , e gli  Achei  vide  e i Trojani , 
Questi  incalzati,  c quei  coll’ aste  a tergo 
Incalzanti,  e tra  loro  il  re  Nettunno. 

Vide  altrove  prostrato  Ettore,  e intorno 
Stargli  i compagni  addolorati,  ed  esso 
Del  scutimento  uscito,  e dall’  anelo 
Petto  a gran  pena  traendo  il  respiro, 

Nero  sangue  sboccar^  chè  non  1’  avea 
Certo  il  più  fiacco  degli  Achei  percosso. 
Pietà  sentinne  nel  vederlo  il  padre 
De’ mortali  e de’ numi,  e con  oblitpio 
Terribil  occhio  guatò  Giuno,  e disse: 
Scaltra  malvagia,  la  sottìl  tua  frode 
Dalla  pugna  cessar  fe  il  divo  Ettorre, 

E i Trojani  fuggir.  Non  so  perdi’  io 


ILIADE 


».  3I<^ 


3 16 

Or  non  t'  afTen-i , e col  flagel  non  faccia 
A te  prima  saggiar  del  dolo  il  frutto. 

E non  rammenti  il  di  eh’  ambe  le  mani 
D’  aureo  nodo  infrangibile  t’ avvinsi , 

E alla  celeste  vòlta  con  due  gravi 
ineudi  al  piede  penzolon  t’appesi? 

Fra  r atre  nubi  nell’  immenso  vóto 
Tu  pendola  ondeggiavi,  c per  l’eccelso 
Olimpo  ne  fremean  di  rabbia  i Numi , 

Ma  sciarti  non  potean^  chè  qual  di  loro 
Afferrato  io  in’ avessi,  giù  dal  cielo 
L’  avrei  travolto  semivivo  in  terra. 

Nè  ciò  tutto  quetava  ancor  la  bile 
Che  mi  bollia  nel  cor,  quando,  commosse 
D'  Ercole  a danno  le  procelle  e i venti. 

Tu  pel  mar  1’  agitasti , e macchinando 
La  sua  rovina,  lo  sviasti  a Coo, 

Donde  io  salvo  poi  trassi  il  travagliato 
Figlio,  e in  Argo  il  raddossi.  Ora  di  queste 
Cose  ben  io  farò  che  ti  sovvegna, 

Onde  svezzarti  dagl’  inganni,  e tutto 
Il  prò  mostrarti  de’  tuoi  falsi  amplessi. 

Raccapricciò  d’  orror  la  veneranda 
Giuno  a que’  detti  -,  e : Il  ciel , la  terra  attesto 
( Dicssi  a gridare)  e il  sotterraneo  Stige, 

Che  degli  Eterni  è il  più  tremendo  giuro , 

Ed  il  sacro  tuo  capo,  e l’illibato 
D' ogni  spergiuro  maritai  mio  letto  : 

Se  agli  Acbivi  soccorse  e nocque  ai  Teucri 
11  re  Nettunno  , non  fu  mio  consiglio , 

Ma  did  suo  cor  spontaneo  moto , e piòta 
De’  mal  condotti  Argivi.  Esorterollo 
Anzi  io  stessa  a recarsi,  ovunque  il  chiami. 
Terribile  mio  sire,  il  tuo  comando. 

Sorrise  Giove , e replicò  : Se  meco 
Nel  senato  de’ numi,  augusta  Giuno, 

In  un  solo  voler  consentirai, 

Cousentiravvi  (c  sia  diversa  pure 
La  sua  mente  ) ben  tosto  anco  Nettunno. 

Or  tu , se  brami  che  per  prov.i  io  vegga 


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9.  6i-ioo 


LIBRO  XV 


3i; 

Sincero  il  tuo  parlar,  rimonta  in  cielo, 

E qua  m’ invia  sull’  Ida  Iri  ed  Apollo. 

Iri  nel  campo  degli  Achei  discesa 
A Nettunno  farà  1’  alto  precetto 
D’  abbandonar  la  pugna , e di  tornarsi 
Ai  marini  soggiorni.  Apollo  all’  armi 
Ettore  desterà,  novello  in  petto 
Spirandogli  vigor  sì,  che  sanato 
D’  ogni  dolore,  fra  gli  Achei  di  nuovo 
Sparga  la  vile  paurosa  fuga, 

E gl'  incalzi  così,  che  fra  le  navi 
Cadan , fuggendo , del  Pelidc  Achille. 

Questi  allor  nella  pugna  il  suo  diletto 
Patroclo  manderà , ehe , morta  in  campo 
Multa  nemica  gioventù  eoi  divo 
Mio  6glio  Sarpedon,  morto  egli  stesso 
Cadrà , prostrato  dall’  ettórea  lancia. 

Dell’ucciso  compagno  irato  Achille 
Spegnerà  l’uccisore;  e da  quel  punto 
Farò,  che  sempre  sian  respinti  i Teucri, 

Finché  per  la  divina  arte  di  Palla 
11  superbo  Ih’on  prendan  gli  Achei. 

Nè  r ire  io  deporró , nè  che  veruno 
Degli  Dei  qui  l’argive  armi  soccorra 
Sosterrò,  se  d’Achille  in  pria  non  veggo 
Adempirsi  il  desio.  Così  promisi , 

E le  promesse  confermai  col  cenno 
Del  mio  capo  quel  dì,  che,  i mici  ginocchi 
Teti  abbracciando , d’  onorar  pregommi 
Coll’  eccidio  de’  Greci  il  suo  gran  Aglio. 

Disse  ; e la  Diva  dalle  bianche  braccia 
Obbediente  dall’  idea  montagna 
Air  Olimpo  salì.  Colla  prestezza , , 

Con  che  vola  il  pcnsier  del  viatore , 

Che,  scorse  molte  terre,  le  rianda 
In  suo  secreto , e dice  ; Io  quella  riva , 

Io  quell’altea  toccai  ; colla  medesma 
Rattezza  allor  la  veneranda  Giuno 
Volò  dall’ Ida  sull’eccelso  Olimpo, 

E sopravvenne  agl’  Immortali , accolti 


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3i8 


ILIADE 


K.lQl'l^n 


Nelle  stanze  di  Giove.  Alzarsi  i Numi 
Tutti  al  vederla,  e coll’ ambrosie  tazze 
L’accolsero  festosi.  Ella,  negletta 
Ogni  altra  offerta,  la  man  porse  al  nappo 
Àppresentato  dalla  bella  Temi, 

Che  primiera  a incontrar  corse  la  Dea, 

Così  dicendo:  Perchè  riedi,  o Giuno? 

Tu  ne  sembri  atterrita.  11  tuo  consorte 
N’ è forse  la  cagion?  — Non  dimandarlo, 
Giuno  rispose.  Quell’ altero  c crudo 
Suo  cor  tu  stessa  già  conosci,  o Diva. 
Presiedi  ai  nostri  almi  convivj , e tosto 
Qui  con  tutti  i Celesti  udrai  di  Giove 
Gli  aspri  comandi,  che,  per  mio  parere, 

De’ mortali  fra  poco  e degli  Dei 
Le  liete  mense  cangeranno  in  lutto. 

Tacque  ^ e s’  assise.  Contristarsi  in  cielo 

I Sempiterni^  e Giuno  un  cotal  riso 
A fior  di  labbro  aprì,  ma  su  le  nere 
Ciglia  la  fronte  non  tornò  serena. 

Ruppe  alfin  disdegnosa  in  questi  detti  : 

Oh  noi  dementi!  Inetta  è la  nostr’ ira 
Centra  Giove,  o Celesti,  e il  faticarci 
Con  parole  a frenarlo  o colla  forza, 

È vana  impresa.  Assiso  egli  sull’  Ida , 

Nè  gli  cale  di  noi , nè  si  rimove 

Dal  suo  proposto  ^ chè  gli  Eterni  tutti 

Di  fortezza  ei  si  vanta  e di  possanza 

Immensamente  superar.  Soffrite 

Quindi  in  pace  ogni  mal  che  più  gli  piaccia 

Inviarvi  a ciascuno.  E a Marte , io  credo , 

II  suo  già  tocca:  Ascàlafo,  il  più  caro 
D'  ogni  mortale  al  poderoso  iddio. 

Che  proprio  sangue  lo  confessa,  è spento. 

Si  battè  colle  palme  la  robusta 
Anca  Gradivo,  c in  suon  d’alto  dolore 
Gridò:  Del  cielo  cittadini  eterni. 

Non  mi  vogliate  condannar,  s’ io  scendo 
L’  ucciso  figlio  a vendicar , dovesse 
Steso  fra’  morti  il  fulmine  di  Giove 


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LfORO  XV 


3|Q 


Là  tra  il  sangue  gittarmi  e Ira  la  polve. 

Disse  ^ e alla  Fuga  impose  e allo  Spavento 
D'  aggiogargli  i destrieri  ^ e di  fiammanti 
Ai'mi  egli  stesso  si  vestiva.  E allora 
Di  ben  altro  furor  contro  gli  Dei 
Di  Giove  acceso  si  sarebbe  il  core, 

Se  per  tutti  i Celesti  impaurita 
Non  si  spiccava  dal  suo  trono,  e ratta 
Fuor  delle  soglie  non  correa  Minerva 
A.  strappargli  di  fronte  il  rilucente 
Elmo,  e lo  scudo  dalle  spalle;  e a forza 
Toltagli  l’asta  dalla  inan  gagliarda, 

La  ripose,  e il  garrì:  Cieco  furente. 

Tu  se’  perduto.  Per  udir  non  hai 
Tu  più  dunque  gli  orecchi,  e in  te  col  senno 
Spento  e pure  il  pudor?  Dell’  alma  Giuno  , 
Ch’or  vien  da  Giove,  non  intendi  i detti? 
Vuoi  tu  forse,  insensato,  esser  costretto 
A ritornarti  doloroso  al  cielo , 

Fatto  di  molti  mali  un  rio  guadagno, 

E creata  a noi  tutti  alta  sciagura  ? 

Perciocché , de’  Trojani  e degli  Achei 
Abbandonate  le  contese,  ei  tosto 
Risalendo  all’  Olimpo  , in  iscompiglio 
Metterà  gl’  Immortali;  ed  afferrando 
L’ un  dopo  1’  altro , od  innocenti  o rei , 

Noi  tutti  punirà.  Del  figlio  adunque 
La  vendetta  abbandona , io  tei  comando  ; 
Ch’  altri  di  lui  più  prodi  o già  perirò , 

O periranno.  Involar  tutta  a morte 
De’  mortali  la  schiatta  è dura  impresa. 

Si  dicendo , al  suo  seggio  il  violento 
Dio  ricondusse.  Fuor  dell’ auree  soglie 
Giuno  intanto  a sé  chiama  Apollo  cd  fri 
La  messaggiera , e lor  presta  si  parla  : 

Ite,  Giove  l' impon,  veloci  all’ Ida; 

Arrivati  colà,  fissate  il  guardo 
In  quel  volto,  e ne  fate  ogni  volere. 

Ciò  detto,  indietro  ritornò  l’augusta 
Giuno,  e di  nuovo  si  compose  in  trono. 


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320 


rLIADE 


r-  i8i-aso 


Quei  mossero  volando  ; c , su  I'  altrice 
Di  fontane  c di  belve  Ida  discesi , 

Di  Saturno  trovar  1’  onniveggente 
Figlio  sull’  erto  Gàrgaro  seduto  ^ 

E circonfusa  intorno  il  coronava 
Un’  odorosa  nube.  Essi , del  grande 
Di  nembi  adunator  giunti  al  cospetto , 
Fermarsi  : e satisfatto  egli  del  pronto 
Loro  obbedir  della  consorte  ai  detti. 

Ad  Iri  in  prima  il  favellar  rivolto  ; 

Va,  disse,  Iri  veloce,  c al  re  Nettunno 
Nunzia  verace  il  mio  comando  esponi. 

Digli  che  il  campo  ei  lasci  e la  battaglia, 

E al  cicl  si  torni  o al  mar.  Se  il  cenno  mio 
Ribelle  sprezzerà  , pensi  ben  seco  , 

Se , benché  forte  , s’  avrà  cor  che  basti 
A sostener  l’assalto  mio;  ricòrdi 
Che  primo  io  nacqui , e che  di  forza  il  vinco , 
Quantunque  egli  usi  a me  vantarsi  eguale , 

A me  che  tutti  fu  tremar  gli  Dei. 

Obbedì  la  veloce  Iri,  e discese 
Dalle  montagne  idée.  Come  sospinta 
Dal  fiato  d’aquilon  sercnatorc 
Dalle  nubi  talor  vola  la  neve 
O la  gelida  grandine  ^ a tal  guisa 
D’ Ilio  sui  campi  con  rapido  volo 
Iri  calossi^  e,  al  divo  Enosigéo 
Fattasi  innanzi,  così  prese  a dire: 

Ceruleo  Nume,  messaggiera  io  vegno 
Dell’  Egioco  signore.  Ei  ti  comanda 
D’  abbandonar  la  pugna , e di  far  tosto 
O agli  alberghi  celesti  o al  mar  ritorno. 

Se  sprezzi  il  cenno,  ed  obbedir  ricnsi. 
Minaccia  di  venirne  egli  medesmo 
Teco  a battaglia.  Ti  consiglia  quindi 
D’  evitar  le  sue  mani  : e ti  ricorda 
Ch’  ei  d'  ctade  è maggiore  e di  fortezza  , 
Quantunque  cgual  vantarti  oso  tu  sia 
A lui  che  mette  agli  altri  Dei  terrore. 

Arse  d'ira  Nettunno,  c le  rispose: 


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31I-26o 


unto  XV 


Ì3  I 

Ch’  ei  sia  possente  , il  so  : ma  sue  parole 
Sono  superbe,  se  forzar  pretende 
Me  suo  pari  in  onor.  Figli  a Saturno 
Tre  germani  siam  noi  da  Rea  prodotti , 

Primo  Giove,  io  secondo,  e terzo  il  sire 
Dell’  Inferno  , Pluton.  Tutte  divise 
Fur  le  cose  in  tre  parli , e a ciasebeduno 
11  suo  regno  sortì.  Diede  la  sorte 
L’ imperio  a me  del  mar , dell'  ombre  a Pluto , 
Del  cielo  a Giove  negli  aerei  campi 
Soggiorno  delle  nubi.  Olimpo  c Terra 
Ne  rimaser  comuni , c il  sono  ancora. 

Non  farò  dunque  il  suo  voler  ^ si  goda 
Pur  la  sua  forza,  ma  si  resti  cheto 
Nel  suo  regno  , nè  tenti  or  colla  destra 
Come  un  vile  atterrirmi.  Alle  fanciulle, 

Ài  bamboli  suoi  figli  il  tcrror  porti 
Di  sue  minacce,  e meglio  fia.  Tra  questi 
Almen  si  avrà  chi  a forza  l’  obbedisca. 

Dio  del  mar,  la  veloce  Iri  soggiunse. 

Questa  dunque  vuoi  tu  che  a Giove  io  rechi 
Dura  e forte  risposta  ? e raddolcirla 
In  parte  almeno  non  vorrai  ? De'  buoni 
Pieghevole  è la  niente^  c chi  primiero 
Nacque,  ha  ministre,  tu  lo  sai,  l’  Erinni. 

Tu  parli,  o Dira,  il  ver,  l’altro  riprese; 

E gran  ventura  è messaggier  che  avvisa 
Ciò  che  più  monta.  Ma  di  sdegno  avvampa 
n cor , quand’  egli  minaccioso  oltraggia 
Me  suo  pari  di  grado  e di  destino. 

Pur  questa  volta  porrò  freno  all’  ira  , 

E cederò.  Ma  ben  vo’  dirti  io  pure 
( E dal  cor  parte  la  minaccia  mia  ) , 

Se  Giove,  a mio  dispetto  e di  Minerva 
E di  Giuno  c d’  Ermete  e di  Vulcano , 
Risparmierà  dell’  alto  Ilio  le  torri , 

Nè  atterrarle  vorrà , nè  dame  intera 
La  vittoria  agli  Achei,  sappia  che  questo 
Fia  tra  noi  seme  di  perpetua  guerra. 

Lasciò,  ciò  detto,  il  campo,  c in  mar  .s’ ascose. 
Mosti.  Iliade  ui 


II.UDE 


w.  a6i>3oo 


Sa-* 

K nu  seoliro  la  partenza  in  petto 

I combattenti  Achei.  Si  volse  allora 

Giove  ad  .Apollo,  e disse;  Or  vanne,  o caro, 

AI  bellicoso  Ettdr.  Lo  scotitore 

Della  terra , evitando  il  nostro  sdegno , 

Fe  ritorno  nel  mar.  Se  ciò  non  era, 

Della  pugna  il  rimbombo  avria  ferito 
Anche  l’orecchio  degl’inferni  Dei 
Stanti  intorno  a Saturno.  Ad  ambedue 
Me’  però  toma  che  schivato  egli  abbia , 

Fatto  più  senno , di  mie  mani  il  peso  ^ 

Perchè  senza  sudor  la  non  saria 
Certo  finita.  Or  tu  la  fimbriata 
Egida  imbraccia  , e forte  la  perenti, 

E spaventa  gli  Achei.  Cura  ti  prenda, 

O Saettante,  dell' illustre  Ettorre, 

E tal  ne’ polsi  valentia  gli  metti, 

Ch’  egli  fino  alle  navi  e all’  Ellesponto 
Cacci  in  fuga  gli  Achivi.  Allor  la  via 
Troverò  che  i fuggenti  abbian  respiro. 

Obbedì  pronto  Apollo^  e,  dall’  idèa 
Cima  disceso,  simile  a veloce 
Di  colombi  uccisor  forte  sparviero, 

De’  volanti  il  più  ratto , al  generoso 
Prìamide  n’  andò.  Dal  suol  già  surlo 
E risensato  il  nobile  guen-iero 
Sedea,  ripresa  degli  astanti  amici 
La  conoscenza  ; perocché , dal  punto 
Che  in  lui  di  Giove  s’arrestò  la  mente, 

L'  anelito  cessato  era  e il  sudore. 

Stettegli  innanzi  il  Saettante,  e disse: 

Perchè  lungi  dagli  altri  e sì  spossato , 

Ettore , siedi  ? c che  dolor  ti  opprime  ? 

E a lui  con  fioca  c languida  favella 
Di  Priamo  il  figlio  : Chi  se’  tu  che  vieni . 
Ottimo  nume , a inten-ogarmi  ? Ignori 
Che  il  forte  Ajace,  mentre  che  de’ suoi 
Alle  navi  io  facea  strage,  mi  colse 
D’  un  sasso  al  petto , e tolsemi  le  forze  ? 

Già  1’  alma  errava  su  le  labbra  ; c certo 


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LIBRO  XV 


Di  veder  mi  credetti  in  questo  giorno 
L'  ombre  de’  morti  c la  magion  di  Fiuto. 

Fa  eor,  riprese  il  Dio:  Giove  ti  manda 
Soccorritore  ed  assistente  il  sire 
Dell’  aurea  spada,  Apolline.  Son  io 
Che  te  finor  protessi  e queste  mura. 

Or  via;  sveglia  il  valor  de’  numerosi 
Squadroni  equestri,  ed  a spronar  gli  esorta 
Verso  le  navi  i corridori,  lo  poscia , 

Li  precedendo , spianerò  lor  tutta 
La  strada,  e fugherò  gli  achivi  eroi. 

Disse  ; ed  al  duce  una  gran  forza  infuse. 
Come  destricr  di  molto  orzo  in  riposo 
Alle  greppie  pasciuto,  e nella  bella 
Uso  a lavarsi  correntia  del  fiume , 

Rotti  i legami,  per  l’aperto  corre 
Insuperbito,  e con  sonante  piede 
Batte  il  terren;  sul  collo  agita  il  crine. 

Alta  estolle  la  testa,  e baldanzoso 
Di  sua  bellezza,  al  pasco  usato  ei  vola 
Ove  amor  d’erbe  il  chiama  e di  puledre; 
Tale,  udita  del  Dio  la  voce,  Ettorre 
Move  rapidi  i passi,  inanimando 
1 cavalieri.  Ma  gli  Achei,  siccome 
Veltri  c villani  che  un  cornuto  cervo 
Inseguono , o una  damma , a cui  fa  schermo 
Alto  dirupo  o densa  ombra  di  bosco. 
Poiché  lor  vieta  di  pigliarla  il  fato; 

Se  a lor  grida  s’  afiaccia  in  su  la  via 
Un  barbuto  leon  colle  sbarrate 
Mascelle  orrende,  incontanente  tutti , 
Bcncbè  animosi,  volgono  le  terga; 

Così  agli  Achei  che  stretti  infino  allora 
Senza  posa  inseguito  aveano  i Teucri, 

Colle  lance  ferendo  e colle  spade , 

Visto  aggirai-si  tra  le  file  Ettorre, 

Cadde  a tutti  il  coraggio.  Allor  si  mosse 
Toantc  Andremonide , il  più  gagliardo 
Degli  etòli  guerrieri.  Era  costui 
Di  saetta  del  par  che  di  battaglia 


ILIADE 


»•  341.3S0 


A piò  fermo  perito , c degli  Achivi 
Pochi  in  arringhe  lo  vincean  , se  gara 
Fra  giovani  nascea  nella  bell  arte 
Del  diserto  parlar.  — Numi  ! qual  veggo 
Gran  prodigio?  (dicea  questo  Toante) 

Dalla  Parca  scampato  e di  bel  nuovo 
Rlsurto  Ettorre  ! E speravam  noi  tutti 
Che  per  le  man  d’Ajace  egli  giacesse. 

Certo  qualcuno  de’  Celesti  i giorni 
Preservò  di  costui,  che  molti  al  suolo 
Degli  Achivi  già  stese,  e molti  ancora 
Ne  stenderà,  mi  credo;  chè  non  senza 
L’  altitonante  Giove  egli  sì  franco 
Alla  testa  de’  Teucri  è ricomparso. 

Tutti  adunque  seguiamo  il  mio  consiglio  : 
La  turba  ai  legni  si  raccosti^  e noi  j 
Quanti  del  campo  achivo  i più  valenti 
Ci  vantiamo  , stiam  fermi , e coll’  alzate 
Aste  vediam  di  repulsalo,  lo  spero 
Che,  quantunque  animoso , ci  nella  calca 
Entrar  non  ardirà  di  scelti  croi. 

Disse  ; e tutti  obbedir  volonterosi. 

Ambo  gli  Ajaei  e Teucro  c Idomenéo 
E Merione  e il  manial  Megéte , 

Convocando  i migliori,  in  ordinanza 
Contro  i Teucri  ed  Ettór  poscr  la  pugna. 
Verso  le  navi  intanto  s’avviava 
De’  men  forti  la  turba.  Allor  primieri 
E serrati  ffir  impeto  i Trojani. 

Li  precede,  a gran  passi  camminando, 

L’  eccelso  Ettorre  , e lui  precede  Apollo , 
Che  , di  nebbia  i divini  òmeri  avvolto , 

L’ irla  di  Cocchi , orrenda , impetuosa 
Egida  tiene,  di  Vulcano  a Giove 
Ammirabile  dono,  onde  tonando 
1 mortali  atterrir.  Con  questa  al  braccio 
Guidava  i Teucri  il  Dio  contro  gli  Achei , 
Che  stretti  insieme  n’altendean  lo  scontro. 
Surse  allor  d’  ambe  parli  un  alto  grido. 

Dai  nervi  le  saette,  e dalle  mani 


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LIBRO  XV 


3x5 


38i-4>0 

Vedi  Paste  volar,  altre  nel  corpo 
De’ giovani  guerrieri,  altre  nel  mezzo. 

Pria  che  il  corpo  saggiar,  piantarsi  in  terra 
Di  sangue  sitibonde.  Infin  che  immota 
Tenne  l’egida  Apollo,  egual  fu  d’ambe 
Parti  il  ferire  cd  il  cader.  Ma  come , 

Dritto  guardando , 1’  agitò  con  forte 
Grido  sul  volto  degli  Achei,  gelossi 
Ne’lor  petti  l’ardire  e la  fortezza. 

Qual  di  bovi  un  armento  o un  pieno  ovile 
Incustodito,  all' improvviso  arrivo 
Di  due  belve  notturne  si  scompiglia^ 

Così  gli  Achivi  costernarsi  ; e Apollo 
Fra  lor  spargeva  lo  spavento,  i Teucri 
Esaltando  ed  Rttorre.  Allor,  turbata 
L’  ordinanza  , seguia  strage  confusa. 

Cttoi'e  Stichio  uccide  e Arcesilao, 

Questi  a'Beozi  capitano,  c quegli 
Un  compagno  fedel  del  generoso 
Menestòo.  Per  le  man  poscia  d’Enea 
Jaso  cade  e Medonte.  Era  Medonte 
Del  divino  O'iléo  bastardo  6glio 
E d’Ajace  fratei  ; ma , morto  avendo 
Un  diletto  german  della  matrigna  , 
Eiiopide,  d’ O’iléo  mogliera. 

Dalla  paterna  terra  allontanato 
In  Filace  abitava.  Attico  duce 
Eira  Jaso,  e figliuol  detto  venia 
Del  Bucolide  Sfelo.  A Mecistéo 
Polidamantc  nelle  prime  file 
Tolse  la  vita;  ad  Ech'ion  Polite, 

Ed  Agénorc  a Clònio.  A Déijóco, 

Tra  quei  di  fronte  in  fuga  vólto , al  tergo 
Vibra  Paride  l’ asta , e lo  trafigge. 

Mentre  l’armi  rapian  questi  agli  uccisi. 

Giù  nell’irto  di  pali  orrendo  fosso 
Precipitando,  i fuggitivi  Achei 
D’  ogni  parte  correan , dalla  crudele 
Necessità  sospinti , entro  il  riparo 
Della  muraglia  ; cd  alto  alle  sue  schiere 


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ILIADE 

Gridava  Etturrc  di  lasciai-  le  spoglie 
Sanguinolente,  e sul  navilc  a gitto 
Piombar:  Qualunque  scorgerò  ristarsi 
Dalle  navi  lontan , di  propria  mano 
L’ucciderò;  nè  morto  il  mettcraniiu 
Su  la  pira  i fratei  nè  le  sorelle, 

Ma  innanzi  ad  Ilio  strazieranlo  i cani. 

Si  dicendo,  sonar  fc  su  le  groppe 
De’  cavalli  il  flagello , e li  sospinse 
Per  le  file,  animando  ogni  guerriero. 

Dietro  al  lor  duce  minacciosi  i Teucri 
Con  immenso  clamor  drizzare  i cocchi. 

Iva  Apollo  davanti^  c,  col  leggiero 
Urto  del  piede  lo  ciglion  del  cupo 
Fosso  abbattendo,  il  riversò  nel  mezzo; 

E ad  immago  di  ponte  un’ampia  strada 
Spi$novvi,  e larga  come  d’asta  il  tiro. 
Quando  a far  di  sue  forze  esperimento 
Un  lanciator  la  scaglia.  Essi  a falangi 
Su  questa  via  versavansi;  ed  Apollo 
Sempre  alla  testa,  sollevando  in  alto 
L’egida  orrenda,  degli  Achivi  il  muro 
Atterrava  con  quella  agevolezza 
Che  un  fanciullo  talor  lungo  la  riva 
Del  mar  per  giuoco  edifica  l’arena, 

E per  giuoco  co’  piedi  c colle  mani 
Poco  poi  la  rovescia  e la  rimesce. 

Tale  tu,  Febo  arder,  l’opra,  in  die  tanto 
Sudar  gli  Achivi,  dispergesti,  c loro 
Del  gelo  della  fuga  empiesti  il  petto. 

Cosi  spinti  fermàrsi  appo  le  navi; 

E a vicenda  incuorandosi,  c le  mani 
Ai  numi  alzando,  ognun  porgea  gran  voti. 
Ma  più  che  tutti,  degli  Achei  custode, 

11  Gerénio  Nestorre  allo  stellato 
Ciclo  le  palme  sollevando  orava: 

Giove  padre,  se  mai  nelle  feconde 
Piagge  argivc  o di  tauri  o d’ agncUettc 
Sacrifici  offerendo,  ti  pregammo 
Di  felice  ritorno,  c tu  promessa 


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-5oo 


LraRO  XV 


Ne  festi  e cenno,  or  deh!  il  ricorda,  c lungi, 
Dio  pietoso,  ne  tieni  il  giorno  estremo. 

Nè  voler  si  da’  Troi  domi  gli  Achivi. 

Cosi  pregava.  L’udi  Giove,  e forte 
Tuonò.  Ma  i Teucri  dell’ Egioco  Sire 
Udito  il  segno,  si  scagliàr  più  fieri 
Contro  gli  Achivi,  ed  incalzar  la  pugna. 
Come  del  mar  turbato  un  vasto  flutto 
Da  furia  boreal  cresciuto  e spinto 
Rugge,  e sormonta  della  nave  i fianchi^ 

Tali  i Teucri  con  alti  urli  salirò 
La  muraglia^  e,  cacciati  entro  i cavalli. 

Coll’ aste  incominciàr  sotto  le,  poppe 
Un  conflitto  crudel:  questi  su  i cocchi^ 

Quei  sul  bordo  de’ legni  colle  lunghe. 

Che  dentro  vi  giacean,  stanghe  commesse. 
Ed  al  bisogno  di  naval  battaglia 
Accomodate  colle  ferree  teste. 

Finché  fuor  del  navile  interno  al  muro 
Arse  de’ Teucri  e degli  Achei  la  pugna, 

Del  valoroso  Euripilo  si  stette 
Patroclo  nella  tenda,  e ragionando 
Il  ricreava,  c sull’acerba  piaga 
Dell’amico,  a placarne  ogni  dolore, 
Obblivìosi  farmaci  spargea. 

Ma  tosto  che  mirò  su  l’ arduo  muro 
Saliti  a furia  i Teucri,  c l'urlo  sursc 
Degli  Achivi  c la  fuga , in  lai  proruppe  ; 

E,  battendosi  l’anca:  Ohimè!  diss’egli 
In  suono  di  lamento , una  feroce 
Mischia  là  veggo.  Non  mi  lice,  Euripilo, 
All’uopo,  che  pur  n’hai,  teco  indugiarmi 
Più  lungamente:  assisteratti  il  servo ^ 
lo  ne  volo  ad  Achille,  onde  eccitarlo 
Alla  pugna.  Chi  sa?  forse  un  propizio 
Nume  darammi  che  mia  voce  il  tocchi: 

Degli  amici  il  pregar  va  dolce  al  core. 

Così  detto,  volò.  Gli  Achivi  intanto 
Fermi  de’ Teucri  sostenean  l’assalto; 

Ma  dalle  navi  non  sapean , (quantunque 


3l8  ILIADE  r.  Jul-S4o 

Oi  numero  minori,  allontanarli^ 

Nè  i Trojani  potean  romper  de’  Greci 
Le  stipate  falangi,  e insinuarsi 
Tra  le  navi  e le  tende.  E a quella  guisa 
Che  in  man  di  fabbro  da  Minerva  istruito, 

II  rigo  una  naval  trave  pareggia^ 

Così  de’  Teucri  egual  si  diffondea 
E degli  Achei  la  pugnai  ed  altri  a questa 
Nave  attacca  la  Euffa,  ed  altri  a quella. 

Ma  contro  Ajace  dispiccato  Ettorre, 

Intorno  ad  un  sol  legno  ambo  gli  eroi 
Travagliansi^  nè  questi  era  possente 
A fugar  quello  e il  combattuto  pino 
Incendere;  nè  quegli  a tener  lunge 
Questo  ; chè  un  nume  ve  1’  avea  condotto. 

Colpì  coll’asta  il  Telamdnio  allora 
Calctore  di  Clizio  in  mezzo  al  petto. 

Mentre  alle  navi  già  venia  col  foco. 

Rimbombò  nel  cadere,  e dalla  mano 
Cascógli  il  lizzo.  Come  vide  Ettorre 
Riverso  nella  polve  anzi  alla  poppa 
II  consobrino,  alzò  la  voce;  e,  i suoi 
Animando,  gridò:  Licj,  Trojani, 

Dàrdani  bellicosi,  ah  dalla  pugna 
Non  ritraete  in  questo  stremo  il  piede! 

Deh!  non  patite  che  di  Clizio  il  figlio. 

Da  valoroso  nel  pugnar  caduto. 

Sia  dell' armi  dispoglio.  — E,  sì  dicendo, 

Ajace  saettò  culla  fulgente 

Lancia,  ma  in  fallo;  e Licofron  percosse, 

Di  Mastore  Bgliuol,  che  reo  di  sangue 
Dalla  sacra  Citerà  esule  venne 
Al  Tclamónio,  e v’ebbe  asilo,  e poscia 
Suo  scudiero  il  seguì.  Lo  giunse  il  ferro 
Nella  lesta,  da  presso  al  suo  signore. 

Sul  confin  dell’  orecchia , c dalla  poppa 
Resupino  il  travolse  nella  polve. 

Raccapriccionne  Ajace,  e a Teucro  disse; 

Caro  fratei , n’  è spento  il  fido  amico 
Masloride,  che  noi  ne’ nostri  tetti 


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LIBRO  XT 


V. 


Da  Citerà  ramingo  in  pregio  avemmo 
Quanto  i diletti  genitor;  l’uccise 
Ettore.  Dove  or  son  le  tue  mortali 
Frecce,  e quell’arco  tuo,  dono  d’ Apollo? 

L’udl  Teucro,  e veloce  a lui  ne  venne 
Coll’arco  e la  faretra;  e,  via  ne’Troi 
Dardeggiando,  feri  di  Pisenorre 
dito  illustre  6gliuol , caro  al  Pantide 
Polidamante,  a cui  de’  corridori 
Rcggea  le  briglie.  Or,  mentre  che  bramoso 
Di  mertarsi  d’Ettorre  e de’Trojani 
E la  grazia  e la  lode,  ove  dell’ armi 
Lo  scompiglio  è maggior,  spinge  i cavalli. 
Malgrado  il  presto  suo  girarsi  il  giunse 
L’inevitabil  suo  destin;  chè  il  dardo 
Lagrimoso  gli  entrò  dentro  la  nuca. 

Cadde  il  trafitto;  s’ arretrar  turbati 

I destrieri,  sentendo  il  vóto  cocchio 
Orrendamente.  Ma  v’  accorse  pronto 
Di  Panto  il  figlio,  che  paressi  innanzi 
Ai  fiementi  corsieri;  e ad  Astinòo 

Di  Protaon  fidandoli,  con  molto 
Raccomandar  lo  prega  averli  in  cura 
E seguirlo  vicin.  Ciò  fatto,  il  prode 
Riede  alla  zuffa,  e tra  i primier  si  mesce. 
Pose  allor  Teucro  un  altro  dardo  in  cocca 
Alla  mira  d’  Ettorre;  e qui  finita 
Tutta  alle  navi  si  sana  la  pugna. 

Se  al  fortissimo  eroe  togliea  l’acerbo 
Quadrel  la  vita.  Ma  lo  vide  il  guardo 
Della  mente  di  Giove , che  d’  Ettorre 
Custodia  la  persona,  e privo  fece 
Di  quella  gloria  il  Telamdnio  Teucro; 

Chè  il  Dio,  nell’atto  del  tirar,  gli  ruppe 
Del  bell’  arco  la  corda,  onde  sv'iossi 

II  ferreo  strale , c 1’  arco  di  man  cadde. 
Inorridito  si  rivolse  Teucro 

Al  suo  fratello,  e disse:  Ohimè!  precise 
Della  nostra  battaglia  un  Dio  per  certo 
Tutta  la  speme,  un  Dio,  che  dalla  mano 


3»9 


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33o 


ILIADE 


L’arco  mi  scosse,  e il  nervo  ne  diruppe 
Pur  contorto  di  fresco,  e eh’  io  medesmo 
Gli  adattai  questa  mane,  onde  il  frequente 
Scoccar  de’ dardi  sostener  potesse. 

O mio  diletto,  gli  rispose  Àjace, 

Poiché  l’arco  ti  franse  un  Dio,  nemico 
Dell’onor  degli  Achivi,  al  suolo  il  lascia 
Con  esso  le  saette;  e 1’  asta  impugna 
E lo  seudo , e co’  Teucri  entra  in  battaglia , 

Ed  agli  altri  fa  core;  onde,  se  prese 
Esser  denno  le  navi,  almen  non  sia 
Senza  fatica  la  vittoria.  Ad  altro 
Non  pensiam  dunque  che  a pugnar  da  forti. 

Corse  Teucro  alla  tenda,  e vi  ripose 
L’ arco  ; e preso  un  brocchier  che  avea  di  quattro 
Falde  il  tessuto,  un  elmo  irto  d’equine 
Chiome  al  capo  si  pose;  e orribilmente 
N*  ondeggiava  la  cresta.  Indi,  una  salda 
Lancia  impugnata,  a cui  d'  acuto  ferro 
Splendea  la  punta , s’ avviò  veloce , 

E raggiunse  il  fratello.  Intanto  Ettorre  , 

Viste  cader  di  Teucro  le  saette. 

Le  sue  schiere  incuorando,  alto  gridava: 

Teucri , Dàrdani , Licj , ecco  il  momento 
D’ esser  prodi,  e mostrar  fra  queste  navi 
Il  valor  vostro , amici.  Infrante  ha  Giove 
D’ un  gran  nemico  (con  quest’ occhi  il  vidi) 

Le  funeste  quadrella.  Agevolmente 
Si  palesa  del  Dio  1’  alta  possanza , 

Sia  ch’esalti  il  mortai,  sia  che  gli  piaccia 
Abbassarne  1’  orgoglio  , e 1’  abbandoni  : 

Siccome  appunto  degli  Achivi  or  doma 
La  baldanza , e le  nostre  armi  protegge. 

Pugnate  adunque  fortemente , e stretti 
Quelle  navi  assalite.  Ognun , che  , còlto 
O di  lancia  o di  strai,  trovi  la  morte , 

Del  suo  morir  s’ allegri  : è dolce  e bello 
Morir  pugnando  per  la  patria , c salvi 
Lasciarne  dopo  sé  la  sposa,  i figli 
E la  casa  e l’avcr,  quando  gli  Achei 


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LIBRO  XV 


33 


♦*.  6ai-6<kt 

Torneran  navigando  al  pairio  lido. 

Fur  quei  detti  una  fiamma  ad  ogni  cere. 
Dall'  una  parte  i suoi  conforta  a neh'  esso 
Ajace , e grida:  Argivi,  o qui  morire, 

0 le  navi  salvar.  Se  fia  che  alfine 
Il  nemico  le  pigli,  a piè  tornarvi 
Forse  sperate  alla  natia  contrada? 

E non  udite  di  che  modo  Ettorre, 

D’ incenerirle  tutte  impaziente, 

1 suoi  guerrieri  istiga?  Egli  per  certo 
Non  alla  tresca , ma  di  Marte  al  fiero 
Ballo  gl' invita.  Nè  partito  adunque. 

Nè  consiglio  sicuro  altro  che  questo, 

Menar  le  mani,  e di  gran  cor.  Gli  è meglio 
Pure  una  volta  aver  salute  o morte, 

Che  a poco  a poco  in  lungo  aspro  conflitto 

Qui  consumarci  invendicati  e domi 

Per  mano,  oh  scorno!  di  peggior  nemico. 

Rincorossi  ciascuno^  e allor  la  strage 
D’ ambe  le  parti  si  confuse.  Ettorre 
Schedio  uccide,  figliuol  di  Perimede, 
Condotticr  de’Foccnsi.  Uccide  Ajace 
Laodamante,  generosa  prole 
D’Anlénore,  e di  fanti  capitano. 
Polidamante  al  suol  stende  il  cilleiiio 
Oto,  compagno  di  Megète,  c duce 
De’  magnanimi  Epei.  Visto  Megétc 
Cader  l’amico,  scagliasi  diritto 
Sul’ uccisore  ma  questi,  obliquamente 
Chinando  il  fianco , andar  fe  vóto  il  colpo  \ 
Cbè  in  quella  zuffa  non  permise  Apollo 
Del  figliuolo  di  Pani»  la  caduta*, 

E l’asta  di  Megéte  in  mezzo  al  petto 
Di  Cresmo  si  piantò,  che  orrendamente 
Rimbombò  nel  cader.  Corse  a spogliarlo 
Dell’  armi  il  vincitore  ma  gli  si  spinse 
' Cantra  il  gagliardo  vibrator  di  picca 
Dolope,  che  di  Lampo  era  germoglio. 

Di  Lampo,  prestantissimo  guerriero 
Laomedontide.  Impetuoso  ei  corse 


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332 


ILIADE 


06i*7Oo 


Sopra  Megétc , e lo  ferì  nel  mezzo 
Dello  scudo  i ma  il  cavo  e grosso  usbergo 
L’  asta  sostenne , quell’  usbergo  istesso 
Che  d’ Efira  di  Ui  dal  Sellcente 
Un  dì  Fileo  portò,  dono  d’Eufete, 

Ospite  suo.  Con  questo  egli  più  volte 
Campò  sé  stesso  nelle  pugne  ^ ed  ora 
Con  questo  a morte  si  sottrasse  il  figlio, 
Che  non  fu  tardo  alle  risposte.  Al  sommo 
Del  ferrato  e chiomato  elmo  ei  percosse 
L’  assalitor  coll’  asta  , e dispicconne 
L’equina  cresta,  che,  così  com’era 
Di  purpureo  color  fulgida  e fresca, 

Tutta  gli  cadde  nella  polve.  Or  mentre 
Ei  qui  stassi  con  Dolope  alle  strette , 

E vittoria  ne  spera , ecco  venirne 
A rapirgli  la  palma  il  bellicoso 
Minore  Atride , che  furtivo  al  fianco 
Di  Dolope  s’ accosta  , e via  nel  tergo 
L’asta  gli  caccia.  Trapassógli  il  petto 
La  furiosa  punta,  oltre  anelando: 

Boccon  cadde  il  trafitto , e gli  fur  sopra 
Tosto  que’  due  per  dispogliarlo.  Allora 
Il  teucro  duce,  incoraggiando  tutti 
I congiunti,  si  volse  a Melanippo 
D’ Icetaon.  Pasceva  egli  in  Perente , 

Pria  dell’  arrivo  degli  Achei , le  mandre. 
Ma  giunti  questi  ad  Ilio,  ci  pur  vi  venne, 
E risplendea  fra’ Teucri,  ed  abitava 
Col  re  medesmo,  che  1’  avea  per  figlio. 

Lo  punse  Ettorre , e disse  : E così  dunque 
Ci  starem  neghittosi,  o Melanippo? 

E non  ti  senti  il  cor  commosso  al  diro 
Caso  del  morto  consobrin  ? Non  vedi 
Lo  studio  che  color  dansi  dintorno 
A Dolope  per  l’armi  ! Orsù,  mi  segui: 

Non  è più  tempo  di  pugnar  da  lungi 
Con  questi  Argivi.  Sterminarli  è d’  uopo  , 

O veder  Troja  al  fondo,  ed  allagate 
Per  lor  di  sangue  cittadin  le  vie. 


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r.  ;oi-;;o  LIBRO  XV  333 

Cosi  detto , il  precede  i e 1’  altro  il  segue 
In  sembianza  d'  un  Dio.  Ma,  vólto  a'  suoi 
Il  gran  Tclamonide:  Amici,  ci  grida, 

Siate  valenti^  in  cor  v’entri  la  fiamma 
Della  vergogna , e l’ un  dell’  altro  abbiate 
Tema  e rispetto  nella  forte  mischia. 

De’  prodi  erubescenti  i salvi  sono 
Più  che  gli  uccisi.  Chi  si  volge  in  fuga, 

Corre  all’infamia  insieme  ed  alla  morte. 

Si  disse;  e tutti  per  sé  pur  già  pronti 
Alla  difesa,  si  stampàr  nel  core 
Que’  detti , e fér  dell’  armi  un  ferreo  muro 
Alle  navi;  ma  Giove  era  co’ Teucri. 

Prese  allor  Menelao  con  questi  accenti 
D’ Antiloco  a spronar  la  gagliardia  : 

Antiloco,  tu  se’ del  nostro  campo 
11  più  giovin  guerriero  e il  più  veloce , 

E iiiun  t’avanza  di  valor.  Trascorri 
Dunque,  e di  sangue  ostil  tingi  il  tuo  ferro. 

Cosi  l’accese,  e si  ritrasse;  e quegli, 

Fuor  di  schiera  balzando,  e d’ogn’ intorno 
Guatandosi,  vibrò  l’asta  lucente. 

Visto  quell’atto,  si  scansare  i Teucri; 

Ma  il  colpo  in  fallo  non  andò;  chè  colse 
Melanippo  nel  petto  alla  mammella. 

Mentre  animoso  s’avanzava.  Ei  cadde. 

Risonando  nell’ armi;  e ratto  a lui 
Àntiloco  avventassi.  A quella  guisa 
Che  il  veltro  corre  al  capr'iol  ferito. 

Cui,  mentre  uscia  dal  covo,  il  cacciatore 
Di  strai  raggiunse,  e sciolsegli  le  forze; 

Così  sovra  il  tuo  corpo,  o Melanippo, 

A spogliarti  dell’  armi  il  bellicoso 
Àntiloco  si  spinse.  Il  vide  Ettorre, 

E volò  per  la  mischia  ad  assalirlo. 

Non  ardi  l’altro,  benché  prò  guerriero, 

Aspettarne  lo  scontro,  e si  fuggio, 

Siccome  lupo  misfattor,  che,  ucciso 
Presso  l’armento  il  cane  od  il  bifolco, 

Si  riusciva  fuggendo  anzi  che  densa 


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ILtÀDE 


Lo  circuisca  <lc'  villan  la  turba. 

Cu.sì  diè  volta  sbigottito  il  figlio 
Di  Nèstore  per  mezr.o  alle  saette 
Che  alle  sue  spalle  con  immenso  strido 

I Trojaui  piovevano  ed  Ettorre; 

Nè  diè  sosta  al  fuggir,  nè  si  converse, 

Che  giunto  fra’  compagni  a salvamento. 

Qui  fu  che  i Teucri  un  furioso  assalto 
Diero  alle  navi , ed  adempir  di  Giove 

II  supremo  voler,  che  vie  più  sempre 

Lor  forza  aceresce,  ed  agli  Achei  la  scema: 
Togliendo  a questi  la  vittorìa,  e quelli 
Incoraggiando , perchè  tutto  s’  abbia 
Ettor  r onore  di  gittar  ne’  eurvi 
Legni  le  fiamme  , e tutto  sia  di  Teti 
Adempito  il  desio.  Quindi  il  veggente 
Nume  il  momento  ad  aspettar  si  stava 
Che  il  guardo  gli  ferisse  alfin  di  qualche 
Incesa  nave  lo  splendor  , perch’  egli 
Da  quel  punto  volea  che  de’  Trojani 
Cominciasse  la  fuga,  e degli  Achei 
L'  alta  vittoria.  In  questa  mente  il  Dio 
Sproni  aggiungeva  al  cor  d’Ettorre;  c questi 
Furiando,  parca  Marte  che  crolla 
La  grand’asta  in  battaglia,  o di  vorace 
Fuoco  la  vampa  che , ruggendo  , involve 
Una  folta  foresta  alla  montagna. 

Manda  spume  la  bocca , e sotto  il  torvo 
Ciglio  lampeggia  la  pupilla;  ai  moti 
Del  pugnar,  la  celata  orrendamente 
Si  squassa  intorno  alle  sue  tempie:  e Giove 
Il  proteggea  dall’  alto , c di  lui  solo 
Tra  tanti  eroi  , volea  far  chiaro  il  nome 
A ricompensa  di  sua  corta  vita  ; 

Perocché  già  Minerva  il  di  supremo 
Che  domar  lo  dovea  sotto  il  Pelide , 

Gl’  incalzava  alle  spalle.  Ove  più  dense 
Egli  vede  le  file , e de’  più  forti 
Folgoreggiano  l’armi,  oltre  si  spigiie, 

Di  sbaragliarle  impaziente,  c tutte 


LnBO  XV 


335 


V.  781-820 

. Ne  ritenta  le  vie;  ma  tuttavolta 
Gli  esce  vano  il  desio;  cbè  stretti  insieme 
Resistono  gli  Achei  siccome  aprico 
Immane  scoglio  che  nel  mar  si  sporge, 

E de’  venti  sostiene  e del  gigante 
Flutto  la  furia  che  si  spezza  e mugge. 

Tali  a piè  fermo  sostenean  gli  Achei 
L’urto  de’ Teucri.  Finalmente  Ettorrc, 
Scintillante  di  foco,  nella  tòlta 
Precipitossi.  Come  quando  un’  onda 
Gonfia  dal  vento  assale  impetuosa 
Uu  veloce  naviglio,  e tutto  il  manda 
Ricoperto  di  spuma;  il  vento  rugge 
Orribilmente  nelle  vele , e trema 
Ai  naviganti  il  cor;  chè  dalla  morte 
Non  son  divisi,  che  d’ un  punto  solo; 

Cosi  tremava  degli  Achivi  il  petto; 

Ed  Ettore  parea  crudo  bone , 

Che  in  prato  da  palude  ampia  nudi'ito , 

Un  pingue  assalta  numeroso  armento. 

Ben  egli  il  suo  pastor  vorria  da  morte 
Le  giovenche  campar  ; ma  non  esperto 
A guerreggiar  col  mostro,  or  tra  le  prime 
S’  aggira , ed  or  tra  1’  ultime  ; alfin  l’ empio 
Vi  salta  in  mezzo,  ed  una  ne  divora, 

E ne  van  l’ altre  impaurite  in  fuga. 

Cosi  davanti  ad  Ettore  ed  a Giove 

Fuggian  percossi  da  divin  terrore 

Tutti  allora  gli  Achei.  Restovvi  il  solo 

Miceneo  Periféte,  amata  prole 

Di  quel  Copréo  che  un  giorno  al  grande  Alcide 

Venne  dei  duri  d’Euristéo  comandi 

Apportatore.  Di  malvagio  padi'e 

Illustre  figlio,  rùplendea  di  tutte 

Virtù  fornito  Periféte,  ed  era 

E nel  corso  e nell' armi  e ne’ consigli 

Tra’  Micenei  pregiato  e de’  primieri. 

Ed  or  qui  diede  di  sua  morte  il  vanto 
Alla  lancia  d’  Ettór;  chè  mentre  indietro 
Si  volta  nel  fuggir,  nell’orlo  inciampa 


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336 


ILIADE 


V-  821-8^ 


Dello  scudo,  che  lungo  insino  al  piede 
Dalle  saette  il  difendea.  Da  questo 
Impedito  il  gucrrier  cadde  supino, 

E dintorno  alle  tempie  in  suono  orrendo 
La  celata  squillò.  V’  accorse  Ettorre , 

E 1’  asta  in  petto  gli  piantò  ^ nè  alcuno 
Aitarlo  potea  de' mesti  amici, 

Del  teucro  duce  paurosi  anch'  essi. 
Abbandonato  delle  navi  il  primo 
Ordin  gli  Achivi,  come  ria  gli  sforza 
Necessitade  e l’ incalzante  ferro 
De’  Trojani , riparansi  al  secondo , 

Alla  marina  più  propinquo^  c quivi 
Nanzi  alle  tende  s’ arrestar  serrati 
Senza  sbandarsi  (chò  vergogna  e tema 
Li  ratteneano);  e,  alzando  un  incessante 
Grido  a vicenda,  si  mettean  coraggio. 

Anzi  a tutti  il  buon  Nèstore,  l’antico 
Guardian  degli  Achivi,  ad  uno  ad  uno 
Pe’  genitor  li  supplica  : Deh  ! siate , 

Siate  forti,  o miei  cari,  e di  pudore 
n cor  v’  infiammi  la  presenza  altrui. 

Della  sua  donna  ognuno  e de'  suol  figli 
E del  suo  tetto  si  rammenti;  ognuno 
Si  proponga  de’  padri,  o spenti  o vivi, 

I bei  fatti  al  pensiero:  io  qui  per  essi. 

Che  son  lungi,  vi  parlo,  e vi  scongiuro 
Di  tener  fermo  e non  voltarvi  in  fuga. 

Rincoràrsi  a que’ detti:  allor  repente 
Sgombrò  Minerva  la  divina  nube 
Che  il  lor  guardo  abbujava,  e una  gran  luce 
Dintorno  balenò.  Vider  le  navi , 

Videro  il  campo  c la  battaglia  e il  prode 
Ettore  e tutti  i suoi  guerrier,  si  quelli 
Che  in  riserbo  tenea,  si  quei  che  fanno 
Pugna  alle  navi.  Non  soilrì  d’Ajace 

II  magnanimo  cor  di  rimanersi 

Con  gli  altri  Achivi  indietro;  ed,  impugnata 
Una  gran  trave  da  naval  conflitto 
Con  caviglie  connessa,  e ventidue 


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,.861  900  LIBRO  XV  337 

Cubiti  lunga , la  scotea , per  1'  alte 
Dc’navigj  corsie  lesto  balzando 
A.  lunghi  passi,  simigliante  a sperto 
Equestre  saltatoi',  che,  giunti  insieme 
Quattro  scelti  destrier,  gli  sferza  e spigne 
Per  le  pubbliche  vic^  maravigliando 
Stassi  la  turba ^ ed  ei  securo  e ritto, 

Dall'un  passando  all’altro,  il  salto  alterna 
Sui  volanti  cavalli.  À tal  sembianza 
Alternava  l’ eroe  gl’  immensi  passi 
Per  le  coperte  delle  navi,  e al  eielo 
La  sua  voce  giugnea  sempre  gridando 
Terribilmente,  e confortando  i suoi 
Delle  tende  e de’ legni  alla  difesa. 

E nè  pur  esso  di  rincontro  EUoitc 
Tra’  Teucri  in  turba  si  riman;  ma  quale 
Àquila  falba  che  uno  stormo  invade 
O di  cigni  o di  gru  che  lungo  il  fiume 
Van  pascolando;  a questa  guisa  il  prode. 

Di  schiera  uscito,  avventasi  di  punta 
Gontra  una  nave  di  cerulea  prora. 

Lo  stesso  Giove  colla  man  possente 
Il  sospinge  da  tergo,  e gli  altri  incita, 

E un  novello  vi  desta  aspro  certame. 

Detto  avresti , che  fresca  allora  allora 
S’  attaccava  la  mischia,  e che  indefesse 
Eran  le  braccia:  1’  impeto  è cotanto 
De’  combattenti  con  opposti  affetti. 

Nella  credenza  di  perirvi  tutti. 

Pugnavano  gli  Achei;  nella  lusinga 
Di  sterminarli,  i Teucri,  cd  in  faville 
Mandar  le  navi:  ed  in  colai  pensiero 
Gli  uni  e gli  altri  mcscean  la  zuffa  e l' ire. 

Ettore  intanto  colla  destra  afferra 
D’  una  nave  la  poppa.  Era  la  bella 
Veloce  nave  che  di  Troja  al  lido 
Protesilao  guidò  senza  ritorno. 

Per  questa  si  facea  di  Teucri  e Achei 
Un  orrido  macello  ; e questi  c quelli 
D’un  cor  medesino,  non  con  archi  e dardi 
Mosti,  llùule.  n 


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338 


ILIADE 


Fan  pugna  da  luntau , ina  con  aculc 
Mannaje  a corpo  a corpo,  c con  bipenni 
F con  brandi  e con  aste  a doppio  taglio, 

E con  tersi  coltelli  di  forbito 
Ebano  indotti  e di  gran  pomo^  ed  altri 
Ne  cadean  dalle  spalle,  altri  dal  pugno 
De’ guerrieri , e scorrca  sangue  la  terra. 

Dell' afferrata  poppa  Ettor  tenendo 
Forte  il  timone  culle  man,  gridava' 

Foco,  o Teucri^  accorrete,  e combattete; 
Ecco  il  di  che  di  tutti  il  conto  adegua, 

11  di  che  Giove  nelle  man  ci  mette 
Queste  navi,  a Il'ion  contra  il  volere 
Venute  degli  Dei,  queste  che  tanti 
Ne  recar  danni  per  codardi  avvisi 
De’  nosti'i  padri  che  mi  fean  divieto 
Di  portar  qui  la  guerra.  Ma  se  Giove 
Confuse  iillor  le  nostre  menti,  or  egli. 

Egli  stesso  n’incalza  all’alta  impresa. 

Disse;  e i Teucri  maggior  contro  gli  Argivi 
Impeto  f5ro.  Degli  strali  allora 
Più  non  sostenne  Àjace  la  ruiua; 

Ma , giunta  del  morir  1’  ora  credendo , 

Lasciò  la  sponda  del  naviglio,  e indietro 
Retrocesse  alcun  poco  ad  uno  scanno 
Sette  piè  di  lunghezza.  E,  qui  piantato, 
Osservava  il  nemico;  e,  sempre  oprando 
L’asta,  i Trojani,  che  di  faci  ardenti 
Già  s’ avanzano  armati,  allontanava, 

E sempre  alzava  la  tcrribil  voce: 

Danai,  di  Marte  alunni,  amici  eroi. 

Non  ponete  in  obblio  vostra  prodezza. 
Sperate  forse  di  ti’ovarvi  a tergo 
Chi  ne  soccorra,  od  un  più  saldo  muro 
Che  ne  difenda?  Non  abbiam  vicina 
Città  munita  che  ne  salvi,  e nuove 
Falangi  ne  fornisca.  In  mezzo  a fieri 
Inimici  noi  siam,  chiusi  dal  mai'e, 

Lungi  dal  patrio  suol.  Nell’ armi  adunque, 
Non  nella  fuga,  ugni  salute  è posta. 


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LIBnO  XV 


Così  dicendo,  colla  lunga  lancia 
Furioso  insegiua  qualunque  osava 
Da  Ettore  sospinto  avvicinarsi 
Colle  fiamme  alle  navi.  E di  costoro 
Dodici  dall'  acuta  asta  trafitti 
Pose  a giacer  davanti  alle  carene. 


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LIBRO  DECIMOSESTO 


ARGOMENTO 


AdiiUc,  mouo  dalli*  prrghWe  di  Pilrnclo,  gli  concede  di  veitirvi  delle  sue  armi  e di  tne> 
nan  a battaglia  i Mirmidoui.  Sue  parole  nella  partenaa  di  Pàtroclo.  Questi  si  mostra  ai 
Trojaoi , i quali  > credenlolo  Achille  , sì  Tolj;aoo  in  Tuga.  P rodesse  dell'eroe.  Sar|ìedoale  , 
dopo  avere  ucciso  PiMaso,  uno  dei  cavalli  d'AcluUe  , è posto  a miule  da  Patroclo.  Coni* 
batlinwoto  intorno  al  cadavere , ebe  finalmente  per  volere  di  Giove  è traspmtalo  prodigio* 
«aoseate  nella  Lkia.  Patroclo  » volendo  assalire  Iv  mura  di  Troja  , impedito  da  Apollo. 
Scontro  di  Ettore  e di  Pàtruclo.  Morte  di  Cebrìone  Kudtrro  dì  Ettore  , e battaglia  in* 
torno  ad  e«ao.  Apollo  diaanna  iovisililmente  Pàtroclo,  die  ^irinia  i ferito  da  Euibrhu.  e 
penda  ucdio  ed  iomliato  da  Ettore.  Predsaioni  dell' eroe  morente. 


E cosi  questi  combattean  la  nave. 
Presentossi  davanti  al  Cero  Achille 
Patroclo  intanto , un  caldo  rio  versando 
Di  lagrime,  siccome  onda  di  cupo 
Fonte  che  in  brune  polle  si  devolve 
Da  rupe  alpestre.  Riguardollo,  e n'ebbe 
Pietà  il  guerriero  piè-veloce,  e disse: 
Perchè  piangi,  Patròclo?  Bamboletta 
Sembri  che,  dietro  alla  madre  correndo, 
Torla  in  braccio  la  prega,  e la  ratticne 
Attaccata  alla  gonna^  ed,  i suoi  passi 
Impedendo  piangente,  la  riguarda, 

Finch'  ella  al  petto  la  raccolga.  Or  donde 
Questo  imbelle  tuo  pianto?  Ai  Mirmidóni, 
O a me  medesmo  d’  una  ria  novella 
Sei  forse  annunziator?  Forse  di  Ftia 
La  ti  giunse  segreta?  E pur  la  fama 
Vivo  ne  dice  ancor  Menézio,  c vivo 
Tra  i Mirmidón  1' Eàcide  Peléo, 

D'ambo  i quali  d'assai  grave  a noi  fora 


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V.  21 -6o 


lUADE  , LIBRO  XVI  34  I 

Certo  la  morte.  O per  gli  Achei  tu  forse 
Le  tue  lagrime  vèrsi , e li  compiagni 
Là  tra  le  fiamme  delle  navi  ancisi, 

E dell’  onta  puniti,  che  mi  fóro? 

Parla:  m’apri  il  tuo  duol;  meco  il  dividi. 

E tu,  dal  cor  rompendo  alto  un  sospiro. 

Così,  Patrdclo,  rispondesti:  O Àehille, 

O degli  Achei  fortissimo  Pelide, 

Non  ti  sdegnar  del  mio  pianto.  Lo  chiede 
Degli  Aehei  l’empio  fato.  Oimè!  che  quanti 
Eran  dianzi  i miglior,  tutti  alle  navi 
Giaccion  feriti,  quale  di  saetta. 

Qual  di  fendente:  di  saetta  il  forte 
Tidi'de  Diomede,  e di  fendente 
L’inclito  Ulisse  e Agamenndn;  trafitta 
Ei  pur  di  freccia  Euripilo  ha  la  coscia. 

Intorno  a lor  di  farmaci  moli’ opra 
Fan  le  mediche  mani,  e le  ferite 
Ristorando  ne  vanno.  E tu  resisti 
Inesorato  ancora?  O Achille!  oh  mai 
Non  mi  s’ appigli  al  cor,  pari  alla  tua, 

L’ ira , o funesto  valoroso  ! E s’ oggi 
Sottrae  nieghi  gli  Achivi  a morte  indegna. 

Chi  fia  che  poscia  da  te  speri  aita? 

Crudeli  nè  padre  a te  Peléo,  nè  madre 
Tétide  fu:  te  il  negro  mare  o il  fianco 
Partorì  delle  rupi,  e tu  rinserri 
Cuor  di  rupe  nel  sen.  Se  doloroso 
Ti  turba  un  qualche  oracolo  la  mente  ^ 

Se  di  Giove  aleun  eenno  a te  la  madre 
’ì?eneranda  recò:  me  tosto  almeno 
Invia  nel  campo  ^ e al  mio  comando  i forti 
Mirmidoni  concedi^  oud’ io,  se  puossi. 

Qualche  raggio  di  speme  ai  travagliati 
Compagni  apporli.  E questo  ancor  mi  assenti. 
Ch’io,  delle  tue  coperto  armi  le  spalle, 

M’ appresenti  al.  nemico^  onde,  ingannato 
Dalla  sembianza,  in  me  comparso  ci  creda 
Lo  stesso  Achille,  e fugga,  e l’abbattuto 
Acheo  respiri.  Nella  pugna  è spesso 


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ILIADE 


«•.  Gi'ioo 


Una  via  di  salute  un  sol  respiro^ 

E noi  di  forze  inttigri  agevolmente 
Ricaccerem  la  stanca  oste  alle  mura, 

Dalle  navi  respinta  e dalle  tende. 

Cosi  l’eroe  pregò.  Folle!  chè  morte 
Perorava  a sè  stesso  e reo  destino. 

E a lui,  gemendo  di  corruccio,  Achille: 
Che  dicesti,  o Patroclo?  In  questo  petto 
Terror  d’udite  profezie  non  passa. 

Nè  di  Giove  alcun  cenno  a me  la  diva 
Madre  recò.  Ma  il  cor  mi  rode  acerba 
Doglia,  in  pensando  che  rapirmi  il  mio 
Un  mio  pari  s’ ardisce,  e del  concesso 
Premio  spogliarmi  prepotente.  È questo. 
Questo  il  tormento,  il  dispetto,  la  rabbia. 
Onde  l’alma  è angosciata.  Una  donzella 
Di  valor  ricompensa,  a me  prescelta 
Da  tutto  il  campo,  e da  me  pria  coli’  asta 
Conquistata  per  mezzo  alla  ruina 
Di  munita  città,  questa  alle  mie 
Mani  ha  ritolta  l’orgoglioso  Atride, 

Come  a vii  vagabondo.  Ma  le  andate 
Cose  sicn  poste  nell’oblio^  chè  l’ira 
Viver  non  debbe  eterna.  Io  certo  avea 
Fatto  un  severo  nel  mio  cor  decreto 
Di  non  porla,  se  prima  non  giugnesse 
Alle  mie  navi  de’ pugnanti  il  grido 
E la  pugna.  Ma  tu  le  mie  ti  vesti 
Armi  temute,  c alla  battaglia  guida 
I bellicosi  Tessali:  chè  fosco 
Di  Teucri  e 6ero  un  nugolo  vegg’  io 
Circondar  già  le  navi , e al  lido  stringersi 
In  poco  spazio  i Greci,  e su  lor  tutta 
Troja  versarsi,  audace  fatta  e balda, 
Perchè  vicino  balenar  non  vede 
Dell’elmo  mio  la  fronte.  Oh  fosse  meco 
Stato  re  giusto  Agamennòn!  Ben  io 
T’affermo  che  costoro  avn'an,  fuggendo. 
De’  lor  corpi  ricolme  allor  le  fosse. 

Or  ecco  che  n’ han  chiuso  essi  d’assedio; 


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LIBBO  XVI 


343 


tni>i4o 

Perocché  nella  man  di  Diomede, 

À tener  lunge  dagli  Achei  la  morte, 

L’asta  più  non  infuria,  né  d’Atride 
La  voce  ascolto  io  più  dall’  abhorrita 
Bocca  scoppiante^  ma  sol  quella  intorno 
Dell’omicida  Ettorrc  mi  rimbomba, 

Animante  i Trojani.  E questi,  alzando 
Liete  grida  guerriere,  il  campo  tutto 
Tengon  già  vincitori.  E nondimeno 
Va,  ti  scaglia  animoso,  c dalle  navi 
Quella  peste  allontana;  nè  patire 
Che  le  si  strugga  il  fuoco,  e ne  sia  tolta 
Del  desiato  ritornar  la  via. 

Ma,  quale  in  mente  la  ti  pongo,  .avverti 
De’ miei  detti  alla  somma,  c m’obbedisci. 

Se  vuoi  che  gloria  me  ne  torni,  e grande 
Dai  Greci  onore,  e che  la  bella  schiava 
Con  doni  eletti  alfin  mi  sia  venduta. 

Cacciati  i Teucri,  fa  ritorno:  e s’ anco 
L’  altitonante  di  Giunon  marito 
Ti  prometta  vittoria,  incauta  brama 
Di  pugnar  senza  me  con  quei  gagliardi 
Non  ti  seduca;  nè  voler  ch’io  colga 
Di  ciò  vergogna  e disonor;  nè,  spinto 
Dall’  ardor  della  pugna,  alle  fatali 
Dardanie  muro  avvicinar  le  schiere 
Della  strage  de’  Teucri  insuperbito; 

Onde  non  scenda  dall'  Olimpo  un  qualche 
Immortale  a tuo  danno.  Essi  son  cari , 

Non  obbli'arlo,  al  saettante  Apollo. 

Posti  in  salvo  i navili,  immantinente 
Dunque  dà  volta,  c la.scia  ambo  a vicenda 
Struggersi  i campi.  Oh  Giove  padre!  oh  Palladel 
E tu  di  Deio  arcicro  Iddio,  deh!  fate 
Che  nessun  possa,  nè  Trojan  nè  Greco, 

Schivar  morte,  nessuno;  onde  del  sarro 

Iliaco  muro  la  caduta  sia 

Di  noi  due  soli  preservati  il  vanto. 

Mentre  seguian  tra  lor  queste  panrle, 

Ajacc  ornai  redea  l' arcua  oppre.sso 


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344 


ILUDE 


¥ 1 180 


Da  gran  selva  di  strali.  Rintuzzava 
Le  sue  forze  il  voler  di  Giove  e il  nembo 
Delle  teucre  saette.  11  rilucente 
Elmo  percosso  un  suon  mettca  che  orrendo 
Gl’ intronava  le  tempie,  ed  incessante 
Sopra  i chiavelli  il  martellar  cadea. 

Langue  spossata  la  sinistra  spalla 
Dall’assiduo  maneggio  affaticata 
Del  versatile  scudo.  E tutta  volta 
!Vè  la  calca  premente  , nè  de’  colpi 
La  tempesta  il  potea  mover  di  loco. 
Scuotegli  i Ranchi  più  affannato  c spesso 
L’anelito^  il  sudor  discorre  a rivi 
Per  le  membra  , nè  puote  a ninna  guisa 
Pigliar  respiro  il  valoroso.  Intanto 
D'ogni  parte  l’orror  cresce  c il  periglio. 

Muse  dell’alto  Olimpo  abitatrici, 

Or  voi  ne  dite  per  che  modo  il  primo 
Fuoco  alle  navi  degli  Achei  s"  apprese. 

Di  frassino  una  grave  asta  scotea 
Ajace.  A questa  avvicin.ato  Ettorre , 

Tal  trasse  un  colpo  della  grande  spada , 
Che  netta  la  tagliò  là  dove  al  tronco 
Si  commette  la  punta.  Iiivan  vibrava 
11  Tclamónio  eroe  l'asta,  privata 
Della  sua  cima,  che,  lontan  cadendo, 
Risonò  sul  terrcn.  Raccapricciossi 
Il  magnanimo,  e vide  ivi  d’un  nume 
Manifesta  la  man^  vide  che  avverso 
L’Altitonante  del  pugnar  le  vie 
Tutte  gli  avea  precise , e decretata 
De’  Teucri  all’  armi  la  vittoria.  Ei  dunque 
Lunge  dai  dardi  si  ritrasse  \ c ratto 
I Troi  gittaro  nella  nave  il  fuco. 

Che  tosto  le  si  apprese,  c d’  ogni  lato 
L’ inestinguibil  fiamma  si  diifusc. 

Si  battè  r anca  per  dolore  Achille , 

Vista  la  vampa  divorante;  c : Sorgi , 

Mio  Patroclo,  gridò;  sorgi:  alle  navi 
L’ impeto  io  veggo  della  fiamma  ostile. 


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iSi^aao 


LIBRO  XVI 


345 


Deh!  che  il  nemico  non  le  prenda,  e tutti 
Ne  precluda  gli  scampi:  su  via,  tosto 
Armati;  che  i miei  forti  io  ti  raduno. 

Disse:  e Patrdclo  si  restia  dell' armi 
Folgoranti.  Alle  gambe  primamente 
I bei  schinieri  si  ravvolse  adorni 
D'  argentee  fibbie.  La  corazza  al  petto 
Poscia  si  mise  del  veloce  Achille 
Screziata  di  stelle.  Indi  la  spada 
Di  bei  chiovi  d’  argento  aspra  e lucente 
Dall’  omero  sospese.  Indi  lo  scudo 
Saldo  e grande  imbracciò;  la  valorosa 
Fronte  nell'elmo  imprigionò,  su  cui 
D’  equine  chiome  orrendamente  ondeggia 
Una  cresta.  Alfin  prese , atte  al  suo  pugno. 
Valide  lance;  ed  unica  d'Achille 
L’asta  non  prese,  immensa,  grave  e salda. 
Cui  nullo  palleggiar  Greco  potea. 

Tranne  il  braccio  achilleo  : massiccia  antenna 
Sulle  cime  del  Pélio  un  dì  recisa 
Dal  buon  Chirone  , ed  a Pelco  donata , 
Perchè  fosse  in  sua  man  strage  d’eroi. 

Comanda  ei  quindi  che  i cavalli  al  cocchio 
Subito  aggioghi  Automedon,  guerriero, 

Cui  dopo  Achille  , rompitor  di  squadre  , 

Sovra  ogni  altro  ei  pregiava  ; ed  in  battaglia , 

Nel  sostener  gl’  impetuosi  assalti 

Del  nemico,  ad  Achille  era  il  più  fido. 

Rotti  adunque  gl'  indugi,  Automedonte 
I veloci  corsieri  al  giogo  addusse , 

Balio  e Xanto  che  un  vento  eran  nel  corso, 

E partoriti  a Zefiro  gli  avea 
L’Arpia  Podarge  un  dì  eh’  ella  pascendo 
Iva  nel  prato  lungo  la  corrente 
Dell' Oceàn.  Dall’ una  banda  ei  poscia 
Pèdaso  aggiunse,  corridor  gentile. 

Cui  seco  Achille  un  di  dalla  disfatta 
Città  d’Eezìou  s’ avea  condotto; 

E,  quantunque  mortale,  iva  del  paro 
Co’  destrieri  immortali.  Intanto  Achille  , 


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346 


ILIADE 


Su  e giù  scorrendo  per  le  tende , tutti 
Di  tutto  punto  i Mirmidóni  armava. 

Quai  crudivori  lupi  il  cor  ripieni 
Di  molta  gagliardia,  prostrato  avendo 
Sul  monte  un  cervo  di  gran  corpo  e corna , 
Sei  trangugiano  a brani,  e sozze  a tutti 
Rosseggiano  di  sangue  le  mascelle  ^ 

Quindi  calano  in  branco  ad  una  bruna 
Fonte  a lambir  colle  minute  lingue 
Il  nereggiante  umor , carne  ruttando 
Mista  col  sangue 5 il  cor  ne’ petti  audaci 
S’allegra,  c il  ventre  ne  va  gonfio  e teso; 
Tali  dintorno  al  bellicoso  amico 
Del  gran  Pelide  intrepidi  si  allullano 
1 mirmidonj  capitani;  e in  mezzo 
A lor  s’aggira  il  marziale  Achille, 

I cavalli  animando  e i battaglieri. 

Cinquanta  eran  le  prore  che  veloci 
Avea  condotte  a Troja  il  caro  a Giove 
Tessalo  prence,  e carea  iva  ciascuna 
Di  cinquanta  guerrieri.  A cinque  duci 
N’arca  dato  il  comando,  ed  ei  la  somma 
Potestà  ne  tenea.  Guida  la  prima 
Squadra  Menéstio,  scintillante  il  petto 
Di  variato  usbergo.  Era  costui 
Prole  di  Sperchio,  fiume  che  da  Giove 
L’  origine  vantava;  c di  Peléo 
La  bella  figlia  Polidora  a Sperchio 
Partorito  l’avea,  donna  mortale 
Gommista  con  un. Dio.  Ma  lui  la  fama 
Nel  popolo  dicca  prole  di  Boro, 

Di  Perieréo  figliuol , che  tolta  in  moglie 
L’  avea  solenne  e di  gran  dote  ornata. 

Guidava  la  seconda  il  marzio  Eudoro, 
Generato  di  furto,  a cui  fu  madre 
La  figlia  di  Filante,  Polimela, 

Danzatrice  leggiadra.  Innamorossi 
In  lei  Mercurio  un  dì  che  alle  cantate 
Danze  la  vide  della  Dea  che  gode 
Del  romor  delle  cacce  e d'aureo  strale; 


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LIBRO  XVI 


347 


*•.  a6i-5«o 

La  vide;  e,  della  casa  allo  superne 
Stanze  salito,  giacquesi  furtivo 
11  pacifico  Iddio  colla  fanciulla, 

E lei  fe  madre  d'  un  illustre  figlio, 

D’  Eudoro,  egregio  nella  pugna  al  pari 
Che  rapido  nel  corso.  E poiché  tratto 
Fuor  r ebbe  dal  materno  alvo  Iliti'a , 
Curatrice  de’  parli , e 1’  almo  ci  vide 
Raggio  del  Sol,  la  genitrice  al  prode 
Attóride  Echecléo  passò  consorte, 

Di  largo  dono  nuzial  dotata. 

Nudrì  poscia  il  fanciullo  ed  allevullo 
L’avo  Filante  con  paterna  cura, 

E di  figlio  diletto  in  loco  il  tenne. 

Capitan  della  terza  era  il  valente 
Mcmalide  Pisandro,  il  più  perito 
• De’ Mirmiddni  nel  vibrar  dell’asta 
Dopo  il  compagno  del  Pclidc  Achille. 

La  quarta  il  veglio  cavalier  Fenice, 

E conducea  la  quinta  Alcimedontc, 

Di  Laerce  buon  figlio.  Or  poiché  tutti 
Gli  ebbe  schierati  co’lor  duci  Achille, 

Gravi  ed  alte  parlò  queste  parole: 

Mirmidóni,  di  voi  nullo  mi  ponga 
Le  minacce  in  obbb'o,  che,  mentre  immoti 
Su  le  navi  la  mia  ira  vi  tenne, 

Fèste  a’Trojani,  me  accusando  tutti, 

E dicendo  : Implacabile  Pcb'dc, 

Certo  di  bile  ti  nudrio  la  madre  : 

Crudel  ! ebé  tieni  a lor  dispetto  inerti 
Nelle  navi  i tuoi  prodi.  A Ftia  deh!  almeno 
Redir  ne  lascia  su  le  nostre  prore , 

Da  che  nel  cor  ti  cadde  una  tant’ira. 

Questi  biasmi  in  accolta  a me  sovente 
Mormoraste,  o guerrieri.  Or  ceco  é giunto 
Del  gran  conflitto,  che  bramaste,  il  giorno. 
All’  armi  adunque;  c chi  cuor  forte  in  petto 
Si  chiude,  a danno  de’  Trojani  il  móstri. 

Si  dicendo,  destò  d'ogni  guerriero 
E la  forza  e 1’  ardir.  Strinscr  più  densa 


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348 


ILUDE 


• 3ol-34» 


'Tosto  le  schiere  l'ordinanza,  uditi* 

Del  lor  sire  gli  accenti.  E in  quella  guisa 
Che  industre  arcbitettor  1'  una  su  1’  altra 
Le  pietre  ammassa,  e insieme  le  commette 
Acconciamente  a costruir  d'  eccelso 
Palagio  la  muraglia  all’  urto  invitta 
Del  furente  aquilon;  non  altramente 
Addensati  venian  gli  elmi  c gli  scudi. 

Scudo  a scudo,  elmo  ad  elmo,  e uomo  ad  uomo 
S’ appoggia  ^ c al  moto  delle  teste  vedi 
L'  un  coll’  altro  toccarsi  i rilucenti 
Cimieri  e l’onda  delle  chiome  equine: 

Si  de’  guerrier  serrate  eran  le  file. 

Iva  il  paro  d’eroi  dinanzi  a tutti, 

Patroclo  e Automedonte,  ambo  d’  un.  core 
E d’  una  brama  di  dar  dentro  ei  primi. 

Con  altra  cura  intanto  alla  sua  tenda 
Avviossi  il  Pelide,  ed  un  forziere 
Apri  di  vago  lavorio  , cui  Teti 
Gli  avea  riposto  nella  nave  e colmo 
Di  tuniche  e di  clamidi  del  vento 
Riparatrici,  e di  vellosi  strati. 

Quivi  una  tazza  in  serbo  egli  tenea 
Di  pregiato  artificio,  a cui  nuli’ altro 
Labbro  mai  non  attinse  il  rubicondo 
Umor  del  tralcio,  e,  fuor  che  a Giove,  ei  stesso 
Non  libava  con  questa  ad  altro  iddio. 

Fuor  la  trasse  dell’arca,  e con  lo  zolfo 
La  purgò  primamente  ^ indi  alla  schietta 
Corrente  la  lavò.  Lavossi  ei  pure 
Le  mani,  e il  vino  rosseggiante  attinse. 

Ritto  poscia  nel  mezzo  al  suo  recinto 
Libando,  e gli  occhi  sollevando  al  cielo, 

A Giove,  che  il  vedea,  fe  questo  prego: 

Dio  che  lungi  fra’ tuoni  hai  posto  il  trono, 
Giove  Pelasgo , regnator  dell’  alta 
Agghiacciata  Dodona,  ove  gli  austeri 
Selli  che  han  Pare  a te  sacrate  in  cura  , 

D’ogni  lavacro  schivi  al  fianco  letto 
Fan  del  nudo  terreno  , i voli  mici 


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.14'-3«o  '-'•*0  *''■  34g 

Già  tu  benigno  un'altra  volta  udisti, 

E dalle  piaghe  degli  Achei  vendetta 
Dell’onor  mio  prendesti.  Or  tu  pur  questa 
Piata,  o padre,  le  mie  preci  adempi  : 

10  qui  fermo  mi  resto  appo  le  navi  4 

Ma  in  mia  vece  alla  pugna  ecco  spedisco 
Con  molti  prodi  il  mio  diletto  amico. 

Deh!  vittoria  gl’ invia,  tonante  Iddio  4 
L'  ardir  gli  afforza  in  petto 4 onde  s'avvegga 
Ettore  se  pugnar  sappia  pur  solo 

11  mio  compagno , o allor  soltanto  invitta 
La  sua  destra  infierir,  quando  al  tremendo 
Lavor  di  Marte  lo  conduce  Achille. 

Ma,  dalle  navi  aebee  lungi  rimosso 
L' ostil  furore , a me  deh  ! tosto  il  torna 
Con  tutte  l’armi  e co’ suoi  forti  illeso. 

Sì  disse  , orando  4 e il  sapiente  Giove 
Parte  del  prego  udì , parte  nc  sperse  : 

Udì,  che  dalle  navi  alfin  respinta 
Fosse  la  pugna 4 e non  udì,  che  salvo 
Dalla  pugna  tornasse  il  caro  amico. 

Libato  a Giove  e supplicato , Achille 
Rientrò  , rinserrò  nell’  arca  il  sacro 
Nappo  4 e di  nuovo  della  tenda  uscito , 

Ritto  all'ingresso  si  fermò,  bramoso 
Di  mirar  de’  Trojan!  e degli  Achei 
La  terribile  mischia.  E questi  al  cenno 
Dell’  ardito  Patroclo  in  ordinati 
Squadroni,  e tutti  di  gran  cor  precinti 
Già  piombano  su  i Teucri,  e si  dispiccano 
Come  rabide  vespe,  entro  i lor  nidi 
Lungo  la  strada  stimolate  all’  ira 
Da  proeaci  fanciulli , a cui  dilètta 
Travagliarle  incessanti  a loro  usanza. 

Stolti!  chè  a sè  fan  danno  ed  all’ignaro 
Passeggierò  innocente.  Le  sdegnose. 

Che  ne’  piccioli  petti  han  grande  il  corc , 

Sbucano  in  frotta,  e alla  difesa  volano 
De’ cari  parti.  Coll’ ardir  di  queste 
Si  versar  dalle  navi  i Mirmidóni. 


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35o 


ILIADE 


».  38i-4iO 


ìy  era  immenso  il  fracasso^  c,  di  Mcnczio 
Confortandoli  il  figlio,  alto  gridava: 
Commilitoni  del  Pelidc  Achille, 

Siate  valenti  ^ della  vostra  possa 
Ricordatevi , amici , c combattiamo 
Per  la  gloria  di  lui , forti  campioni 
Del  più  forte  de’ Greci.  Il  suo  fallire 
Vegga  il  superbo  Atride,  e dell’oltraggio 
Fatto  al  maggiore  degli  eroi  si  penta. 

Sprone  alle  forze  e al  cor  di  ciascheduno 
Fur  le  parole.  Si  serrar,  scagliarsi 
Sul  nemico  ad  un  punto  ^ e si  sentiva 
Terribilmente  rimbombar  le  navi 
Al  gridar  degli  Achei.  Ma  come  i Teucri 
Di  Manézio  mirar  l’ inclito  figlio 
Esso  e 1’  auriga  Automedonte  al  fianco 
Folgoranti  nell’ armi,  a tutti  il  cure 
Tremò;  le  schiere  scompigliàrsi , ognuna 
Nella  credenza  che  il  Peli'de  avesse 
Deposta  1’  ira,  e l'amistà  ripresa. 

Studia  ognuno  la  fuga,  ognun  procaccia 
La  sua  salvezza.  Allur  Patroclo  il  primo 
La  fulgida  vibrò  lancia  nel  mezzo, 

Dove  più  densa  intorno  all’alta  poppa 
Del  buon  Protesilao  ferve  la  calca: 

E Pireemo  feri,  che  dalle  vaste 
Rive  dell’Assio  e d’Amidonc  avea 
Seco  i pconj  cavalicr  eondutti. 

Gli  mise  il  colpo  alla  diritta  spalla, 

E quei  riverso  e gemebondo  cadde 
Nella  polve.  Si  volse,  al  suo  cadere. 

Il  peonio  drappello  in  presta  fuga, 

E tutto  si  sbandò,  morto  il  suo  duce 
Prestantissimo  in  guerra.  Repulsati 
I nemici,  l’eroe  spense  le  vampe; 

Ma  il  navigio  restò  mezz’  arso  e monco. 

E qui  fuggire  e sgominarsi  i Teucri , 

E gli  Achivi  inseguirli,  c via  pe’ banchi 
Delle  navi  cacciarli  in  gran  tumulto. 
Siccome  allor  che  dall’eccelsa  vetta 


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LIBRO  XVI 


Di  gran  monte  le  nubi  atre  disgombra 

Il  balenante  Giove,  appajun  tutte 

Subitamente  le  vedette  e gli  alti 

Gioghi  c le  selve , c immenso  s’ apre  il  cielo  ; 

Cosi,  respinta  1'  ostil  6amma,  aprissi 

De’  Danai  il  core  e respirò.  Ma  tregua 

Non  si  fece  alla  zuffa  ^ ancor  non  tutti 

Davan  le  spalle  agl'incalzanti  Achei 

Gli  ostinati  Trojani;  e,  tuttavolta 

Resistendo,  cedean  forzati  e lenti 

Gii  occupati  navigli.  Allur  diffusa 

In  maggior  spazio  la  battaglia , ognuno 

De'  danai  duci  un  inimico  uccise. 

Fu  Patroclo  il  primier  che  con  acuto 
Cerro  percosse  Areih'co  al  fianco 
Nel  voltarsi  che  fea.  Lo  passa  il  ferro, 
Frange  l'osso^  e boccon  cade  il  meschino. 
Trafisse  Menelao  Toante  al  petto 
Scoperto  dello  scudo,  e freddo  il  fece. 

Il  figliuol  di  Filéo , visto  a rincontro 
Venirsi  Anficlo  d' assaltarlo  in  atto, 

11  previen,  lo  colpisce  ove  più  ingrossa 
Della  gamba  la  polpa.  Infrange  i nervi 
La  ferrea  punta,  e a lui  le  luci  abbuja. 

E voi  l' armi  d'  ostil  sangue  non  vile , 
Antiloco,  tingeste,  e Trasiméde, 

Valorosi  Nestdridi.  Coll'asta 
Antiloco  passò  d'Antimio  il  fianco, 

E il  distese  boccon.  Màride,  irato 
Per  l'ucciso  fratello,  innanzi  al  caro 
Cadavere  si  pianta,  e centra  Antiloco 
La  picca  abbassa.  Ma  di  lui  più  ratto 
Trasiméde  il  prevenne,  e non  indarno 
Volò  la  punta.  All'omero  lo  giunse', 

1 muscoli  segò  del  braccio  estremo , 

E netto  l'osso  ne  recise.  Ei  cadde 
Fragoroso,  e l'avvolse  eterna  notte. 

Da  due  germani  i due  germani  uccisi 
Cosi  n'andai'o  a Dite,  ambo  valenti' 

Di  Sarpedon  compagni,  ambo  famosi 


;i5i 


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35  2 ILIADE  ,■  46l  .ioo 

Lanciatori , (ìglluni  d'AmisoHaru 
Che  la  Chimera,  insupcrabil  mostro 
Di  molte  genti  esizio,  un  dì  nudriva. 

Ajace  d'Qiléo,  sovra  Cleóbolo 
Correndo  impetuoso , il  piglia  vivo 
Nella  calca  impacciato  \ <■ , via  sul  collo 
L’enorme  daga  calando,  lo  scanna. 

Si  tepefece  per  lo  sangue  il  ferro  ^ 

E la  purpurea  morte  e il  violento 
Fato  le  luci  gli  occupò  per  sempre. 

S’  azzuflàr  Lieo  e Peneléo  ^ ma  in  fallo 
Trasser  ambo  le  lance.  Allor  più  fieri 
Dier  mano  al  brando.  Del  chiomato  elmetto 
Lieo  il  cono  percosse^  ma  la  spada 
Si  franse  all’  elsa.  All’  avversario  il  ferro 
Assestò  Peneléo  sotto  1’  orecchio  , 

£ tutto  ve  l’ immerse.  Penzolava 
In  giù  la  testa  dispiccata,  e sola 
Tenea  la  pelle.  Così  cadde  e giactjuc. 

Merìon,  velocissimo  correndo, 

Acamante  raggiunge  appunto  in  quella 

Che  il  cocchio  ei  monta,  e al  destro  òmero  il  fere. 

Ruinò  quel  percosso  dalla  biga, 

E morte  gli  tirò  su  gli  occhi  il  velo. 

Idomcnéo  la  lancia  nella  bocca 
D’  Erimanto  cacciò.  La  ferrea  cima , 

Apertasi  la  via  sotto  il  cerébro, 

Riuscì  per  la  nuca,  spezzò  l’osso 
Del  gorgozzule,  e sgangherògli  i denti ^ 

Talché  di  sangue  s’  empir  gli  occhi , e sangue 
Soffiò  dal  naso  e dalle  fauci  aperte: 

Così  concio'  il  copri  l’ombra  di  morte. 

E questi  fùro  i condottieri  achei , 

Che  spensero  ciascuno  un  inimico. 

Qual  su  capri  ed  agnellc  i lupi  piombano 
Sterminatori,  allor  che  per  inospita 
Balza  neglette  dal  pastor  si  sbrancano^ 

Appena  le  adocchiar,  che  ratti  avvciitansi 
Alle  misere  imbelli,  e ne  fan  strazio; 

Non  altrimenti  si  vedeva  i Danai 


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9.  5ot-54o 


LIBRO  XVI 


353 


Dar  sopra  i Teucri  che  del  core  immemori 
Con  orribile  strepito  fuggivano. 

Nel  folto  della  mischia  il  grande  Ajace 
Sempre  ad  Ettdr  volgea  T asta  e la  mira. 
Ma  quel  mastro  di  guerra,  ricoperto 
H largo  petto  di  taurino  scudo, 

All'acuto  stridor  delle  saette 
E al  sibilo  dell’ aste  attento  bada. 

Ben  s’  accorgendo  alla  contraria  parie 
Già  piegar  la  vittoria:  e tuttavolta 
Teneasi  saldo,  alla  salvezza  intento 
Degli  amati  compagni.  Alfin,  siccome 
Per  l’etere  sereno  al  cielo  ascende 
Su  dal  monte  una  nube  allor  che  Giove 
Tenebrosa  solleva  la  tempesta; 

Non  altrimenti  dalle  navi  i Teucri 
Dier  volta  urlando,  e non  avea  ritegno 
Il  ritrarsi  e il  fuggir.  Lo  stesso  Ettorre, 
Via  coll’ armi  dai  rapidi  destrieri 
Trasportato  in  mal  punto,  la  difesa 
Abbandona  de’  suoi  che  la  profonda 
Fossa  accalca  e impedisce.  Ivi  sossopra 
Molti  destrier  precipitando  spezzano 
E timoni  e tireUe,  e conquassati 
Lascian  là  dentro  co’  lor  duci  i carri. 

E^  Pàtroclo  gl’  incalza , ed , incitando 
Fieramente  i compagni,  alla  suprema 
Buina  anela  de’Trojani.  E questi 
D alte  grida  e di  fuga  empion  già  tutte 
Sbaragliatì  le  vie.  Saliva  al  cielo 
Vorticosa  di  polve  una  procella. 

Spaventati  i cavalli  a tutta  briglia 
Correan  dal  maro  alla  cittadc;  e dove 
Maggior  vede  l’eroe  turba  c scompiglio. 
Minaccioso  gridando  a quella  volta 
Drizza  la  biga.  Traboccar  dai  cocchi 
Vedi  sotto  le  mote  i fuggitivi , 

E i vóti  cocchi  sobbalzando  volano 
Risonanti.  Varcàr  d’un  salto  il  fosso 
Gl’immortali  destrieri,  oltre  anelando, 

Mosti.  Iliade. 


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354 


ILIAPE 


» S41-S80 


I dcslrier  che  a Peléo  diero  gli  Dei 
Preclaro  dono:  e tuttavia  l’eroe 
Contra  Ettór  li  flagella,  desioso 
Pur  d’ aiTivarlo  c di  ferir.  Ma  Ini 
Tracan  già  lunge  i corridor  veloci. 

Come  d’autunno  procelloso  nembo 
Tutta  inonda  la  terra,  allor  che  Giove 
Densissime  dal  ciel  versa  le  piogge. 

Quando  contra  i mortali  arma  il  suo  sdegno, 
1 quai,  cacciata  la  giustizia  in  bando, 

E la  vendetta  degli  Dei  schernita, 

Violente  nel  fòro  e nequitose 
Proferiscon  sentenze;  allor  furenti 
Sboccan  ne’ campi  i fiumi;  giù  dal  monte 
Precipitando,  le  sonanti  piene 
Squarcian  le  ripe,  e nel  purpureo  mare 
Devolvonsi  mugghiando,  e del  cultore 
Corrompono  la  speme  c la  fatica  ; 

Così  gementi  corrono  e sbuflanti 
I trojani  cavalli.  Intanto  rotte 
Le  prime  schiere,  di  Menézio  il  figlio 
Le  ricaccia,  le  stringe  alla  marina, 

Lor  tagliando  il  ritorno  al  desiato 

Ilio;  c tra  il  mare  e il  Xanto  e l’alto  mui'u 

Incalzava,  uccideva  e vendicava 

Molte  morti  d’eroi.  E primamente 

Ferì  d’asta  Pronòo  che  mal  di  scudo 

Goprìasi  il  petto.  Lo  trafisse;  e quegli, 

Giù  cadendo,  nell’ armi  risonò. 

Poi  d’Enópo  il  figliuol,  Tòstore,  assalse 
Impetuosamente.  Iva  costui 
Sovra  elegante  cocchio,  la  persona 
Curvo  ed  in  atto  di  raccor  le  briglie, 

Che  smarrito  nel  cor  s’avea  lasciato 

Dalle  mani  fuggir.  Gli  si  fe  sopra 

L’eroe  coll’asta;  e tal  gli  spinse  un  colpo 

Su  la  destra  mascella,  che  la  siepe 

Sprofondógli  dei  denti.  À questo  modo 

Infilzato  nell’asta  sollevollo 

Dalla  conca  del  cocchio,  c il  trasse  a terra. 


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>.  58l-Slo  UBRO  XVI  355 

Quale  il  buon  pescator  sovra  sporgente 
Scoglio  seduto  colla  lenza,  armata 
Di  fulgid'amo,  fuor  dell’onda  estragge 
Enorme  pesce  ^ a cotal  guisa  il  Greco 
Fuor  del  cocchio  tirò  colla  lucente 
Asta  il  confitto  boccheggiante',  e poscia 
Lo  scrollò  dalla  picca,  e lungi  al  suolo 
Lo  gittò  sanguinoso  e senza  vita. 

Quindi  Ertalo,  che  contro  gli  venia. 

Giunge  d’un  sasso  al  mezzo  della  fronte, 

E in  due,  chiusa  nel  forte  elmo,  la  spacca. 

Boccon  versassi  nella  sabbia,  e morte 
Lo  si  recinse,  e gli  rapio  la  vita. 

Indi  Erimante,  Ànfótero  ed  Epalte 
E il  figliuol  di  Damàstore,  Tlepòlemo, 

L’Àrgéade  Polimélo  ed  Echio  e Piro, 

E con  Evippo  Iféo,  tutti  in  un  muccchio 
Rovesciò,  rassegnò  morti  alla  terra. 

Ma  Sarpedonte,  visto  de’  compagni 
Per  le  man  di  Patroclo  un  tale  e tanto 
Scempio,  i suoi  Licj  rincorando,  e insieme 
Rampognando:  Oh  vergogna!  o Licj,  ci  grida. 
Dove,  o Licj,  fuggite?  Ah  per  gli  Dei 
Rivolate  alla  pugna!  Io  di  costui 
Corro  allo  scontro,  per  saper  chi  sia 
Questo  fiero  campion  che  vi  diserta. 

Che  si  nuoce  ai  Trojani,  e già  di  molti 
Forti  disciolse  le  ginocchia.  — Disse; 

E via  d’un  salto  a terra  in  tutto  punto. 

Si  lanciò  dalla  biga.  Ed  a rincontro 
Come  Patroclo  il  vide,  ei  pur  nell’ armi 
Si  spiccò  dalla  sua.  Qual  due  grifagni 
Ben  unghiati  avoltoi,  forte  stridendo, 

Sovra  un  erto  dirupo  si  rabbufiano. 

Tal  vennero  quei  due,  gridando,  a zuffa. 

Li  vide;  e,  tocco  di  pietade  iFfiglio 
Dell’astuto  Saturno,  in  questi  detti 
A Giunon  si  rivobe:  Ohimè,  diletta 
Sorella  e sposa!  Sarpedon,  ch’io  m’ aggio 
De’ mortali  il  più  caro,  è sacro  a morte 


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356 


aUDE 


V.  6at*66o 


Pel  ferro  di  Patroclo.  Ii-resoluta 
Fra  due  pensieri  la  mia  mente  ondeggia  : 
Se  vivo  il  debba  liberar  da  questo 
Lagrimoso  conflitto , e a'  suoi  tornarlo 
Nell’opulenta  Licia^  o consentire 
Che  qui  lo  domi  la  tessalic’  asta. 

E a lui,  grave  i divini  occhi  girando, 
L’alma  Giuno  cosi:  Che  parli,  o Giove? 
Che  pretendi?  Un  mortale,  un  destinato 
Da  gran  tempo  alla  Parca,  or  della  negra 
Diva  ritorlo  alla  ragion?  Fa  pure. 

Fa  pur  tuo  scuno^  ma  degli  altri  Eterni 
Non  isperar  l’assenso.  Anzi  ti  aggiungo, 

E tu  poni  nel  cor  le  mie  parole  ; 

Se  vivo  e salvo  alle  paterne  case 
Renderai  Sarpedon,  bada  che  poscia 
Del  par  non  voglia  più  d’un  altro  iddio 
Alla  pugna  sottrarre  il  proprio  figlio^ 

Chè  molti  sotto  alle  dardanie  mura 
Stan  nell’ armi  a sudar  figli  di  numi , 

A cui  porresti  una  grand’  ira  in  seno. 

Chè  s’ei  t’ è caro  e lo  compiagni,  il  lascia 
Nella  mischia  perir  domo  dall'asta 
Del  figliuol  di  Menèzio^  ma,  deserto 
Dall’alma  il  corpo,  al  dolce  Sonno  imponi 
Ed  alla  Morte,  che  alla  licia  gente 
11  portino.  I fratelli  ivi  e gli  amici 
L’onoreranno  di  funereo  rito 
E di  tomba  e di  cippo,  alle  defunte 
Anime  forti  onor  supremo  e caro. 

Disse;  e al  consiglio  di  Giunoti  s’attenne 
Degli  uomini  il  gran  padre  e degli  Dei; 

E sangue  piovve  per  onor  del  caro  ■ 
Figlio  coi  lungi  dalle  patrie  arene 
Ne’  frigj  campi  avria  PatnSclo  ucciso. 

Già  l’uno  all’altro  si  fa  sotto,  e sono 
Alle  prese.  Patróclo  a Trasimélo, 

Di  Sarpedonte  valoroso  auriga. 

Trapassò  l’anguinaglia,  e lo  distese. 

Mosse'  secondo  Sarpedonte,  e in  fallo 


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LIBRO  XVI 


357 


r.  S6i-7CO 

La  grand'asta  vibrò,  che,  trasvolando, 

La  destra  spalla  a Pódaso  trafisse. 

Si  riversò,  sbufiando,  in  su  l’arena 
n trafitto  cavallo,  e dal  ferino 
Petto  l’alma  si  sciolse  gemebonda. 

Visto  il  compagno  corridor  disteso, 

Gli  altri  due  costeruàrsi,  e a calci,  a salti 
Diersi;  il  timone  cigolò,  confuse 
Implicàrsi  le  briglie.  Ma  riparo 
L’intrepido  vi  mise  Àutomedonte, 

Che  rapido  insorgendo,  e via  dal  fianco 
Sguainata  la  lunga  acuta  spada. 

Tagliò  netto  al  giacente  le  tirelle, 

E fu  l’opra  d’un  punto.  Entrambi  allora 
Rassettarsi  i corsieri,  e raddrizzàrsi 
Al  cenno  della  briglia  obbedienti. 

E qui  di  nuovo  alla  crudel  tenzone 
Si  spinsero  i campioni;  e pur  di  nuovo 
Errò  dell’asta  Sarpedonte  il  tiro, 

Che  via  sovresso  l’ òmero  sinistro 
Di  Patroclo  trascorse,  e non  l’ offese. 

Gli  fe  risposta  il  Tèssalo:  nè  vano 
n suo  telo  volò;  che  dove  è cinto 
Da’  suoi  ripari  il  cor  gli  aperse  il  petto. 

Qual  rovina  una  quercia  o pioppo  o pino 
Cui  sul  monte  tagliò  con  affilata 
Bipenne  il  fabbro  a nautico  bisogno; 

Tal  Sarpedonte  rovinò.  Giacca 
Steso  innanzi  alla  biga , e colle  mani 
Ghermia  la  polve  del  suo  sangue  rossa, 

E fremendo  gemea  pari  a superbo 
Tauro,  onor  dell’armento  e d’aureo  pelo. 
Che  da  lion , che  il  giunge  alla  sprovvista. 
Sbranato  cade,  e sotto  la  mascella 
Del  vincitore,  mugolando,  spira. 

Tale  del  licio  condottier  prostrato 
Dal  tessalico  ferro  in  sul  morire 
Eira  il  gemito  e l’ ira.  E Glauco , il  suo 
Dolce  amico  per  nome  a sè  chiamato: 

Caro  Glauco,  gli  disse,  or  t’  è mestieri 


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358 


ILIADB 


¥.  70i*7V> 

Buon  guerriero  mostrarli,  e oprar  le  mani 
Audacemente.  Tu  dell’aspra  pugna, 

Se  magnanimo  sei,  l’ incarco  assumi: 

Corri,  vola,  e de’Licj  i capitani 
Alla  difesa  del  mio  corpo  accendi. 

/Difendilo  tu  stesso,  e per  l’amico 
Combatti;  infamia  ti  deriva  eterna, 

Se  me  dell’ armi  mie  spoglia  il  nemico, 

Me  pel  certame  delle  navi  ucciso. 

Tien  saldo  adunque,  e pugna,  e di  coraggio 
Tutte  infiamma  le  squadre.  — In  questo  dire 
Le  narici  affilò,  travolse  i lumi, 

E la  morte  il  coprì.  Col  piede  il  petto 
Calcògli  il  vincitore  l’ asta  ne  trasse^ 

E il  polmon  la  seguia  sì,  che  dal  seno 
Il  ferro  a un  tempo  gli  fu  svelto  e l’alma. 

A’  suoi  sbuffanti  corridori  intanto 
Scioltisi  e in  atto  di  fuggir,  lasciando 
Del  lor  signore  il  cocchio,  i Mirmidòni 
Pararsi  innanzi,  e gli  arrestàr.  Ma  Glauco, 

Dell' amico  alla  voce  il  cor  compunto. 

Di  profondo  dolor  sospira  e geme^ 

Chè  mal  può  dargli  la  richiesta  aita. 

L’ impedisce  la  piaga  al  braccio  infissa 
Dallo  strale  di  Teucro,  allor  che  Glauco, 

De’  suoi  volando  alla  difesa,  assalse 
L’alta  muraglia  degli  Achei.  Compresso 
Si  tcnea  colla  manca  il  braccio  offeso 
L’ infelice  ; ed,  orando  al  saetUnte 
Nume  di  Deio:  O re  divino , ei  disse, 

O che  di  Licia  o che  di  Troja  or  bei 
Tua  presenza  le  rive,  odi  il  mio  prego; 

Chè  , dovunque  tu  sia , puoi  d’ un  dolente , 
Qual,  lasso!  mi  son  io,  la  voce  udire. 

Di  che  grave  ferita  e di  che  doglia 
Trafitto  io  porti  questo  braccio,  il  vedi; 

Nè  il  sangue  ancor  mi  si  ristagna,  e tale 
Incessante  m’opprime  una  gravezza 
L’omero  tutto,  che  dell’asta  al  peso 
Mal  reggo , e mal  poss’  io  coll’  inimico 


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r.  741-780  LIBRO  XVI  35q 

Avventurarmi  alla  battaglia.  Intanto 
Di  Giove  il  figlio  Sarpedonte  giace, 

Fortissimo  guerriero,  e l’abbandona, 

Àbi!  pure  il  padre.  Ma  tu,  Dio  pietoso, 

Quest' acerba  mia  piaga  or  mi  risana: 

Deb!  placane  il  dolor;  forza  m’aggiungi 
Sì,  che,  i Licj  compagni  inanimando. 

Io  gli  sproni  al  conflitto,  e a me  medesmo 
Pugnar  sia  dato  per  l’ estinto  amico. 

Sì  disse  orando;  ed  esaudillu>il  nume: 

Della  piaga  sedò  tosto  il  tormento, 

Stagnonne  il  sangue,  e gagliardi'a  gli  crebbe. 

Sentì  del  Dio  la  man,  fe  lieto  il  core 
L’esaudito  guen-ier:  de’ Licj  in  prima 
A incitar  corre  d’ogni  parte  i duci 
Alla  difesa  dell’estinto;  move 
Quindi  a gran  passi  fra’Trojani,  c chiama 
Polidamante  e Agénore,  ed  Enea 
Anco  ed  Ettoire;  e in  rapide  parole, 

Lor  fattosi  davanti:  Ettore,  ei  grida. 

Tu  dimentichi  i prodi  che  per  te 
Dalla  patria  lontani  e dagli  amici 
Spendono  l’ alma , e tu  lor  nieghi  aita. 

Giace  de’  Licj  il  condottiero , il  giusto 
Forte  lor  prence  Sarpedon.  Gradivo 
Sotto  Patrdclo  l’atterrò:  correte; 

V’infiammi,  amici,  una  giust’ ira  il  petto; 

Non  patite,  per  dio!  che  i Mirmidòni 
Lo  spoglino  dell’ armi,  e villania 
Facciano  al  morto,  vendicando  i Dànai 
Da  noi  spenti.  — Sì  disse  ; e ricoperse 
Dolor  profondo  le  dardanie  fronti; 

Chè  un  gran  sostegno,  benché  stranio,  egli  era 
D’Ilio,  e molta  scguia  gagliarda  gente 
Lui  fortissimo  in  guerra.  Difilati 
Mosser  dunque  e serrati  i teucri  duci 
Gontra  il  nemico;  ed  Ettore,  fremente 
Del  morto  Sarpedon,  li  precorrea. 

D’altra  parte  Patrdclo,  anima  ardita, 

Sprona  l’acheo  valor.  Gli  Ajaci  in  prima, 


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36o 


lUADE 


>.  78i<8so 


Già  per  sé  caldi  di  coraggio,  infiamma 
Con  questi  detti:  Ajaci,  ora  vi  caglia 
Di  far  testa  a costoro,  c vi  mostrate 
Quali  un  tempo  già  foste,  anzi  migliori. 

Il  canipion,  che  primiero  la  bastita 
Saltò  de' Greci,  Sarpedontc,  è steso. 

Oh  se  fargli  pur  onta  e strascinarlo 
E spogliarlo  dell' armi  ne  si  déssc! 

E stramazzargli  accanto  un  qualcheduno 
De'  suoi  compagni  a disputarlo  accinti  ! 

Disse  ^ c diè  nel  desio  de' due  guerrieri. 
Quinci  e quindi  le  schiere  inanimate, 
Trojani  e Licj,  Mirmiddni  e Achei, 

Sovra  l’estinto  s’azzufiar,  mettendo 
Orrende  grida  ^ e con  fragore  immenso 
Risonavano  l’armi.  Un  fiero  bujo 
Su  l’aspra  pugna  allor  Giove  diffuse. 

Onde  costasse  molta  strage  il  corpo 
Dell’  amato  figliuol.  Primi  i Trojani 
Respinsero  gli  Achei,  spento  Epigèo. 

Del  magnanimo  Agàcle  era  costui 
Illustre  figlio,  e fra  gli  audaci  Tessali 
Audaebsimo.  A lui  di  Budio  un  giorno 
L’alma  terra  obbedia.  Ma,  spento  avendo 
Un  suo  valente  consobrino,  ei  supplice 
A Peléo  rifuggissi  ed  alla  diva 
Consorte  : e questi  a guerreggiar  co'  Teucri 
D’Hìo  ne’ campi  lo  spedir  compagno 
Dell’  omicida  Achille.  Or  qui  costui 
Già  l’ animose  mani  al  combattuto 
Cadavere  mettea;  quando  d’un  sasso 
Ettore  il  giunse  nella  fronte , e tutta 
In  due  gliela  spezzò  dentro  l’elmetto. 
Cadde  prono  sul  morto  l’infelice, 

E chiuse  i lumi  nell’eterna  notte. 

Addolorato  dell’ucciso  amico. 

Dritto  tra’  primi  pugnator  scagliossi 
Di  Menézio  il  buon  figlio:  e qual  veloce 
Sparvicr  che  gracci  paventosi  e stomi 
Sparpaglia  per  lo  ciclo,  c li  persegue, 


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».8ii-86o  IIB*0  XVI 

Tal  nel  denso  de'  Lic)  e de’  Trojani 
Irrompesti , o Patrdclo , alla  vendetta 
Del  caduto  compagno.  A Stenelao, 

Caro  figlluol  d’Itemenéo,  percosse 
D’un  rude  sasso  la  cervice,  e i nervi 
Ne  lacerò.  Piegàr,  ciò  visto,  addietro 

I combattenti  della  fronte^  ei  pure 

Piegò  l’illustre  Ettorre;  c quanto  è il  tratto 
Di  strai  che  in  giòstra  o in  omicida  pugna 
Vibra  un  buon  gittator,  tanto  i Trojani 
Dier  volta  addietro  dall’Àcheo  repulsi. 

n primo  che  converse  ardito  il  viso. 

Fu  de’  Licj  scudati  il  capitano. 

Glauco^  e a Baticle,  di  Calcon  diletto 
Magnanimo  figliuol,  tolse  la  vita. 

In  Grecia  egli  era  possessor  di  molte 
Splendide  case,  e per  dovizia  il  primo 
Fra  i Tessali  tenuto.  A lui  si  volse 

II  Licio  all’ improvvista,  e il  giavellotto 
Gli  Secò  nelle  coste  appunto  in  quella 
Che  costui  l’inseguiva,  ed  era  in  atto 

Già  d' afferrarlo.  Ei  cadde,  e un  fìragor  cupo 
Dieder  l’armi  sovr’esso.  AUa  caduta 
Dell’egregio  guerriero  alto  dolore 
Gli  Achei  comprese  ed  alta  gioja  i Teucri, 
Che  stretti  a Glauco  s’ avanzàr  più  baldi. 

Nè  si  smarrir  gli  Achivi,  ma  di  . punta 
Si  spinsero  allo  scontro.  E Merione 
Laogono  prostese,  audace  Gglio 
D’Enétore  che  in  Ida  era  di  Giove 
Sacerdote,  e qual  nume  il  popol  tutto 
Lo  riveriva.  Merion  lo  colse 
Tra  il  confin  dell’orecchio  e della  gota, 

E tosto  r alma  usci  del  corpo , e lui 
Un’  orrenda  ravvolse  ombra  di  morte. 
Incontro  all’uccisor  la  ferrea  lancia 
' Enea  diresse^  e a lui  che  sotto  1’  orbe 
Del  gran  pavese  procedea  securo. 

Assestarla  sperò.  Ma  quei , del  colpo 
Avvistosi,  e piegata  la  persona. 


36a 


ILliDB 


«.  8(>i-900 


L’asta  schivò  che  sibilante  e lunga 
Andò  di  retro  a conficcarsi  in  terra. 

Ne  tremolò  la  coda;  e quivi  tutta 
Perdè  l’impeto  e l’ira  che  la  spinse. 

Come  fitto  nel  suolo,  e indarno  uscito 
Enea  si  vide  dalla  mano  il  telo: 

Per  certo,  o Menon,  disse  rabbioso, 

Un  assai  destro  saltator  tu  sei; 

Ma  questa  lancia  mia,  se  t’aggiungéa, 

17  avrìa  ferme  le  gambe  eternamente. 

E Merione  di  rimando:  Enea, 

Forte  sei,  ma  ti  fia  duro  la  possa 
Prostrar  d’ognuno  che  al  tuo  scontro  vcgna; 
Gbè  mortai  se’ tu  pure:  c s’io  con  questa 
In  pieno  ti  corrò , con  tutto  il  nerbo 
Delle  tue  mani  e la  tua  gran  baldanza 
La  palma  a me  darai,  lo  spirto  a Plnto. 

Disse  ^ e Patròclo,  con  rampona  acerba 
Garrendolo:  Perchè  cianci  si  vano 
Tu  che  sei  valoroso  , o Meribne  ? 

Per  contumelie,  amico,  unqua  non  fia 
Che  l’inimico  quell’esangue  ceda. 

Ma  col  far  che  più  d’un  morda  il  terreno. 
Orsù;  lingua  in  consiglio,  e braccio  in  guerra; 
Tregua  alle  ciance,  e mano  al  feiTO.  — E dette 
Queste  cose,  t’avanza;  e l’altro  il  segue. 

Quale  & il  romor  che  fanno  i Icgnajuuli 
In  montana  foresta,  e lunge  il  suono 
Va  gli  orecchi  a ferir;  tale  il  rimbombo 
Per  la  vasta  pianura  si  solleva 
Di  celate,  di  scudi  e di  loriche, 

Altre  di  duro  cuojo,  altre  di  ferro. 

Ripercosse  dall’aste  e dalle  spade. 

Ned  . occhio  il  più  scernente  affigurato 
Avvia  l’illustre  Sarpedon:  tant’era 
Negli  strali,  nel  sangue  e nella  polve 
Sepolto  tutto  dalla  fironte  al  piede. 

Senza  mai  requie  al  fireddo  corpo  intorno 
Facean  tutti  baruffa;  c quale  è il  zonzo. 

Con  che  soglion  le  mosche  a primavera 


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, gai-9^0  363 

Assalir,  susurrando,  entro  il  presepe 
I vasi  pastorali,  allor  che  pieni 
Sgorgan  di  latte  ^ di  costor  tal  era 
La  giravolta  intorno  a qnell’estinto. 

Fissi  intanto  tenea  nell’aspra  pugna 
Giove  gli  sguardi  lampeggianti^  e seco 
Sul  fato  di  Patrdclo  ornai  maturo 
Severamente  nell’eterno  senno 
Consultando  venia,  se  il  grande  Ettorre 
Là  sul  giacente  Sarpedon  l’uccida, 

E dell’ armi  lo  spogli^  o se  preceda 
ÀI  suo  morire  di  moli’ altri  il  fato. 

E questo  parve  lo  miglior  pensiero; 

Che  del  Pelide  Achille  il  bellicoso 
Scudier  ricacci  col  lor  duce  i Teucri 
Alla  cittadc,  c molte  vite  estingua. 

Però  d’Ettore  al  cor  tale  egli  mise 
Una  vii  tema,  che,  montato  il  cocchio. 

Ratto  in  fuga  si  volse,  ed  alla  fuga 
I Trojani  esortò,  chiaro  scorgendo 
Inclinarsi  di  Giove  a suo  periglio 
Le  fatali  bilance.  Allor  piè  fermo 
Neppur  de’Licj  lo  squadron  non  tenne^ 

Ma  tutti  si  fuggir,  visto  il  trafitto 

Re  lor  giacente  sotto  monte  orrendo  i 

Di  cadaveri:  tante  su  lui  caddero 

Ànime  forti,  quando  della  pugna 

A Giove  piacque  esasperar  gli  sdegni. 

Cosi  le  corruscanti  arme  gli  Achivi 
Trasser  di  dosso  a Sarpedonte,  e altero 
Alle  navi  inviolle  il  vincitore. 

Allor  l’eterno  adunator  de’ nembi 
Ad  Apollo  cosi:  Scendi  veloce, 

Febo  diletto,  e da  quell’alto  ingombro 
D’armi  sottraggi  Sarpedonte,  e terso 
Dall’atro  sangue  altrove  il  porta,  e il  lava 
Alla  corrente,  e lui  d’ambrosia  sparso 
D’immortal  veste  avvolgi;  indi  alla  Morte 
Ed  al  Sonno  gemelli  fa  precetto 
Che  all’opime  di  Licia  alme  contrade 


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364 


ILIADE 


941-960 


Il  portino  velaci,  ove  di  tomba 
E di  colonna,  onor  de’ morti,  egli  abbia 
Da’  fratelli  conforto  e dagli  amici. 

Disse  ^ e al  paterno  cenno  obbediente 
Calessi  Apollo  dall’idèa  montagna 
Sul  campo  sanguinoso;  e in  un  baleno 
Di  sotto  ai  dardi  Scu'pedon  levando, 

E lontano  il  recando,  alla  corrente 
Tutto  lavello,  e l’irrigò  d’ambrosia, 

E di  stola  immortai  lo  ricoperse. 

Quindi  al  Sonno  comanda  ed  alla  Morte 
D’ indossarlo , e portarselo  veloci  : 

E quei  subitamente  ebber  deposto 
Nella  licia  contrada  il  sacro  incarco. 

In  questo  mentre  di  Menézio  il  figlio, 

I cavalli  e l’auriga  inanimando. 

Ai  Licj  dava  e ai  Dirdani  la  caccia. 

Stolto  1 cbè  in  danno  gli  tornò  dassezzo. 

Se  d’Achille  obbedia  saggio  al  comando. 
Schivato  ei  certo  della  Parca  avrebbe 

II  decreto  fatai;  ma  più  possente 

È di  Giove  il  voler,  che  de’  mortali. 

Arbitro  della  tema,  ei  mette  in  fuga 
I più  forti  a suo  senno;  e allor  pur  anco 
Ch’egli  medesmo  a battagliar  li  sprona, 

Lor  toglie  la  vittoria:  e questo  ei  fece. 
D’audacia  empiendo  di  Patròclo  il  petto. 

Or  qual  prima,  qual  poi  spingesti  a Plutu, 
Quando  alla  morte  ti  chiamar  gli  Dei, 
Magnanimo  guerrieri  Fur  primi  Adrcsto, 
Autònoo,  Eicheclo,  ed  Epistorre  e Pcrimo, 
Prole  di  Mega,  e Melanippo;  quindi 
Elaso  e Mulio  con  Pilarte;  e come 
Stese  questi  al  terren,  gli  altri  non  fùro 
Lenti  alla  fuga.  E per  Patròelo  allora 
(Ch'ei  dirotto  nell’ira  innanzi  a tutti 
Furiava  coll’asta)  avrian  di  Troja 
Consumato  gli  Achei  l’alto  conquisto; 

Ma  Febo  Apollo  lo  vietò  calato 
Su  l’erta  d’una  torre,  alto  disastro 


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LIBRO  XVI 


365 


V.  g8l-l090 

Meditando  al  guerriero,  e scampo  ai  Teucri. 
Tre  volte  il  cavalier  dell'arduo  muro 
Su  gli  sproni  montò;  tre  volte  il’ nume 
Colla  destra  immortai  lo  risospinse, 

Forte  picchiando  sul  lucente  scudo. 

Ma  come  più 'feroce  al  quarto  assalto 
L’eroe  spiccossi,  minacciollo  irato 
Con  fiera  voce  il  saettante  iddio: 

Addietro,  illustre  baldanzoso,  addietro; 

Alla  tua  lancia  non  concede  il  fato 
Espugnar  la  città  de’ generosi 
Teucri,  nè  a quella  pur  del  grande  Achille 
Sì  più  forte  di  te.  — Questo  sol  disse; 

Ed  il  guerriero  retrocesse,  e l’ira 
Schivò  del  nume  che  da  lungi  impiaga. 

Avea  frattanto  su  le  porte  Scee 
De’  suoi  fuggenti  corridori  Ettorre 
Rattenuta  la  foga,  e in  cor  dubbiava, 

Se  spronarli  dovesse  entro  la  mischia 
Novellamente,  e rin&escar  la  pugna, 

0,  chiamando  a raccolta,  entro  le  mura 
L’esercito  ridurre.  A lui,  nel  mezzo 
Di  questo  dubbio,  app^entossi  Apollo, 
Tolte  d’Asio  le  forme.  Era  d’Ettorrc 
Zio  cotest’Asio,  ad  Eie  uba  germano, 

E nondimeno  ancor  di  giovinezza 
Fresco  e di  forze,  di  Dimante  figlio. 

Che  del  frigio  Sangario  in  su  le  rive 
Tenea  sno  seggio.  La  costui  sembianza 
Presa,  il  nume  sì  disse;  Ettor,  perché 
Cessi  dall’armi?  È d’un  tuo  pari  indegna 
Questa  desidia.  Di  vigor  vincessi 
lo  te  quanto  tu  me!  ben  io  pentirti 
Farei  del  tuo  riposo.  Orsù;  converti 
Contra  Patrdclo  que’  destrieri , e trova 
D’atterrarlo  una  via:  fa  che  l’onore 
Di  questa  morte  Apollo  ti  conceda. 

Disse;  e di  nuovo  il  Dio  nel  travaglioso 
Conflitto  si  confuse.  In  sé  riscosso 
Ettore,  al  franco  Cebr'ion  fc  cenno 


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366 


ILIADE 


' lOll-Ioto 


Di  sferzargli  i destrieri  alla  battaglia; 

Ed  Apollo,  per  mezzo  ai  combattenti 
Scorrendo  occulto,  seminava  intanto 
Tra  gli  Achei  lo  scompiglio  e la  paura, 

E fea  vincenti  col  lor  duce  i Teucri. 
Sdegnoso  Ettorre  di  ferir  sul'Tolgu 
De'  nemici , spingea  solo  in  Patroclo 
I gagliardi  cavalli;  e ad  incontrarlo 
Diè  il  Tessalo  dal  cocchio  un  salto  in  terra 
Coll'asta  nella  manca,  e colla  dritta 
Un  macigno  afferrò  aspro  che  tutto 
Empieagli  il  pugno,  c lo  scagliò  di  forza. 
Fallì  la  mira  il  colpo,  ma  d'un  pelo: 

Nè  però  vano  usci;  chè  nella  fronte 
L' ettòreo  auriga , Cebrìou , percosse , 

Tutto  al  governo  delle  briglie  intento, 
Cebrion  che  nascea  del  re  trojano 
Valoroso  bastardo.  Il  sasso  acuto 
L'un  ciglio  e l'altro  sgretolò,  nè  l'osso 
Sostenerlo  poteo.  Divelti  al  piede 
Gli  schizzàr  gli  occhi  nella  sabbia;  ed  esso. 
Qual  suole  il  nótator,  fece,  cadendo 
Dal  carro,  un  tomo,  e l'agghiacciò  la  morte. 
E tu,  Patróclo,  con  amari  accenti 
Lo  schernisti  così:  Davvero  è snello 
Questo  Trojano  : ve'  ve'  come  ci  tombola 
Con  leggiadria!  Se  in  pelago  pescoso 
Capitasse  costui,  certo  saprebbe, 

Saltando  in  mar,  foss’ anche  in  gran  fortuna. 
Dallo  scoglio  spiccar  conchiglie  e ricci 
Da  saziarne  molte  epe:  sì  lesto 
Saltò  pur  or  dal  carro  a capo  in  ginso. 

Oh  gli  eccellenti  nótator  che  ha  Troja  I 
Sì  dicendo,  awentossi  a Cebrìone 
Come  6ero  hon  che,  disertando 
Una  greggia,  piagar  si  sente  il  petto, 

£ dal  proprio  valor  morte  riceve. 

Ma  ratto  contro  a quel  furor  si  slancia 
Ettore  dalla  biga;  e i due  superbi 
Incomincian  col  ferro  a disputarsi 


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LIBRO  XVI 


367 


f.  I06I-I10O 

L'esangue  Cebrion.  Qual  due  h'oni 
Che  per  gran  fame  e per  gran  cor  feroci 
S' azzuffano  d'un  monte  in  su  la  cima 
Per  la  contesa  d'una  cerva  uccisa^ 

Non  altrimenti  i due  mastri  di  guerra, 
L'intrepido  Patrdclo  e il  grande  Ettorrc, 
Àrdono  entrambi  del  crudel  desio 
Di  trucidarsi.  Il  teucro  eroe  la  testa 
Del  cadavere  afferra,  e lo  ghermisce 
11  Tessalo  d'un  piede,  e la  sua  presa 
Nè  quei  nè  questi  di  lasciar  fa  stima. 

AUor  Trojani  e Àchivi  una  battaglia 
Appiccàr  disperata.  E qual  gareggiano 
D’Euro  e di  Noto  i forti  fiati  a svellere 
Nelle  selve  montane  il  faggio  e il  frassino 
Ed  il  ruvido  comio^  e questi  all’aere 
Dibattendo  le  lunghe  e larghe  braccia 
Con  immenso  ruggito  le  confondono. 
Finché  li  vedi  fracassarsi , e opprimere 
Fragorosi  la  valle^  a questa  immagine. 
L’un  su  l’altro  scagliandosi,  combattono 
Trojani  e Dànaì  del  fuggir  dimentichi. 
Dintorno  a CebrVon  folta  conficcasi 
Una  selva  d’acute  aste  e d’aligeri 
Dardi  guizzanti  dalle  cocche;  assidua 
D’enormi  sassi  una  tempesta  crepita 
Su  gli  ammaccati  scudi;  ed  ci  nel  vortice 
Della  polve  giacca  grande  cadavere 
In  grande  spazio,  eternamente,  ahi  misero! 
Dei  cari  jn  vita  equestri  studi  immemore. 

Finché  del  Sole  ascesero  le  rote 
Verso  il  mezzo  del  ciel,  d’ambe  le  parti 
Usciano  i colpi  con  egual  mina, 

E la  gente  cadea.  Ma  quando  il  giorno 
Su  le  vie  dechinò  dell’occidente, 

Prevalse  il  fato  degli  Achei  che  alfine 
Dall’acervo  dei  teli,  e dalla  serra 
De’  Trojani  involar  di  Cebri'one 
La  salma,  e l’armi  gli  rapir  di  dosso. 

Qui  fu  che  pieno  di  crudel  talento 


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368 


ILliDE 


V.  kOOI'll^O 


Urtò  Patróclo  i Troi.  Tre  volle  il  fiero 
Con  gridi  orrendi  gli  assali,  tre  volte 
Spense  nove  guerrier;  ma  come  il  quarto 
Impeto  feee,  e parve  un  Dio,  la  Parca 
Del  viver  tuo  raccolse  il  filo  estremo, 
Miserando  garzoni  ché  ad  incontrarti 
Venia  tremendo  nella  mischia  Apollo. 

Nè  camminar  tra  l'armi  alla  sua  volta 
L’eroe  lo  vide;  chè  una  folta  nebbia 
Le  divine  sembianze  ricoprìa. 

Vennegli  a tergo  il  nume,  e colla  grave 
Palma  sul  dosso  tra  le  late  spalle 
Gli  dechinò  si  forte  una  percossa, 

Che  abbacinossi  al  misero  la  vista, 

E girò  l’intelletto.  Indi  dal  capo 
Via  saltar  gli  fe  l’elmo  il  Dio  nemico; 

E l’elmo,  al  suolo  rotolando,  fece 
Sotto  il  piè  de’  corsieri  un  tintinnio , 

E si  bruttarci  del  cimier  le  creste 
Di  sangue  e polve;  nè  di  polve  in  pria 
Insozzar  quel  cimiero  era  concesso. 

Quando  l’intatto  capo  e la  leggiadra 
Fronte  copriva  del  divino  Achille. 

Ma  in  quel  giorno  fatai  Giove  permise 
Che  d’Ettore  passasse  in  su  le  chiome 
Vicino  anch’  esso  al  fato  estremo.  Allora 
Tutta  a Patróclo  nella  man  si  franse 
La  ferrea,  lunga,  ponderosa  e salda 
Smisurata  sua  lancia,  e sul  terreno 
Dalla  manca  gli  cadde  il  gran  pavese. 

Rotto  il  guinzaglio.  Di  sua  man  l’usbergo 
Sciolsegli  alfine  di  Latona  il  figlio; 

E l’infelice  allor  del  tutto  uscio 
Di  sentimento;  gli  tremerò  i polsi; 

Ristette  immoto,  sbalordito;  e in  quella 
Tra  l’una  spalla  e l’altra  lo  percosse 
Coll'asta  da  vicin  di  Panto  il  figlio. 
L’audace  Euforbo,  un  Dàrdano  che  al  corso 
E in  trattar  lancia  c maneggiar  destrieri 
La  pari  gioventù  vincea  d’assai. 


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UBHO  SVI  . 


369 


ii^i-iiSa 

La  prima  volta  che  (nblimc  ei  parve 
Su  la  biga  a imparar  dell’ armi  il  duro 
Meatier,  venti  guerrieri  al  paragone 
Riversò  da’  lor  cocchi  ; ed  or  fu  il  primo 
Che  ti  feri,  Patròclo,  e non  t’uccise. 

Ansi,  dal  corpo  ricovrando  il  ferro, 

Si  fuggi  pauroso,  e nella  turba 
Si  confuse  il  fellon,  che  di  Patròclo 
Benché  piagato  e già  dell’armi  ignudo 
Non  sostenne  la  vista.  Da  quel  colpo , 

E più  dall’urto  dell’awerso  Dio 
Abbattuto,  l’eroe  si  ritirava 
Fra’  suoi  compagni  ad  iscbivar  la  morte. 
Ed  Ettore,  veduto  il  suo  nemico 
Retrocedente  e già  di  piaga  offeso , 

Tra  le  file  vicine  gli  si  strinse} 

Nell’Imo  casso  immerse  l’asta,  e tutta 
Dall’altra  parte  riuscir  la  fece. 

Risonò  nel  cadere,  ed  un  gran  lutto 
Per  l’esercito  achivo  si  difihse. 

Come  quando  un  bone  alla  montagna 
Cinghiai  di  forze  smisurate  assalta, 

E l’uno  e l’altro  di  gran  cor  fan  lite 
D’nna  povera  fonte,  al  cui  zampillo 
Yeniano  entrambi  ad  ammorzar  la  sete; 
Alfin  la  belva  dai  robusti  artigli 
Stende  anelo  il  nemico  in  so  l’arena; 

Tal  di  Menézio  al  generoso  figlio. 

De’  Teucri  struggitor,  tolse  la  vita 
n trojan  duce  ; e al  moribondo  eroe 
Orgoglioso  insultando:  Eicco,  dicea. 

Bieco,  o Patròclo,  la  città  che  dianzi 
Atterrar  ti  credesti;  ecco  le  donne 
Che  ti  sperasti  di  condor  captive 
Alla  patema  Ftia.  Folle!  e non  sai 
Che  a difesa  di  queste  anco  i cavalli 
D’ Ettòr  son  pronti  a guerreggiar  co’  piedi  ? 
E che  fila’  Teucri  bellicosi  io  stesso 
Non  vii  guerriero  maneggiar  so  l’asta, 

E preservarli  da  servii  catena? 

Moni.  lUade,  s4 


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3^0  ILIIDB,  LIBRO  XVI  ngi.1119 

Tu  frattanto  qui  «tatti  orrido  pasto 
D'  avoltoi.  Che  ti  valse,  o sventurato, 

Quel  tuo  si  forte  Achille?  Ei  molti  avvisi 
Ti  dié  certo  al  partire:  O cavaliere. 

Caro  Patrdclo,  non  mi  far  ritorno  > 

Alle  navi,  se  pria  dell’omicida 

Ettór  sul  petto  non  avrai  spesiato 

Il  sanguinoso  usbergo...  Ei  certo  il  disse ^ 

E a te,  stolto  che  fosti!  il  persuase. 

E a lui  cosi  l’eroe  languente;  Or  puoi 
Menar  gran  vampo,  Ettorre,  or  che  ti  diero 
Di  mia  morte  la  palma  Apollo  e Giove. 

Essi,  non  tu,  m’han  domo^  essi  m’han  tratto 
L’armi  di  dosso.  Se  pur  venti  a fronte 
Tuoi  pari  in  campo  mi  venian,  qui  tutti 
Questo  braccio  gli  avrìa  prostrati  e spenti. 

Ma  me  per  rio  destin  qui  Febo  uccide 
Fra  gl’immortali,  e tra’ mortali  Euforbo, 

Tu  terzo  mi  dispogli.  Or  io  vo’  dirti 
Cosa  che  in  mente  collocar  ben  devi  ; 

Breve  corso  a te  pur  resta  di  vita; 

Già  t’incalza  la  Parca;  e tu  cadrai 
Sotto  la  destra  dell’invitto  Achille. 

Disse,  e spirò.  Disciolta  dalle  membra. 

Scese  l’alma  a Pluton,  la  sua  piangendo 
Sorte  infelice  e la  perduta  insieme  I 
Fortezza  e gioventù.  Sovra  l’estinto  ■ 

Arrestatosi  Ettorre:  A che  mi  vai  i < ’ 
Profetando,  dicea,  morte  funesta?  i il 
Chi  sa  che  questo  della  bella  Teli  '‘'~jr.il  il 
Vantato  figlio,  questo  Achille  a Dite  I 

Cólto  dall’asta  mia  non  mi  preceda  ?o  ' • 

Cosi  dicendo,  lo  calcò  d’un  piede;  . 

Gli  svelse  il  telo  dalla  piaga,  e lungi  ' 

Lui  supino  gittò.  Poi  ratto  addosso 
All’  auriga  d’AchiUe  si  disserra. 

Di  ferirlo  bramoso.  Invan;  chè  altrove 
Gl’immortali  sai  portano  corsieri  i i 

Che  in  bel  dono  a Peléo  diero  gli  Dei.  - 


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LIBRO  DECIMOSETTIMO 

: 

ARGOMENTO 


«i  pPM  * gotrdù  ikl  cocpo  «fi  Pttroelo,  «di  aedds  Euibriio  dM  volava  ìib|ni< 
4nMÙmae.  Sopnwciigoao  { Tro]aoi  guidali  da  Ettore.  Menelao  lì  ritira,  ed  Ettore  •'io^ 
poucua  delie  ermi  d’Achille,  delle  quali  ù riveete.  I Greci , chiamati  da  Menelao  per  eoo* 
liglio  d'Ajaea  Tclamonio,  si  riitringono  iatoroo  al  morto  Patroclo.  Qui  arde  il 
maggiore,  owoUe  uD*improvvUa  caligine  ricopre  i combatteati  che  li  anofFaoo  al  tnijo.  La 
Debbia  b rimoica  da  GiAve  a*  preghi  d’Aiacc.  Meoetao  maada  Aotfloeo  ad  animnciare  ad 
Achille  la  morte  di  Patroclo.  Praltaoto  Meoelao  e Marioua , levalo  d mollo  da  terra , lo 
Ire^portaoo  vcno  il  lido  d«l  mare,  protetti  dai  due  Ajacl.  Enea  ed  Ettore  cogli  altri  Tro* 
)aaì  iiKilaant»  I Gieet  fuggitivi. 


Visto  in  caupo  cader  dai  Teocrì  ucciso 
Patròclo,  s’aransó  d’anni  splendente 
n bellicoso  Menelao.  Si  pose 
Del  morto  alla  difesa,  e il  circuiva 
Qual  soole  mugolando  errar  dintorno 
Alla  tenera  prole  una  giovenca , 

Cui  di  madre  sentir  fe  il  dolce  affetto 
Del  primo  parto  la  fatica.  H forte 
Davanti  gli  sporgea  l’asta  e lo  scudo, 
Pronto  a ferir  qual  osi  avvicinarsi. 

Ma  sul  caduto  eroe  di  Panto  il  figlio 
Rivoló,  si  fe  presso,  e baldanzoso 
All’Àtride  gridò:  Duce  di  genti. 

Di  Giove  alunno  Menelao,  recedi^ 
Quell’estinto  abbandona,  e a me  le  spoglie 
Sanguinose  ne  lascia , a me  che  primo 
Tra  tutti  e Teucri  ed  alleati  in  aspra 
Pugna  il  percossi.  Non  vietarmi  adunque 
Quest’ alta  gloria  fra’Trojani^  o ch’io 
Col  ferro  ti  trarrò  Palma  dal  petto. 


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ILlàDE 


ii«6o 


37» 

Eterno  Giove,  gli  rispose  irato 
Il  biondo  Menelao,  dove  s'intese 
Più  sconcio  millantar?  Nè  di  pantera. 

Nè  di  lion  fu  mai,  nè  di  robusto 
Truculento  cinghiai  tanto  l'ardire. 

Quanta  spiran  ferocia  i Pantoidi. 

E pur  che  vabe  il  £or  di  gioventude 
A quel  tuo  di  cavalli  agitatore 
Fratello  Iperenòr^  quando  chiamarmi 
Il  piu  codardo  de’  guerrieri  achei^ 

E aspettarmi  s’ardi?  Ma  noi  tomaro 
I proprj  piedi  alla  magion,  mi  credo. 

Di  molta  festa  abbietto  ai  venerandi 
Suoi  genitori  e alla  diletta  sposa. 

Farò  di  te,  se  innoltri,  ora  lo  stesso. 

Ma  t’esorto  a ritraiti,  e pria  che  qualche 
Danno  ti  colga,  dilungarti.  Il  fatto 
Rende  accorto,  ma  tardi,  anche  lo  stolto. 

Disse;  e fermo  in  suo  cor  l’altro  riprese: 
Pagami  or  dunque,  o Menelao,  del  morto 
Mio  fratello  la  pena  e del  tuo  vanto. 

D’una  giovine  sposa,  è ver,  tu  festi 
Vedovo  il  letto,  e d’inefiabil  lutto 
Fosti  cagione  ai  genitor;  ma  dolce 
Farò  ben  io  di  quei  meschini  il  pianto. 

Se  carco  del  tno  capo  e di  tue  spoglie 
In  man  di  Panto  e della  dia  Frontide 
Le  deporrò.  Non  piè  parole:  il  ferro 
Provi  qui  tosto  chi  sia  prode  o vile. 

Feri,  ciò  detto,  nel  rotondo  scudo. 

Ma  noi  passò;  chè  nella  salda  targa 
Si  ritorse  la  punta.  Impeto  fece, 

Giove  invocando,  dopo  lui  l’Atride; 

E al  nemico,  che  in  guardia  si  traea, 
Nell’imo  gorgozzul  spinta  la  picca. 

Ve  l’ immerge  di  forza,  e gli  trafora 
Il  delicato  collo.  Ei  cadde,  e sopra 
Gli  tonàr  l’armi:  c della  chioma,  a quella 
Delle  Grazie  simil,  le  vaghe  anella. 

D’auro  avvinta  e d'argento,  insanguinàrsi. 


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LIBRO  XTU 


V.  61-100 


Qual  d'oliro  gentil  pianta  nudrita 
In  lieto  d'acque  solitario  loco 
Bella  sorge  e frondosa^  il  molle  fiato 
L’accarezza  dell’aure,  e mentre  tutta 
Del  suo  candido  fiore  si  riveste, 

Un  improvviso  turbine  la  schianta 
Dall’ ime  barbe,  e la  distende  a terra^ 

Tal  l’Àtride  prostese  il  valoroso 

Figliuol  di  Panto,  Euforbo,  e a dispogliarlo 

Corse  dell’armi.  Come  quando  un  forte 

Lì'on  montano  una  giovenca  afferra 

Fior  dell’armento , co’  robusti  denti 

Primo  il  collo  le  frange,  indi  sbranata, 

Le  sanguinose  viscere  n’ingozza^ 

Alto  di  cani  intorno  e di  pastori 
Romor  si  leva , ma  niun  s’  accosta; 

Ghè  affrontarlo  non  osano,  compresi 
Di  pallido  timor;  cosi  nessuno 
Ardla  de’  Teucri  al  baldanzoso  Atride 
Farsi  addosso;  e all’ucciso  ei  tolte  l’armi 
Agevolmente  avri'a,  se,  questa  lode 
Gl’ invidiando  Apollo,  incontro  a lui 
Non  incitava  il  marziale  Ettorre. 

Di  Menta,  duce  de’ Cleoni,  ei  prese 
Le  sembianze , e gridò  queste  parole  : 

Ettore,  a che  del  bellicoso  Achille, 

Senza  speranza  d’ arrivarli,  insegui 
Gl’immortali  corsieri?  Umana  destra 
Mal  li  doma;  e guidarli  altri  non  puote. 
Che  Achille,  germe  d’ima  Diva.  Intanto 
Il  forte  Atride  Menelao,  la  salma 
Di  Patroclo  salvando,  a morte  ha  messo 
Un  illustre  Trojan,  di  Panto  il  figlio, 

E ne  spense  il  valor.  — Ciò  detto,  il  Dio 
Ritornò  neUa  mischia.  Alto  dolore 
L’ettòreo  petto  circondò;  rivolse 
L’eroe  lo  sguardo  per  le  file  in  giro; 

E tosto  dell’  esimie  armi  veduto 
n rapitore , e l’ altro  al  suol  giacente 
In  un  lago  di  sangue,  oltre  si  spinse 


373 


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3^4  IllADB  iol-l4o 

Scintillante  nel  ferro  come  lingua 
Del  vivo  fuoco  di  Vulcano,  e mise 
Acuto  un  grido.  Udillo,  e sospirando 
Nel  segreto  suo  cor  disse  l’Atride: 

Misero,  che  farò?  Se  queste  belle 
Armi  abbandono  e di  Menczio  il  figlio 
Per  onor  mio  qui  steso,  alla  mia  fuga 
Gli  Achei  per  certo  insulteran^  se  solo, 

Da  pudor  vinto,  con  Ettór  mi  provo 
E co’  suoi  forti , io  sol  da  molti  oppresso 
Cadrò  ^ chè  tutti  il  condottier  trojano 
Seco  i Teucri  ne  mena  a questa  volta. 

Ma  che  dùbbia  il  mio  cor?  Chi  con  avversi 
Numi  un  guerrier,  che  sia  lor  caro,  affronta. 
Corre  alla  sua  mina.  Alcun  non  fia 
Dunque  de’  Greci  che  con  me  s' adiri  , 

Se  davanti  ad  Ettorre,  a lui,  che  pugna 
Per  comando  d’un  nume,  io  mi  ritraggo. 

Pur  se  avverrà  che  in  qualche  parte  io  trovi 
n magnanimo  Ajace,  entrambi  all’armi 
Ritorneremo  allor,  pur  centra  un  Dio, 

E a sollievo  de’  mali  opra  faremo 
Di  trar  salvo  ad  Achille  il  morto  amico. 

Mentre  tal  cose  gli  ragiona  il  core, 

Da  Ettore  precorse  ecco  de’  Teucri 
Sopravvenir  le  schiere.  Allora  ei  cesse , 

E il  morto  abbandonò , gli  occhi  volgendo 
Tratto  tratto  all’ indietro , a simiglianza 
Di  giubbato  h'on  cui  da’  presepi 
Caccian  cani  e pastor  con  dardi  ed  urli. 

Freme  la  belva  in  suo  gran  core,  e parte 
Mal  suo  grado  dal  chiuso;  a tal  sembianza 
Da  Patroclo  partissi  il  biondo  Atride. 

Giunto  ai  compagni,  s’arrestò,  si  volse, 
Cercando  in  giro  collo  sguardo  il  grande 
Figliuul  di  Telamone,  e alla  sinistra 
Della  pugna  il  mirò , ebe  alla  battaglia 
Animava  i suoi  prodi , a cui  poc’  anzi 
Febo  avea  messo  nelle  vene  il  gelo 
D’un  divino  terror.  Corse,  e,  veloce 


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UB&0  XTU 


375 


141-180 

Raggiuntolo,  gridò:  Qua  tosto,  Ajace^ 
Vola,  amico ^ affirettiamci  alla  difesa 
Di  Pàtroclo^  serbiamne  al  diro  Achille 
11  nudo  corpo  almeno  poiché  deU'armi 
Già  si  fece  signor  l’altero  Ettorrc. 

Turhàr  la  generosa  alma  d’Ajace 
Queste  parole^  s’ avviò,  si  spinse 
Tra  i guerrieri  davanti,  in  compagnia 
Di  Menelao.  Per  l’atra  polve  intanto 
Strascinava  di  Patroclo  la  nuda 
Salma  il  duce  trojano,  onde  troncarne 
Dagli  òmeri  la  testa,  e far  del  rotto 
Corpo  ai  cani  di  Troja  orrido  pasto. 

Ma  gli  fu  sopra  col  turrito  scudo 
U Telamónio;  retrocesse  Ettorre 
Nella  torma  de’ suoi,  d’un  salto  ascese 
Il  cocchio,  e le  rapite  armi  famose 
Dielle  ai  Teucri  a portar  nella  cittade, 
D’alta  sua  gloria  monumento.  Allora, 
Coll’ampio  scudo  ricoprendo  il  figlio 
Di  Menézio  , fermossi  il  grande  Ajace. 

Come  lion  cui,  mentre  al  bosco  mena 

I leoncini,  soprawien  la  turba 
De’  cacciatori , si  rapirà  il  fiero , 

Che  sente  la  sua  forza,  intorno  ai  figli, 

E i truci  occhi  rivolve,  e tutto  abbassa 

II  sopracciglio  che  gli  copre  il  lampo 
Delle  pupille^  a questo  modo  Ajace 
Circuisce  e protegge  il  morto  eroe. 
Dall’altro  lato  è Menelao  cui  l’alta 
Doglia  del  petto  tuttavia  ricresce. 

De’Licj  il  eondottier,  dauco,  buon  figlio 
D’ Ippòloco , ad  Ettòr  volgendo  allora 
Bieco  il  guardo,  con  detti  aspri  il  garrisce  : 
O di  viso  sol  prode,  e non  di  fatto, 
Ettore!  a torto  te  la  fama  estolle, 

Te  si  pronto  al  fuggir.  Pensa  alla  guisa 
Di  salvar  la  cittade  e le  sue  ròcche 
Quindi  innanzi  tu  sol  colla  tua  gente; 

Che  nessuno  de’  Licj  alla  salvezza 


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ILUDE 


r.  iSl-UO 


D'Uio  co' Greci  pugnerà,  nessuno, 

Da  che  teco  nessun  merlo  s’acquista 
Col  sempre  battagliar  contro  il  nemico. 
Sciaurato!  e qual  dunque  avrai  tu  cura 
De’  minori  guerrier , tu  che  lasciasti 
Preda  agli  Argivi  Sarpedon,  che , mentre 
Visse,  a Troja  fu  scudo  ed  a te  stesso? 

E ti  sofferse  il  cor  d’ abbandonarlo 
Allo  strazio  de’ cani  ? Or  se  a mio  senno 
Faranno  i Licj,  partiremci,  e tosto  ^ 

E d’Uio  apparirà  l’alta  mina. 

Ohi  s’or  fosse  ne’ Troi  quella  fort’alma. 
Quell’  intrepido  ardir  che  ne’  conflitti 
Scalda  gli  amici  della  patria  veri. 

Noi  dentr’llio  trarremmo  immantinente 
Di  Patroclo  la  salma.  Ove  un  cotanto 
Morto,  sottratto  dalla  calda  pugna, 
Strascinato  di  Priamo  ne  fosse 
Dentro  le  mura,  renderian  gli  Achei 
Di  Sarpedonte  le  bell’armi  e il  corpo 
Pronti  a tal  prezzo^  perocché  l’ucciso 
Di  quel  forte  è 1’  amico  che  di  possa 
Tutti  avanza  gli  Argivi , e schiera  il  segua 
Di  bellicosi.  Ma  del  fiero  Ajace 
Tu  non  osasti  sostener  lo  scontro. 

Nè  lo  sguardo  fra  l’armi,  e via  fuggisti^ 
Perchè  minore  di  valor  ti  senti. 

Con  bieco  piglio  fe  risposta  Ettorre: 
Perchè  tale  qual  sei.  Glauco,  favelli 
Cosi  superbo?  Io  ti  credea  per  senno 
Miglior  di  quanti  la  feconda  gleba 
Della  Licia  nudrisce.  Or  veggo  a prova 
Che  tu  se’  stolto , se  affermar  t’ attenti 
Che  d’Ajace  lo  scontro  io  non  sostenni. 

Nè  la  pugna  io,  no,  mai,  nè  il  calpestio 
De’  cavalli  pavento , ma  di  Giove 
L’alto  consiglio  che  ogni  forza  eccede. 

Egli  in  fuga  ne  mette  a suo  talento 
Anche  i più  prodi,  e ne’  conflitti  or  toglie. 
Or  dona  la  vittoria.  Orsù;  vien  meco^ 


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LIBRO  XTIl 


9.  aiifs6o 


377 


Suiti,  amico,  al  mio  fianco,  e vedi  al  latto. 
Se  quel  vile  sarò  tutto  quest'oggi 
Che  tu  dicesti,  o se  saprò  l’ardire 
Di  qualunque  domar  gagliardo  Acheo 
Che  del  morto  s’innoltri  alla  difesa. 

Quindi,  le  schiere  inanimando,  grida: 
Teucri,  Dàrdani,  Licj,  or  vi  mostrate 
Uomini,  e il  petto  vi  conforti,  amici. 
Dell’antico  valor  la  rimembranza, 

Mentre  l’armi  d’Achille,  da  me  tolte 
All’ucciso  Patrdclo,  io  mi  rivesto. 

Disse ^ e corse,  e raggiunse  in  un  baleno 
Delle  bell’arme  i porUtori^  e,  date 
A recarsi  nel  sacro  Ilio  le  sue, 

Fuor  del  conflitto  ed  a’  suoi  prodi  in  mezzo 
Le  immorUli  si  cinse  armi  d’Achille, 

Dono  de’ numi  al  genitor  Peldo, 

Che  poi  vecchio  le  cesse  al  suo  gran  figlio: 

Ma  il  figlio  in  quelle  ad  invecchiar  non  venne. 

Come  il  sommo  de’ nembi  adunatore 
Del  Peh'de  indossarsi  le  divine 
Armi  lo  vide,  crollò  il  capo,  c seco 
Nel  suo  cor  favellò  : Misero  ! al  fianco 
Ti  sta  la  morte,  e tu  noi  pensi,  e l’armi 
Ti  vesti  dell’  eroe  che  de’  guerrieri 
Tutti  è il  terrore,  a cui  tu  il  forte  hai  spento 
Mansueto  compagno^  armi  d’eterna 
Tempra  a lui  tolte  con  oltraggio.  Or  io 
D’alta  vittoria  ti  farò  superbo, 

E compenso  sarà  del  non  doverti 
Andròmaca,  al  tornar  dalla  battaglia. 

Scioglier  l’usbergo  del  Peh'de  Achille. 

Disse  ^ e , l’ arco  de’  negri  sopraccigli 
Abbassando,  d’Ettorrc  alla  persona 
Adattò  l’armatura.  Al  suo  contatto 
Infiammossi  l’eroe  d’un  bellicoso 
Orribile  furor^  tutte  di  forza 
Senti  inondarsi  e di  valor  le  vene. 

Degl’incliti  alleati,  alto  gridando, 

Quindi  avviossi  alle  caterve,  e a tutti 


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378 


ILIADE 


r.  a0i.3oo 


Veder  sembrava  folgorar  nell’ armi 
Del  magnanimo  Achille  Achille  ittesso. 

E d’ogni  parte  ognnn  riconfortando, 

Mestle,  Glauco,  Tersiloco,  Medonte, 
Asteropéo,  Disénore,  Ippotdo, 

E Cròmio,  e Porci,  e l’indovino  Enndmo, 
Con  questi  accenti  li  raccese:  Udite, 
Collegati:  non  io  dalle  vicine 
Gittadi  ad  Ilio  ragunai  le  vostre 
Numerose  coorti,  onde  di  gente 
Far  molta  mauo^  chè  mestier  non  m’era; 

Ma  perchè  meco  da’  feroci  Achei 
Le  teucre  spose  ne  servaste  e i 6gli 
Con  pronti  petti.  Di  tributi  io  gravo 
In  questo  intendimento  il  popol  mio 
Per  satollarvi.  Dover  vostro  è dunque 
Voltar  dritta  la  fronte  all’inimico, 

E o salvarsi  o perir;  chè  della  guerra 
Questo  è il  commercio.  A chi  di  voi  costringa 
Ajace  in  fuga , e de’  Trojani  al  campo 
Tragga  il  morto  Patrdclo,  a questi  io  cedo 
La  metè  delle  spoglie,  e andrà  divisa 
Egual  con  esso  la  mia  gloria  ancora. 

Al  fin  delle  parole  alz&r  le  lance 
Tutti,  e al  nemico  s’addrizzàr  di  punta 
Con  grande  in  core  di  strappar  speranza 
Dalle  mani  del  gran  Telamonide 
Il  morto  : folli  ! chè  sul  morto  istesso 
Quell’ invitto  dovea  farne  macello. 

Àllor  rivolto  Ajace  al  battagliero 
Menelao,  cosi  disse:  Illustre  Atride, 

Caro  alunno  di  Giove,  assai  pavento  S 
Ch’  or  salvi  usciamo  dell'acerba  pugna. 

Nè  sì  tem’  io  per  Pàtroclo,  che  parmi 
Del  suo  corpo  farà  tosto  di  Troja 
Sazi  i cani  e gli  augei,  quanto  pel  mio 
E pel  tuo  capo  un  qualche  sconcio:  vedi 
Quella  nube  di  guerra  che  già  tutto 
Ricopre  il  campo?  D’Ettore  son  quelle 
Le  falangi , e su  noi  pende  una  grave 


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, 301-340  libro  XVII  379 

Manifesta  rovina.  Orsù;  de'  Greci , 

Se  udir  ti  ponno,  i più  valenti  appella. 

Non  fe  niego  il  guerriero , e a tutta  gola 
Gridava:  Amici,  capitani  achei, 

Quanti  aUe  mense  degli  Atridi  in  giro 
Propinate  le  tazze,  ed  onorali 
Dal  sommo  Giove  i popoli  reggete. 

Nell'  arder  della  zuffa  il  guardo  mio 
Non  vi  distingue,  ma  chiunque  ascolta 
Deh!  corra,  e sdegno  il  prenda  che  Patitelo 
Ludibrio  resti  delle  frigie  belve. 

Ajace  , d'Oiléo  veloce  figlio, 

Udillo,  e primo  per  la  mischia  accorse^ 

Idomenéo  dop’  esso  e Merìone 
In  sembianza  di  Marte.  E chi  di  tutti, 

Che  poi  la  pugna  rintegràr,  potrìa 
Dire  i nomi  al  pensier?  Primieri  i Teucri 
Stretti  insieme  fór  impeto,  precorsi 
Dal  grande  Ettorre.  Come  quando  all'alta 
Foce  d’un  fiume,  che  da  Giove  è sceso. 

Freme  ritroso  alla  corrente  il  flutto 
Eruttato  dal  mar^  mngghian  con  vasto 
Rimbombo  i lidi^  simigliante  a questo 
Fu  de’  Teucri  il  clamor.  Dall’altro  lato 
Tutti  d’un  cor  con  assiepati  scudi 
Gli  Achei  fér  cerchio  di  Menézio  al  figlio, 

E il  Saturnio  dintorno  ai  rilucenti 
Elmi  un’atra  caligine  spandea; 

Chè  d’Achille  l’amico  il  Dio  dilesse, 

Mentre  fu  vivo,  e ch’egli  or  sia  di  fiere 
Orrido  cibo  sofferir  non  puote. 

A pugnar  quindi  per  la  sua  difesa 
I compagni  eccitò.  Nel  primo  cozzo 
1 Trojani  respinsero  gli  Achivi, 

Che  sbigottiti  abbandonar  l’estinto. 

Nè  i Trojani  però,  benché  bramosi, 

Dieder  morte  a verun,  solo  badando 
A predar  il  cadavere^  ma  presto 
Si  raccostàr  gli  Achei  ^ chè  il  grande  Ajace, 

E d’aspetto  e di  forze  il  più  prestante 


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38o 


O.UDB 


p.  34i4«o 


Sovra  tatti  gli  Achei  dopo  il  Pelide, 
Tostamente  voltar  fironte  li  fece. 

Tra  gl’ innanzi  l’eroe  quindi  si  spinse, 

Pari  ad  ispido  verro  alla  montagna, 

Che  con  subita  fiiria  si  converte 
Fra  le  roste,  e sbaraglia  de’ gagliardi 
Cacciatori  la  turba  e de’  molossi. 

Così  di  Telamon  l’esimio  figlio 
De’Trojani  disperde  le  falangi 
Che  a Patrdclo  fan  calca,  e strascinarlo 
Si  studiano  in  trionfo  entro  le  mura. 

Illustre  germe  del  Pelasgo  Leto, 

Ippdtoo , gli  avea  d’un  saldo  cuojo 
Ai  nervi  del  tallon  l’un  piede  avvinto, 

E di  mezzo  al  ferir  de’  combattenti 
Per  la  sabbia  il  traea,  grato  sperando 
Farsi  ad  Ettorre  ed  ai  Trojani:  ed  ecco 
Giungergli  un  danno  che  nessun,  quantunque 
Desideroso,  allontanar  gli  seppe. 

Fra  la  turba  avventassi,  e su  le  guance 

Dell'elmo  Ajace  disserrògli  un  colpo 

Cbe  tutto  lo  spezzò:  tanto  dell’asta 

Fu  il  picchio  e tanto  della  mano  il  pondo. 

Schizzàr  per  l’aria  le  cervella  e il  sangue 

Dall’aperta  ferita,  e tosto  a lui 

Quetàrsi  i polsi^  dalle  man  gli  cadde 

Del  morto  il  piede  ^ e sovra  il  morto  ci  pure 

Boccon  cadde,  e spirò  lungi  dai  campi 

Di  Larissa  fecondi:  nè  poteo 

Dell’ averlo  educato  ai  genitori 

Rendere  il  premio^  perocché  d’ Ajace 

La  gran  lancia  fe  brevi  i giorni  suoi. 

Contro  Ajace  l’acuta  asta  allor  trasse 
Ettore;  e l’altro,  visto  l’atto,  alquanto 
Dechinossi,  e schivolla.  Era  di  costa 
Schedio,  d’Ifito  generoso  figlio. 

Fortissimo  Focense  che  sua  stanza , 

Di  molta  gente  correttor,  tcnea 
Nell’  inclita  Panópe.  A mezza  gola 
Colpillo,  e tutta  al  sommo  della  spalla 


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*.  381.410  UBBO  XVII  38 1 

La  ferrea  punta  gli  passò  la  strozxa. 

Cadde  il  trafitto  con  fragore,  e cupo 
S'udl  dell’ armi  il  tuou  sopra  il  suo  petto. 

Àjace  di  rincontro  in  mezzo  all’epa 
Di  Fendpo  il  figUuol,  Porci,  percosse, 

Forte  guerrier  che  messo  alla  difesa 
D’Ippòtoo  s’era.  Il  furioso  ferro 
Ruppe  l’incavo  del  torace,  ed  alto 
Ne  squarciò  gl’intestini.  Ei  cadde,  e strinse 
Colla  palma  il  terrea.  Dier  piega  allora 
I primi  in  zuffa,  ripiegossi  ei  pure 
L’illnstire  Ettorre^  e con  orrende  grida 
D’Ippòtoo  e Porci  strascinàr  gli  Argivi 
Le  morte  salme,  e le  spogliar.  Compresi 
Di  viltade  i Trojani,  e dalle  greche 
Lance  incalzati  allor,  verso  le  rócche 
Sarìan  d’ilio  fuggiti,  e avrìan  gli  Argivi 
Contro  il  decreto  del  tonante  Iddio 
In  lor  solo  valor  vinta  la  pugna. 

Se  Apollo  a tempo  la  virtù  d’Enea 
Non  ridestava.  Le  sembianze  ei  prese 
Dell’Epitide  araldo  Perifante, 

Che  in  tale  officio  a molta  età  venuto 
Del  vecchio  Anchise  nelle  case,  istrutta 
Di  fedeli  consigli  avea  la  mente.  ' 

Cosi  cangiato,  a lui  disse  il  divino 
Figlio  di  Giove:  Enea,  l’eccelsa  Troja 
Contro  il  volere  degli  Dei  periglia: 

Chè  non  la  cerchi  di  salvar?  l’esemplo 
Chè  non  imiti  degli  eroi  eh’  io  vidi 
D’ogni  cimento  trionfar,  fidati 
Nel  vsJor,  nell’ ardir,  nella  fortezza 
Del  proprio  petto  e delle  molte  schiere 
Che  li  seguiano,  invitte  alla  paura  ? 

Più  che  agli  Achivi,  a noi  Giove  per  certo 
Consente  la  vittoria^  ma  chi  fugge 
Trepido  e schiva  di  pugnar,  la  perde. 

Fisse  a tai  detti  Enea  lo  sguardo  in  viso 
Al  saettante  nume,  e lo  conobbe; 

E,  d’Ettore  alla  volta  alzando  il  grido: 


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38a 


...  «1I.4C. 


n.(ADB  , 

Ettore,  ei  ditse,  e voi  degli  alleali 
Capitani  e de’ Teucri,  oh  qual  vergogna 
S’or  per  nostra  viltà  domi  dal  ferro 
De’  bellicosi  Achei  risaliremo 
D’Ilio  le  mura!  Un  Dio  m’apparve,  e disse 
Che  l’arbitro  dell’ armi  eterno  Giove 
Ne  difende.  Corriam  dunque  diritto 
All’inimico:  e almen  non  sia  che  il  morto 
Pàtroclo  ei  seco  ne  trasporti  in  pace. 

Al  6n  delle  parole  innanzi  a tutta 
La  prima  fronte  si  sospinse,  e stette. 

Si  conversero  i Teucri,  ed  agli  Achei 
Mostràr  la  faccia  arditamente.  Allora 
Coll’asta  Enea  Ledcrito,  figliuolo 
D’Arisbante,  ferì,  forte  compagno 
Di  Licomede  che  al  caduto  amico 
Pietoso  accorse;  e,  fattosi  vicino, 

Fermossi,  e la  fulgente  asta  vibrando, 
D’Ippaso  il  figlio,  Apisaon,  percosse 
Nell’  epate  di  sotto  alla  corata , 

E l’ atterrò.  Venuto  era  costui 
Dalla  fertil  Peonia,  ed  era  in  guerra 
n più  valente  dopo  Asteropéo. 

Senti  pietade  del  caduto  il  forte 
Asteropéo;  e di  zulTa  desioso 
Si  scagliò  tra  gli  Achei.  Ma  degli  scudi 
E dell’ aste  protese  ei  non  potea 
Rompere  il  cerchio  che  Patroclo  serra. 

E Ajace,  intorno  s’avvolgendo,  a tutti 
Molti  dava  comandi,  e non  patta 
Che  alcun  dal  morto  allontanasse  il  piede, 
O fuor  di  fila  ad  azzuffarsi  uscisse; 

Ma  fea  precetto  a ciaschedun  di  starsi 
Saldi  al  suo  fianco,  e battagliar  dappresso. 
Tal  dell’enorme  Ajace  era  il  volere, 

E tutta  in  rosso  si  tingea  la  terra. 

Teucri,  Argivi,  alleati  alla  rinfusa 
Cadon  trafitti;  chè  neppur  gli  Argivi 
Senza  sangue  combattono,  ma  n’esce 
Minor  la  strage;  perocché  l’un  l’altro 


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uno  XVII 


383 


•.  46i-5m 


Nel  travaglio  fatai  si  porge  aita. 

Cosi  qual  vasto  incendio  arde  il  conflitto; 

E del  Sol  detto  avresti  e della  Luna 
Spento  il  chiaror:  cotanta  era  sul  campo 
L’atra  caligo  che  dintorno  al  morto 
Patroclo  il  fiore  de’  guerrier  coprìa, 

Mentre  l’nil’  oste  e l’altra  a ciel  sereno 
Libera  altrove  combattea.  Su  questi 
Puro  si  spande  della  luce  il  fiume  ; ' 

Nessuna  nube  al  pian,  nessuna  al  monte.  ' 
Cosi  la  pugna  ha  i suoi  riposi;  e,  molto 
Spazio  correndo  tra  i pugnanti,  ognuno 
Dalle  mutue  si  scherma  aspre  saette.  ' / 
Ma  cotesti  di  mezzo  hanno  travaglio 
Dall’armi  a un  tempo  e dalla  nebbia,  e il  ferro 
1 più  prestanti  crudelmente  oflcnde.  ' ’ 
Sol  due  guerrieri  non  avean  per  anco  '■ 
Del  buon  Patróclo  la  ria  morte  udita. 

Due  guerrier  gloriosi,  Trasiméde 
E Antiloco;  ma  vivo  e tuttavolta 
Alle  mani  il  credean  co’ Teucri  al 'centro  I 
Della  battaglia.  E intanto  essi,  la  strage 
De’ compagni  veduta  e la  paura, 

Pugnavano  in  disparte;  e,  come  imposto 
Fu  lor  dal  padre,  dalle  negre  navi 
Tenean  lontano  le  nemiche  offese. 

Ma  il  conflitto  maggior  ferve  dintorno 
Al  valoroso  del  Pelide  amico. 

Terribile  conflitto,  e senza  posa  ' 

Fino  al  tramonto  della  luce.  A tutti 
Dissolve  la  stanchezza  e gambe  e piedi 
E ginocchia;  il  sudore  a tutti  insozza 
E le  mani  e la  faccia;  e quale,  allora 
Che  a robusti  garzoni  il  coreggiajo 
La  pingue  pelle  a rammollir  commette 
Di  gran  tauro;  disposti  essi  in  corona 
La  stirano  di  forza;  immantinente 
L’umidor  ne  distilla,  e l’adiposo 
Succo  le  fibre  ne  penétra,  e tutto 
A quel  molto  tirar  si  stende  il  cuojo; 


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384 


aiABE 


«'■  .S)  1*540 


Tale  in  piccolo  ipasio  i combattenti, 
Gareggiando,  traean  da  opposti  lati 
Il  cadarere:  questi  nella  speme 
Di  strascinarlo  entro  le  mura^  e quelli 
Alle  concare  navi.  Qgnor  più  fiera 
Sull’estinto  sorgea  quindi  la  zuffa 
Tal,  che  Marte,  dell’armi  eccitatore, 

Nel  vederla,  e Minerva  anche  nell’ira, 
Commendata  l’avria:  tanta  in  quel  giorno 
Di  cavalli  e d’eroi  Giove  difluse 
Sul  corpo  di  Patróclo  aspra  contesa. 

Nè  ancor  del  morto  amico  al  divo  Achille 
Giunt’era  il  grido;  perocché  di  molto 
Dalle  navi  lontana  ardea  la  pugna 
Sotto  il  muro  trojan;  nè  in  suo  pensiero 
Di  tal  danno  cadea  pure  il  sospetto. 

Spera  egli  anzi  che,  dopo  aver  trascorso 
Fino  alle  porte,  ei  tomi  illeso  indietro; 

Nè  ch’ei  possa  atterrar  d’ilio  le  mura 
Senza  sè  nè  con  sè  punto  s’ avvisa; 

Ghè  del  contrario  l’alma  genitrice 
Fatto  certo  l’avea,  quando  in  segreto 
A lui  di  Giove  riferia  la  mente; 

E il  fiero  caso'  occorso,  la  caduta 
Del  sno  diletto  amico  ora  gli  tacque. 

In  questo  d' abbassate  aste  lucenti 
E di  cozzi  e di  stragi  alto  trambusto 
Su  quell’ esangue,  dalla  parte  achea 
Gridar  s’ udia  : Compagni , è perso  il  nostro 
Onor,  se  indietro  si  ritorna.  A tutti 
S’apra  piuttosto  qui  la  terra;  è meglio 
Ir  nell’abisso,  che  ai  Trojani  il  vanto 
Lasciar  di  trarre  in  Ilio  una  tal  preda. 

E di  rincontro  i Troi:  Saldi,  o fratelli; 
Niun  s’arretri,  per  dio!  dovesse  il  fato 
Qui  su  l’estinto  sterminarci  tutti. 

Cosi  d’ambe  le  parti  ognuno  infiamma 
n vicino,  e combatte.  11  suon  de’ ferri 
Pe’  deserti  dell’  aria  iva  alle  stelle. 

D’Achille  intanto  i corridor,  veduto 


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r.  541^  Lnao  ZTii  385 

n loro  anriga  dall’ettórea  lancia 
Nella  polve  disteso,  allontanati 
Dalla  pugna  piangean.  Di  Dioréo 
Q forte  figlio,  Automedonte , invano 
Or  con  presto  flagello,  ora  con  blande 
Parole,  ed  ora  con  minacce  al  corso 
Gli  stimola.  Ostinati  essi  nè  vonno 
Alla  riva  piegar  dell’  Ellesponto , 

Nè  rientrar  nella  battaglia.  Immoti 
Come  colonna  sul  sepolcro  ritta 
Di  matrona  o d’eroe,  starsi  li  vedi 
Giunti  al  bel  carro  colle  teste  inchine, 

E dolorosi  del  perduto  auriga  > 

Calde  stille  versar  dalle  palpebre. 

Per  lo  giogo  difiiisa  al  suol  cadea 
La  bella  chioma,  e s’imbrattava.  11  pianto 
Ne  vide  il  6glio  di  Saturno;  c,  tocco  ‘ 

Di  pietà,  scosse  il  capo,  c così  disse: 

O sventurati!  perchè  mài  vi  demmo 
Ad  un  mortale,  al  re  Peléo,  non  sendo 
Voi  nè  a morte  soggetti  nè  a vccchieua? 

Forse  perchè  partecipi  de’  mali 
Foste  dell’uomo,  di  cui  nulla  al  mondo. 

Di  quanto  in  terra  ha  spiro  e moto,  eguaglia 
L’alta  miseria?  Ma  non  fia  per  certo 
Che  da  voi  sia  portato  e da  quel  cocchio 
Il  Priiàmide  Ettorre:  io  noi  consento. 

E non  basta  che  l’armi  ei  ne  possegga, 

E gran  vampo  ne  meni?  Or  io  nel  petto  > 
Metterovvi  e ne’  piè  forza  novella. 

Onde  fuor  della  mischia  a salvamento 
Adduciate  alle  navi  Automedonte; 

Ch’io  son  fermo  di  far  vittoriosi 
Per  anco  i Teucri  insin  che  fino  ai  legni 
Spingan  la  strage,  c il  Sol  tramonti,  c il  sacro 
Velo  dell’ ombre  le  sembianze  asconda. 

Cosi  detto,  spirò  tale  un  vigore 
Ne’ divini  corsicr,  che,  dalle  chiome 
Scossa  la  polve,  in  un  balen  portaro 
Fra  i Teucri  il  cocchio  c fra  gli  Achei.  Sublime 
Mosti.  Iliade.  a 5 


386 


ILUDE 


S8i>63« 


Combatteva  su  questo  Automedonte , 

Benché  dolente  del  compagno;  e,  a guisa 
D'avoltojo  fra  timidi  volanti, 

Stimolava  i cavalli.  Ed  or  Io  vedi 
Ratto  involarsi  dai  nemici,  cd  ora 
Impetuoso  ricacciarsi  in  mezzo, 

E le  turbe  inseguir;  ma  di  lor  nullo 
Nel  suo  corso  uccidea;  cbè  solo  in  cocchio 
Assalir  colla  lancia  e de’  cavalli 
Reggere  a un  tempo  non  potea  le  briglie. 
Videlo  alfine  un  suo  compagno,  il  figlio 
Dell'Emònio  Laerce,  Alcimedontc, 

Che  dietro  al  cocchio  si  lanciò  gridando  : 
Automedonte , e qual  de’  numi  il  senno 
Ti  tolse,  e il  vano  t’ispirò  consiglio 
D’assalir  solo  de’  Trojan  la  fronte? 

Il  tuo  compagno  è spento,  e l’esultante 
Ettore  l’armi  del  Pelide  indossa. 

E a lui  di  Diòrco  l’inclita  prole: 
Alcimedontc,  l’indole  di  questi 
Sempiterni  corsieri,  e di  domarli 
L’arte,  chi  meglio  tra  gli  Achei  l’intende 
Di  te  dopo  Patroclo  in  sin  che  visse? 

Or  che  questo  de’  numi  emulo  giace , 

Tu  prenditi  la  sferza  e le  lucenti 
Briglie,  ch’io  scendo  a guerreggiar  pedone. 

Spiccò  sul  cocchio  un  salto  a questo  invito 
Alcimedonte,  ed  alla  man  dié  tosto 
Il  flagello  e le  gtiidc,  e l’altro  scese. 
Avvisossene  Ettorre,  ed  al  propinquo 
Enea  rivolto  : I destrier  scorgo , ei  disse , 

Del  Pelide  tornar  nella  battaglia 
Con  fiacchi  aurighi.  Enea,  se  mi  secondi 
Gol  tuo  coraggio,  que’  destrier  son  presi. 

Non  sosterran  costoro  il  nostro  assalto. 

Nè  di  far  fronte  s’ ardiran.  — Sì  disse , 

Nè  all’invito  fu  lento  il, valoroso 
Germe  d'Anchise.  S’ avviar  diretti 
E rinchiusi  ambiduo  nelle  taurine 
Aride  targhe,  che  di  molto  ferro 


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p.  «iI-<i6o  LI»»»  XVII  387 

Splendean  coperte.  Mossero  con  essi 
Grdinio  ed  Àréto  di  beltà  divina, 

Con  grande  entrambi  di  predar  speranza 
Qne'  superbi  corsieri,  c al  suol  traCtti 
Lasciarne  i reggitor.  Stolti!  cbè  l’asta 
D'Automedonte  sanguinosa  avria 
Lor  preebo  il  ritorno.  Egli,  invocato 
Giove,  nell’imo  si  sentì  del  petto 
Correr  la  forza  e l’ ardimento.  Quindi 
All’amico  drizzò  queste  parole: 

Alcimedonte,  non  tener  lontani 
Dal  mio  fianco  i destrieri  fa  ch’io  ne  senta 
L’anelito  alle  spalle.  AI  suo  furore 
Ettore  modo  non  porrà,  mi  penso. 

Se  pria  d’Achille  in  suo  poter  non  mette 
I chiomati  destrier,  noi  due  trafitti, 

E sbaragliate  degli  Achei  le  file, 

0 se  tra’  primi  ei  pur  freddo  non  cade. 

Agli  Ajaci,  ciò  detto,  e a Menelao 

Ei  grida:  Ajaci,  Menelao,  lasciata 
Ai  più  prodi  del  morto  la  difesa, 

E il  rintuzzar  gli  ostili  assalti;  e voi 
Qua  correte  a salvar  noi  vivi  ancora. 

1 due  più  forti  eroi  trojani,  Ettorre 
Eid  Enea,  furibondi  a lagrimosa 
Pugna  vèr  noi  discendono.  L’evento 
Su  le  ginocchia  degli  Dei  s’asside. 

Sia  qual  vuoisi,  farò  di  lancia  un  colpo 
Io  pur:  del  resto  avrà  Giove  il  pensiero. 

Sì  dicendo,  e la  lunga  asta  vibrando. 

Ferì  d’Aréto  nel  rotondo  scudo. 

Cui  tutto  trapassò  speditamente 
La  ferrea  punta,  e , traforato  il  cinto. 

L’imo  ventre  gli  aperse.  A quella  guba 
Che  robusto  garzon,  levata  in  alto 
La  tagliente  bipenne,  fra  le  coma 
Di  bue  selvaggio  la  dechina,  e,  tutto 
Tronco  il  nervo,  la  belva  morta  cade; 

Tal,  dato  un  salto,  supin  cadde  Aréto, 

E tra  le  rotte  viscere  l’acuta 


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388 


ILIADE 


V.  06|'7Oo 


Asta  tremando  gli  rapì  ]a  vita. 

Fc  contra  Automedontc  Ettore  allora 
La  sua  lancia  volar;  ma^  visto  il  colpo, 
Quegli  curvossi,  c la  schivò.  Gli  rase 
Le  terga  il  telo,  e al  suol  piantossi;  il  fusto 
Tremonnc;  c,  quivi  ogn’ impeto  consunto, 
La  valid’asta  s'acchetò.  Qui  tratte 
Le  fiere  spade  a più  serrato  assalto 
I due  prodi  vcnian,  se  quegli  ardenti 
Spirti  repente  non  spartian  gli  Ajaci 
D'Automcdonte  accorsi  alla  chiamata. 

Venir  li  vide  fi'a  la  turba  Ettorre, 

E con  Crómio  di  nuovo  e con  Enea 
Paventoso  arrctrossi,  il  lacerato 
Giacente  Aréto  abbandonando.  Corse 
Sull’esangue  il  veloce  Automedonte, 
DispoglioUo  dell’ armi,  e,  gloriando. 

Gridò:  Non  vale  costui  certo  il  figlio 
Di  Menézio;  ma  pur  del  morto  eroe 
Questo  ucciso  mi  tempra  alquanto  il  lutto. 

Sì  dicendo,  gittò  le  sanguinose 
Spoglie  sul  carro;  e,  tutto  sangue  ei  pure 
Mani  e piè,  vi  salia  pari  a lìone 
Che,  divorato  un  toro,  si  riusciva. 

Aflannosa,  arrabbiata  e lagrimosa 
Sovra  la  salma  di  Patròclo  intanto 
Si  rinforza  la  pugna,  e la  raccende 
Palla  Minerva,  ad  animar  gli  Achivi 
Dall’Olimpo  discesa;  e la  spedia. 

Cangiato  di  pensiero,  il  suo  gran  padre. 
Come  quando  dal  ciel  Giove  ai  mortali 
Dell’Iride  dispiega  il  porporino 
Arco,  di  guerra  indizio  o di  tempesta, 

Che  tosto  de’ villani  alla  campagna 
Rompe  i lavori,  e gli  animai  contrista; 

Tal  di  purpureo  nembo  avviluppata 
Insinuossi  fra  gli  Achei  la  Diva, 

Eccitando  ogni  cor.  Prima  il  vicino 
Minore  Atridc  a confortar  si  diede; 

E,  la  voce  sonora  c la  sembianza 


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LIBRO  XVII 


389 


».  701-740 

Di  Fenice  prendendo,  così  disse: 

Se  sotto  Troja  sbraneranno  i cani 
Dell’ illustre  Pelidc  il  fido  amico, 

Tua  per  certo  fia  l’onta,  o Menelao, 

E tuo  Io  scorno.  Orsù^  tien  forte,  c tutti 
A ben  le  mani  oprar  sprona  gli  Achei. 

Veglio  padre  Fenice,  gli  rispose 
L’egregio  Atride,  a Pallade  piacesse 
Darmi  forza  novella,  e dagli  strali 
Preservarmi:  e farei  per  la  tutela 
Di  Patroclo  ogqi  prova.  Il  cor  mi  tocca 
La  sua  caduta 4 ma  l’ardente  orrenda 
Forza  d’Ettor  n’  ò contrae  ei  dalla  strage 
Mai  non  rimansi,  e d’onor  Giove  il  copre. 

Gioì  Minerva  dell’ udirsi,  pria 
D’ogni  altro  iddio,  pregata^  ed  alla  destra 
Polso  gli  aggiunse  e al  piede,  c dentro  il  petto 
L’ardir  gli  mise  dell’impronta  mosca, 

Che,  ognor  cacciata,  ognor  ritorna  e morde 
Ghiotta  di  sangue.  Di  cotal  baldanza 
Pieno  il  torbido  cor,  ratto  a Patròclo 
Appressassi,  e scagliò  la  fulgid’asta. 

Era  fra’  Teucri  un  certo  Pode , un  ricco 
D’Eezione  valoroso  figlio 
In  alto  onor  per  Ettore  tenuto, 

E suo  diletto  commensal.  Lo  colse 
Il  biondo  Atride  nella  cinta  in  quella 
Gh’ei  la  fuga  prendea.  PassoUo  il  ferro 
Da  parte  a parte,  e con  fragor  lo  stese. 
Mentre  vola  sul  morto,  e a’ suoi  lo  traggo 
L’altero  vincitor,  calassi  Apollo 
D’Ettore  al  fianco;  ed  il  sembiante  assunto 
Dell’Asiade  Fenòpo,  a lui  diletto 
Ospite  un  tempo  e abitator  d’Abido, 

Questa  rampogna  gli  drizzò:  Chi  fia 
Che  tra  gli  Achivi  in  avvenir  ti  tema. 

Se  un  Menelao  ti  fuga  e ti  spaventa. 

Un  Menelao  finor  tenuto  in  conto 
Di  debile  guerriero,  e ch’or  da  solo 
Di  mezzo  ai  Teucri  via  si  porti  il  fido 


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390  ILIADE  ». 

Tuo  compagno  da  luì  tra  i primi  ucciso, 
Pode,  io  dico,  figliuol  d’Eezione? 

Un  negro  di  dolor  velo  coperse 
A quell’annunzio  dell’eroe  la  fronte. 

Corse  ei  tosto,  e cacciossi  innanzi  a tutti 
Folgorante  nell’armì.  Allor,  di  nubi 
Tutta  fasciando  la  montagna  idèa, 

Giove  in  man  la  fiammante  egida  prese, 

La  scosse^  c,  (ira  baleni  orrendamente 
Tonando,  ai  Teucri  di  vittoria  il  segno 
Diò  tosto,  e sparse  fra  gli  Achei  la  fuga. 
Primo  a fuggir  fu  de’ Beoti  il  duce, 

Penelèo,  di  leggier  colpo  di  lancia 
Ferito  al  sommo  della  spalla,  mentre 
Tenea  vòlta  la  fronte;  il  ferro  acuto 
Lo  gra£Sò  fino  all’osso,  e il  colpo  venne 
Dalla  man  di  Polidama,  ebe  sotto 
Gli  si  fece  improvviso.  Ettore  poscia 
Al  carpo  dèlia  man  colse  Leito, 

Germe  del  prode  Alettrìone,  e il  fece  , 
Dalla  pugna  cessar.  Si  volse  in  fuga, 
Guatandosi  dintorno  sbigottito. 

Il  piagato  guerrier,  nè  più  sperava 
Poter  col  telo  nella  destra  infisso 
Combattere  co’  Troi.  Mentre  si  scaglia 
Contra  Leito  il  feritor,  gli  spinge  - 
Idomenèo  dappresso  alla  mammella 
Nell’usbergo  la  picca;  ma  si  franse 
Alla  giuntura  della  ferrea  punta 
11  frassino,  e n’ urlar  di  gioja  i Teucri. 
Rispose  al  colpo  Ettorre,  e il  Deucalidc 
Stante  sul  carro  saettò.  D’un  pelo 
Lo  fallì;  ma  Ceran,  scudiero  e auriga 
Di  Mcrì'on,  colpio.  Venuto  egli  era 
Dalla  splendida  Litto  in  compagnia 
Di  Merione,  che  di  questa  guerra 
Al  cominciar,  sue  navi  abbandonando, 
Venne  ad  Ilio  pedone,  e di  sua  morte 
Avria  qui  fatto  gloriosi  i Teucri, 

Se  co’  pronti  destrieri  in  suo  soccorso 


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r.  78i-8m>  libro  XVII  3^1 

Non  accorrea  Cerano.  Ei  del  sno  dace 
Campò  la  vita,  ma  la  propria  pèrse 
Per  le  mani  d’Ettór.  L'asta  al  confine 
Della  gota  lo  giunse  e dell’orecchia, 

E conquassógli  le  mascelle,  e mezza 
La  lingua  gli  tagliò.  Cadde  dal  carro 
Quell’infelice:  abbandonate  al  suolo 
Si  diifuser  le  briglie,  che  veloce 
Curvo  da  terra  Meri’on  raccolse, 

E vólto  a Idomenèo:  Sferza,  gli  grida. 

Sferza,  amico,  i cavalli,  e-  al  mar  ti  salva ^ 

Chè  per  noi  persa,  il  vedi,  è la  battaglia. 

Si  disse;  e l’altro,  costernato  ei  pure. 

Verso  le  navi  flagellò  le  groppe 

De’ chiomati  destrier.  Scórsero  anch’essi 

Il  magnanimo  Àjace  e Menelao, 

Che  Giove  ai  Teucri  concedea  l’onoro 
Dell’alterna  vittoria;  onde  proruppe 
In  questi  accenti  il  gran  Telamonide: 

Anche  uno  stolto,  per  mia  fc,  vedria 
Che  pe’ Teucri  sta  Giove:  ogni  lor  strale. 

Sia  vii,  sia  forte  il  braccio  che  lo  spinge. 

Porta  ferite,  c il  Dio  li  drizza.  I nostri 
Van  tutti  a vóto.  Nondimen  si  pensi 
Qualche  sano  partito,  un  qualche  modo 
Di  salvar  quell’estinto,  e di  tornarci 
Salvi  noi  stessi  a rallegrar  gli  amici. 

Che  con  gli  sguardi  qua  rivolti  e mesti 
Stiman  che  lungi  dal  poter  le  invitte 
Mani  d’Ettorre  sostener,  noi  tutti 
Cadrem  morti  alle  navi.  Oh  fosse  alcuno 
Qui,  che  ratto  portasse  al  grande  Achille 
Del  periglio  l’avviso!  A lui,  cred’io, 

Ancor  non  giunse  dell’ucciso  amico 
La  funesta  novella;  c tra  gli  Achei 
Ancor  non  veggo  al  doloroso  ufficio 
Acconcio  ambasciator  : tanta  nasconde 
Caligine  i cavalli  e i combattenti. 

Giove  padre,  deh!  togli  a questo  bujo 
I tigli  degli  Achei;  spandi  il  sereno; 


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3ga  ILIADE  , 

Rendi  agli  occhi  il  vedere^  e,  poiché  spenti 
Ne  vuoi,  ci  spegni  nella  Ince  almeno. 

Cosi  pregava.  Udillo  il  Padre;. e,  visto 
Il  pianto  dell’eroe,  si  fe  pietoso, 

E,  rimossa  la  nebbia , in  un  baleno 
Il  bujo  dissipò.  Rifulse  il  Sole, 

E tutta  apparve  la  battaglia.  Ajace 
Disse  allora  airAtridc:  Or  guarda  intorno, 
Diletto  Menelao;  vedi,  se  trovi 
Di  Nèstore  ancor  vivo  il  forte  figlio. 
Antiloco,  e di  volo  al  grande  Achille 
Nunzio  del  fato  del  suo  caro  il  manda. 

Mosse  pronto  a quei  detti  il  generoso 
Atride,  e s’avviò  come  lionc 
Che  il  bovile  abbandona  lasso  e stanco 
D’ azzuffarsi  co’  veltri  e co’  pastori 
Tutta  la  notte  vigilanti,  c il  pingue 
Lombo  de’ tori  a contrastargli  intesi; 

Àvido  delie  carni  egli  di  fronte 
Tuttavolta  si  slancia,  c nulla  acquista; 

Chè  dalle  ardite  mani  una  ruina 
Gli  vien  di  strali  addosso  c di  facellc, 

Dal  cui  lustro  atterrito  égli  rifugge, 

Benché  furente,  finché  mesto  alfine 
Sul  mattin  si  rimbosca.  A questa  guisa 
Di  mal  cuore  da  Patroclo  si  parte 
Il  bellicoso  Menelao,  la  tema 
Seco  portando  che  gli  Achei,  compresi 
Di  soverchio  tcrror,  preda  al  nemico 
Noi  lascino,  fuggendo.  Onde  con  molti 
Preghi  agli  Ajaci  c a Meri'on  rivolto: 

Duci  argivi,  dicea,  deh!  vi  sovvenga 
Quanto  fu  hello  il  cor  dell’infelice 
Patroclo,  e come  mansueto  ei  visse. 

Ahi!  visse;  e in  braccio  alla  ria  Parca  or  giace. 

Parti,  ciò  detto,  riguardando  intorno 
Com’ aquila  che  sopra  ogni  volante 
Aver  acuta  la  pupilla  é grido, 

E che,  dall’ alte  nubi  infra  le  spesse 
Chiome  de’ cespi  discoperta  avendo 


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86i^  LIMO  XVII 

La  presta  lepre,  su  lei  piomba,  e ratto 
La  ghermisce  e l'uccide.  E tu  del  pari, 

0 da  Giove  educato  illustre  Àtride, 

D’ogni  parte  volgevi  i fulgid’ occhi 
Fra  le  turbe  de' tuoi,  vivo  spiando 

Di  Nestore  il  buon  figlio.  Alla  sinistra 
Àlfin  lo  vide  della  pugna  in  atto 
Di  far  cuore  ai  compagni  e rinfiammarli 
Alla  battaglia.  Gli  si  fece  appresso, 

C con  ratto  parlar:  Vieni,  gli  disse; 

Vieni,  Anbloco  mio:  t' annunzio  un  fiero 
Doloroso  accidente;  e oh!  mai  non  fosse 
Intervenuto.  Un  Dio,  tu  stesso  il  senti, 

1 Dànai  strugge,  e i Teucri  esalta:  è morto 
Un  fortissimo  Aebeo  ch'alto  ne  lascia 
Desiderio  di  sè;  morto  è Patrdclo. 

Corri;  avvisa  il  Peb'de,  e fa  che  voli 
A trame  in  salvo  il  nudo  corpo:  l'armi 
Già  venute  in  bah'a  sono  d'Ettorre. 

All'annunzio  crudel  muto  d'orrore 
Antfioco  restò:  di  pianto  un  fiume 
Gli  affogò  le  parole;  e nondimeno. 

L'armi  in  fretta  rimesse  al  suo  compagno 
Laòdoco,  che  fido  a lui  dappresso 

I destrier  gli  reggea,  corse  d'Atride 

II  cenno  ad  eseguir.  Piangea  dirotto, 

E volava  l’eroe  fuor  della  pugna. 

Nunzio  ad  AcUille  della  rea  novella. 

Del  dipartir  d’ Antiloco  dolenti 
E bramose  di  lui  le  pilie  schiere 
In  perigUo  restàr;  nè  tu  potendo 
Dar  loro  aita,  o Menelao,  mettesti 
Alla  lor  testa  il  generoso  duce 
Trasimède,  e di  nuovo  alla  difesa 
Del  morto  eroe  tornasti;  e,  degli  Ajaci 
Giunto  al  cospetto,  sostenesti  il  piede, 

E dicesti  : Alle  navi  io  l’ ho  spedito 
Verso  il  Pelide;  ma  eh’ ci  pronto  or  vegna. 
Benché  crucciato  con  Ettòr,  noi  credo; 

Che  per  conto  verun  non  fia  ch’ei  voglia 


394 


IIUDE 


r.  901-9^ 


Pugnar  co’  Teucri  disarmato.  Or  dunque 
La  miglior  guisa  risolviam  noi  stessi 
Di  sottrarre  al  furor  dell’inimico 
Quell’estinto,  c campar  le  proprie  vite. 

Saggio  parlasti,  o Menelao,  rispose 
n grande  Ajace  Telamdnio.  Or  tosto 
Tu  dunque  e Merion  sotto  all’esangue 
Mettetevi,  e sul  dosso  alto  il  portate 
Fuor  del  tumulto:  frenerem  da  tergo 
Noi  de’Trojani  e d’Ettore  l’assalto. 

Noi  elle  pari  di  nome  e d’ardimento 
La  pugna  uniti  a sostener  siam  usi. 

Disse^  e quelli  da  terra  alto  levaro 
Il  morto  tra  le  braccia.  A cotal  vbta 
Urlò  la  troica  turba,  c difilossi 
Furibonda,  di  cani  a simiglianza 
Che,  precorrendo  i cacciator,  s’avventano 
A ferito  cinghiai,  desiderosi 
Di  farlo  in  brani^  ma  se  quei  repente 
Di  suà  forza  securo  in  lor  converte 
L’orrido  grifo,  immantinente  tutti 
Dan  volta,  e per  terror  piglian  la  foga 
Chi  qua  spersi,  chi  là;  tali  i Trojani 
Inseguono  attnippati  il  fuggitivo 
Stuol,  coll’ aste  il  pungendo  e colle  spade. 
Ma  come  rivolgean  fermi  sui  piede 
Gli  Ajaci  il  viso,  di  color  cangiava 
L’inseguente  caterva,  e non  ^rdia 
Niun  farsi  avanti,  e dbputar  l’estinto, 
Che  di  mezzo  al  conflitto  audacemente 
Venia  portato  da  quei  forti  al  lido. 
Benché  fiera  su  lor  crescca  la  zufla. 

Come  fuoco  che  involve  all’improvviso 
Popolosa  cittade,  e ruinosi 
Sparir  fa  i tetti  nella  vasta  fiamma. 

Che  dal  vento  agitata  esulta  e rogge; 
Tale  alle  spalle  dell’achco  drappello 
De’  guerrieri  incalzanti  e de’  cavalli 
Rimbombava  il  tumulto.  E a quella  guisa 
Che  per  aspero  calle  giù  dal  monte 


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Limo  XVII 


395 


r.  9(i-<)65 

Traggon  due  muli  di  robusta  lena 
O trave  0 antenna  da  volar  sull’onda, 

E di  sudore  infranti  e di  fatiea 
Studian  la  via;  del  par  que’  due  gagliardi 
Portavano  affandati  il  tristo  incareo, 

Difesi  a tergo  dagli  Ajaci.  E quale 
Steso  in  larga  pianura  argin  selvoso 
De’  fiumi  aifrena  il  violento  eorso , 

E respinta  devolve  per  Io  chino 
L’onda  furente  che  spezzar  noi  puote; 

Cosi  gli  Ajaci  l’ irruente  piena 
Rispingono  de’  Troi  che  tuttavolta 
Gl’ inseguono  ristretti,  Enea  tra  questi 
Principalmente,  e il  non  mai  stanco  Ettorre. 
Con  quell’alto  strider  che  di  mulacchie 
Fugge  una  nube  o di  stomei,  vedendo 
Venirsi  incontro  lo  sparvier  che  strage 
Fa  del  minuto  volati'o;  con  tali 
Acute  grida  innanzi  alla  ruina 
De’  due  trojani  eroi  foggia  dispersa 
La  turba  degli  Achei,  posto  di  pugna 
Ogni  pensier.  Di  belle  armi,  cadute 
Ai  fuggitivi,  ingombra  era  la  fossa, 

E della  fossa  il  margo:  e il  faticoso 
Lavor  di  Marte  non  avea  respiro. 


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LIBRO  DECIMQTTAVO 


ARGOMENTO 


AatSoco  ipMiBtli  aJ  AdtìD#  la  morta  di  Patroclo.  Di^vratìone  ddl'rroa.  Tclìdc  eaar  del 
mare  par  eeakiolarto.  CfU  tqoI  rarme  al  campo  per  Tindicare  T amira.  La  madre  lo  «aorta  a 
mpraiaedarr»  badA  «Sa  noo  gli  aUàa  rarata  una  noora  armatttn.  1 Gied  aooo  in  pivicinto  di 
pardbi*  il  corpo  di  Patroclo.  AchiDa*  cooùgliato  da  GtttoODe,  ch«  a lui  ^wdiare  Iride  ^ «a 
moatn  ìaerm*  sul  mar|in«  della  liaiaa  » ed  i Troiani  tono  compreai  di  tcrrorr.  Il  cadame  h 
poeto  w aaleo.  La  notta  OMita  Sm  elb  pu^.  Parlamento  dei  Trojani,  dia  riiolaono  di  rt« 
MancTT  mi  campo.  Lamenti  d’Arkille.  Tctide  ai  premnta  a Vulcaoo,  a Io  eupplica  di  (àlibri- 
cnrl»  «tt'anoativj  pd  i^Uo.  Deacrìiiona  drOo  scudo.  Tctida  dÌKrode  dall*  Olimpo, 
ad  AclùBa  b anni. 


Tutta  oosi  qual  fiamma  arde  la  pugna. 
Veloce  messaggter  correa  frattanto 
Antiloco  ad  AchUle.  Anzi  all'  eccelse 
Sue  nari  il  trova,  che  nel  cor  già  volge 
L'  accaduto  disastro,  e,  nel  segreto 
Della  grand'  alma  sospirando , dice  : 

Perchè  di  nuovo,  ohimè!  verso  le  navi 
Fuggon  gli  Achivi  con  tumulto,  c vanno 
Spaventati  pel  campo?  Ah!  non  mi  compia 
L’ ira  de’  numi  la  crudel  sventura 
Che  un  di  la  madre  profetò,  narrando 
Che,  me  vivente  ancor,  de' Miianidóni 
Il  più  prode  gucrrier  dai  Teucri  ucciso 
Del  Sol  la  luce  abbandonato  avria. 

Ah!  certo  di  Menézio  il  forte  figlio 
Mori.  Infelice!  E pur  gl' imposi  io  stesso. 
Che,  risospinta  la  nemica  fiamma. 
Ritornasse  alle  navi,  e con  Ettorrc 
Cimentarsi  in  battaglia  oso  non  fosse. 

In  fjuesto  rio  pensier  1'  aggiunse  il  figlio 


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9.  at»Oo 


aiADB,  LIBBO  ITIII  ÌQ'J 

Di  Nèstore,  piangendo;  c:  Ohimè!  gli  disse, 
Magnanimo  Pelide;  una  novella 
Tristissima  ti  reco,  e che  noi  fosse 
Oh  piacesse  agli  Dei!  Giace  Patrdclo; 

Sul  cadavere  nudo  si  combatte; 

Nudo;  chè  l’armi  n’ha  rapito  Ettorre. 

Una  negra  a que’  detti  il  ricoperse 
Nube  di  duol;  con  ambedue  ^e  pugna 
La  cenere  afferrò;  giù  per  la  testa 
La  sparse,  e tutto  ne  bruttò  il  bel  volto- 
E la  veste  odorosa.  Ei  col  gran  corpo 
In  grande  spazio  nella  polve  steso 
Giacca,  turbando  colle  man  le  chiome, 

E stracciandole  a ciocche.  Al  suo  lamento 
Accorsero  d’Achille  e di  Patroclo 
L’addolorate  ancelle,  e con  alti  urli 
Si  fèr  dintorno  al  bellicoso  eroe, 

Pcrcotendosi  il  seno;  e ciasceduna  ' 

Sentia  mancarsi  le  ginocchia  e il  core. 

Dall’  altra  parte  Antiloco  pietoso , 

Lagrimando  dirotto  , e di  cordoglio 
Spezzato  il  petto,  rattenea  d’Achille  ' 

Le  terribili  mani,  onde  col  ferro 
Non  si  squarciasse  per  iuror  la  gola. 

Udì  del  figlio  l’ululato  orrendo 
La  veneranda  Teti  che  del  mare 
Sedea  ne’  gorghi  al  vecchio  padre  accanto. 

Mise  un  gemito;  e tutte  a lei  dintorno 
Si  raccolser  le  Dee,  quante  ne  serra 
Il  mar  profondo,  di  Neréo  figlinole, 

Glauce,  Tab'a,  Gimddoce,  Nesèa 
E Spio  vezzosa  e Toe  ed  Alie,  bella 
Per  bovine  pupille,  e la  gentile 
Cimótoe  ed  Attéa;  quindi  Melite 
E Limnória  e Anfitòe,  Jera  ed  Agave, 

Doto,  Proto,  Ferusa  e Dinamena 
E Desamena  ed  Amfindma,  c seco 
Calbanira  e Dori  c Panopéa, 

E sovra  tutte  Galatèa  famosa. 

V*  era  Apscude  c Nemcrte  e con  Janira 


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398 


tLIADE 


V.  6i*ioo 


Callianassa  ed  ìanassa*,  alfine 
L’ alma  Glimene  e Mera  ed  Oritia 
Ed  Àmatéa  dall'  anree  trecce,  ed  altre 
Nereidi  dell’  onda  abitatrici. 

Tutto  di  lor  fu  pieno  in  un  momento 
11  crutallino  speco , e tutte  insieme 
Batteansi  il  petto,  allorché  Teti  in  mezzo 
Tal  diè  princl{)io  al  lamentar:  Sorelle, 

M’ udite,  e quanto  è il  mio  dolor  vedete. 
Ohimè  miserai  ohimè  madre  infelice 
Di  fortissima  prole!  Io  generai 
Un  valoroso  incomparabil  figlio,  ■ 
n più  prestante  degli  eroi:  lo  crebbi. 

Lo  coltivai  siccome  pianta  eletta 
In  fertile  terrena  poscia  ne’  campi 
D’ Ilio  lo  spinsi  su  le  navi  io  stessa 
A pugnar  co’  Trojani.  Ahi  che  m’  è tolto 
L’ abbracciarlo  tornato  alla  paterna 
Reggia!  e finch’  egli  all’  amor  mio  pur  vive. 
Fin  che  gli  è dato  di  fruir  la  luce, 

Di  tristezza  si  pasce  ^ ed  io,  comunque 
A lui  mi  rechi,  sovvenir  noi  posso. 
Nondimeno  v’andrò;  del  caro  figlio 
Vedrò  l’aspetto,  e intenderò  qual  duolo 
Dalla  guerra  lontano  il  cor  gl’  ingombra. 

Usci,  ciò  detto,  dallo  speco,  e quelle, 
Piangendo,  la  seguir:  l’onda  ai  lor  passi 
Riverente'  s’ apn'a.  Come  di  Troja 
Attinsero  le  rive,  in  lunga  fila 
Eimersero  sul  lido,  ove  frequenti 
Le  mirmiddnie  antenne  in  ordinanza 
Facean  selva  e corona  al  grande  Achille. 

A lui,  che  in  gravi  si  struggea  sospiri. 

La  diva  madre  s’  appressò , proruppe 
In  acuti  ululati;  ed  abbracciando 
L’amato  capo,  c lagrimando,  disse: 

Figlio,  che  piangi?  Che  dolore  è questo? 
Noi  mi  celai-;  deh  pai-la  ! A compimento  ' 
Mandò  pur  Giove  il  tuo  pregar:  gli  Achivi 
Son  pur , siccome  supplicasti , astretti 


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V.  lOl'I^O 


LIBRO  XVIII 


399 


Ripararsi  alle  navi , e del  tuo  bi-accio 
Aver  mesliero,  di  sciagure  oppressi. 

Con  un  forte  sospir  rispose  Achille: 

O madre  mia,  ben  Giove  a me  compiacque 
Ogni  preghiera;  ma  di  ciò  qual  dolce 
Me  ne  procede,  se  il  diletto  amico. 

Se  Patroclo  è 'già  spento?  Io  lo  pregiava 
Sovra  tutti  i compagni;  io  di  me  stesso 
Al  par  r amava , ahi  lasso  le  l’ ho  perduto  : 
L’uccise  Ettorre,  e lo  spogliò  dell’ armi. 

Di  quelle  grandi  e belle  armi,  a vedersi 
Maravigliose , che  gli  eterni  Dei, 

Dono  illustre,  a Pelòo  diero  quel  giorno 
Che  te  nel  letto  d’ un  mortai  locaro. 

Oh  fossi  tu  dell’  Oceàn  rimasta 
Fra  le  divine  abitatrici,  e stretto 
Peléo  si  fosse  a una  mortai  consorte! 

Chè  d’ infinita  angoscia  il  cor  trafitto 
Or  non  avresti  pel  morir  d’  un  figlio 
Che  alle  tue  braccia  nel  paterno  tetto 
Non  tornerà  più  mai;  poiché  il  dolore 
Nè  la  vita,  nò  d’  uom  più  mi  consente 
La  presenza  soffrir,  se  prima  Ettorre 
Dalla  mia  lancia  non  cade  trafitto , 

£ di  Patroclo  non  mi  paga  il  fio. 

Figlio,  noi  dir  (riprese,  lagrimando. 

La  Dea),  non  dirlo;  chè  tua  morte  aifreUi: 
Dopo  quello  d' Ettòr  pronto  è il  tuo  fato. 

Lo  sia  ( con  forte  gemito  interruppe 
L’addolorato  eroe);  si  muoja,  e tosto, 

Se  giovar  mi  fu  tolto  il  morto  amico. 

Ahi  che  lontano  dalla  patria  terra 

11  misero  peri,  desideroso 

Del  mio  soccorso  nella  sua  sciagm-a! 

Or  poiché  il  fato  riveder  mi  vieta 
Di  Ftia  le  care  arene,  ed  io  crudele 
Nè  Patroclo  a'itai  nè  gli  altri  amici, 

De’quai  molti  domò  1’  ettòrea  lancia. 

Ma  qui  presso  le  navi  inutil  peso 
Della  terra  mi  seggo,  io  fra  gli  Achei 


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4oo 


aUDB 


».  i.)t-i8o 


Nel  travaglio  dell^  armi  il  più  posientc , 
Benché  me  di  parole  altri  pur  vinca. 

Pera  nel  eor  de'  numi  e de'  mortali 
La  discordia  fatai,  pera  lo  sdegno 
Ch'  anco  il  più  saggio  a inferocir  costrigne, 
Che  dolce  più  che  miei  le  valorose 
Anime  investe  come  fumo  e cresce. 

Tal  si  fu  l' ira  che  da  te  mi  venne , 
Agamennón.  Ma  su  1'  andate  cose , 

Benché  ne  frema  il  cor,  l' ohhlio  si  sparga , 

£ l' alme  in  sen  necessità  ne  domi. 

Del  caro  capo  l' uccisore  Ettorre 

Or  si  corra  a trovar;  poi  quando  a Giove 

E agli  altri  Eterni  piacerà  mia  morte. 

Venga  pur,  eh'  io  1’  accetto.  Il  forte  Alcide, 
Dilettissimo  a Giove  e suo  gran  figlio, 

Alcide  stesso  vi  soggiacque,  domo 
Dalla  Parca  e dall'aspra  ira  di  Giono. 

Cosi  pur  io,  se  fato  ugual  m'aspetta. 

Estinto  giacerò.  Questo  frattanto 
Tempo  è di  gloria.  Sforzerò  qualcuna 
Delle  spose  di  Dàrdano  e di  Troe 
Ad  asciugar  con  ambedue  le  mani 
Giù  per  le  guance  delicate  il  pianto, 

E a trar  dal  largo  petto  alti  sospiri. 

Sappiano  alGn  che  il  braccio  mio  dall’  armi 

Abbastanza  cessò;  né  dalla  pugna 

Tu,  madre,  mi  sviar;  ché  indarno  il  tenti. 

E a lui  la  Diva  dall’  argenteo  piede: 
Giusta,  o figlio,  é l’impresa  e d'  onor  degna, 
Campar  da  scempio  i travagliati  amici. 

Ma  le  tue  scintillanti  armi  divine 
Son  fra’Trojani;  ed  Ettore,  quel  fiero 
Dell’  elmo  crollator,  sen  fregia  il  dosso, 

E dell’  incarco  esulta.  Ma  fia  breve. 

Lo  spero,  il  suo  gioir;  ché  negra  al  fianco 
Già  l’ incalza  la  Parca.  Or  tu  di  Marte 
Per  anco  non  entrar  nel  rio  tumulto. 

So  tu  qua  pria  venir  non  mi  riveggia. 

Verrò  dimani  al  raggio  mattutino, 


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r.  I Si  alo  LIBRO  XVIII  1(0  I 

' E recherotti  io  (teisa  una  forbita 
Bella  armatura,  di  Vulcan  lavoro. 

Cosi  detto,  dal  Cglio  alle  sorelle 
Ripiegò  la  persona^  e:  Voi,  soggiunse. 

Rientrate  del  mar  nell' ampio  grembo, 

E del  marino  genitor  canuto 
Rendetevi  alle  case,  e tutto  dite 
Che  vedeste  ed  udiste.  Al  grande  Olimpo 
Io  salgo  a ritrovar  l’ inclito  fabbro  . 

Vulcano,  e il  pregherò  che  luminose 
Armi  stupende  al  figlio  mio  conceda. 

Disse  ^ e quelle  del  mar  tosto  nell'  onde 
Discesero , e la  Dea  dal  piò  d'  argento 
Awiossi  all’  Olimpo  a procacciarne 
Al  diletto  figliuolo  armi  divine. 

Mcntr’ ella  al  ciel  salia,  con  urlo  immenso 
Dal  sanguinoso  Ettor  cacciati  in  fuga 
Giunsèr  gli  Achivi  delle  navi  al  vallo 
E al  mugghiante  Ellesponto.  E non  ancora 
Del  compagno  achillèo  la  morta  spoglia 
Al  nembo  degli  strali  avean  sottratta 
Gli  argólici  guerrieri.  Un'altra  volta 
Fiero  assalto  le  dava  una  gran  serra 
Di  cavalli  e di  fanti,  e innanzi  a tutti 
Di  Priamo  il  figlio , l' indefesso  Ettorre 
Che  una  fiamma  parca.  Tre  volte  il  prode. 

Per  li  piedi  il  cadavere  afferrando. 

Provò  di  trarlo,  e con  orrenda  voce 
I Trojani  chiamò^  tre  volte  i due 
Impetuosi  e vigorosi  Ajaci 
Rcspinscrlo  dal  morto.  E nondimeno 
Saldo  e securo  in  sua  fortezza  or  dentro 
Nella  turba  ci  s'avventa,  ed  or  s’arresta, 

E con  gran  voce  tuttavia  pur  grida. 

Nè  d’  un  passo  s’  arretra.  E qual  di  nulle 
Vigilanti  pastori  alla  campagna 
Da  preso  tauro  allontanar  non  ponuo 
Affamalo  hon^  cosi  de’ forti 
Ajaci  la  virtù  da  quell’  esangue 
Dispiccar  non  polca  l’ardilo  Ettorre. 

Morii.  Ilùulc.  jO 


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ILIADE 


f\0% 


£ 1’  avria  tratto  alfine  c conseguita 
Immensa  gloria,  s' Iride  veloce, 

A Giove  occulta  e a ogni  altro  iddio,  dall'alto 
Olimpo  non  correa  col  vento  al  piede 
Messaggiera  ad  Achille;  e la  spedia. 

Per  eccitarlo  alla  battaglia,  il  cenno 
Dell'  augusta  Giunon.  Gli  parve  al  fianco 
Improvvisa  la  Diva,  c questi  accenti 
Fc  dal  labbro  volar:  Sorgi,  Pelide, 

Terribile  guerriero,  c di  Patroclo 
Il  cadavere  salva.  Intorno  a lui 
Ferve  avanti  alle  navi  orrida  pugna 
Con  mutue  stragi.  lu  sua  difesa  i Greci 
Fan  che  puossi:  per  trarlo  in  Ilio  i Teucri 
S' avventano  di  punta.  Il  fiero  Ettorrc 
Innanzi  a tutti  di  rapirlo  agogna. 

Bramoso  di  mozzar  dal  dilicato 
Collo  il  bel  capo,  c d’ un  infame  tronco 
Conficcarlo  alla  cima.  Alzati,  e pigro 
Più  non  giacer.  Ti  tocchi  il  cor  vergogna 
Che  de’  cani  di  Troja  il  tuo  diletto 
Debba  le  sanne  trastullar.  Se  offesa 
A'c  riceve  la  salma,  è tuo  lo  smacco. 

Rispose  Achille:  E quale  a me  de’ numi 
Ti  manda  ambasciatrice , Iri  divina  ? 

Mi  manda,  replicò  la  Dea  veloce, 

Giunon,  di  Giove  gloriosa  moglie; 

Nè  Giove  il  sa,  nè  verun  altro  iddio 
De’  sereni  d’  Olimpo  abitatore. 

Come  al  campo  n’andrò,  soggiunse  Achille, 


Se  in  mano  di  color  venner  le  mie 
Armi,  e che  d’  armi  or  io  mi  cinga  il  vieta 
La  cara  madre,  se  lei  pria  non  veggio 
Da  Vulcano  tornar,  come  promise, 

Di  leggiadra  armatura  apportatrice? 

Di  qual  altra  famosa  or  mi  vestire 
Al  bisogno  non  so,  tranne  lo  scudo 
Dell’  egregio  figliuol  di  Telamone. 

Ma  pur  egli,  mi  spero,  in  questo  punto 
Sta  combattendo  pel  mio  spento  amico- 


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■ 26i-3oo  libro  XVIII  { 

E a lui  di  nuovo  la  taumanzia  figlia: 

Noto  è ben  anco  a noi  che  le  tue  bello 
Armi  or  sono  d’  altrui.  Ma  su  la  fossa 
Anco  inerme  ti  mostra  all’  inimico. 

Lascerà  spaventato  la  battaglia 
Solo  al  vederti,  e respirar  potranno 
I travagliati  Achei.  Salute  è spesso 
Nel  caler  della  pugna  un  sol  respiro. 

Cosi  dissej  e disparve.  In  piedi  allora 
Rizzossi  Achille,  amor  dì  Giove,  e tutto 
Coll’egida  Minerva  il  ricoperse. 

D’  un’  aurea  nube  gli  fasciò  la  fronte , 

Ed  una  fiamma  dalla  nube,  uscia  , 

Che  dintorno  accendea  l’ aria  di  luce. 

Siccome  quando  al  ciel  s’ innalza  il  fumo 
D’ isolana  città,  cui  d’ aspro  assedio 
Cinge  il  nemico^  con  orrendo  marte 
Combattono  dal  muro  i cittadini. 

Finché  gli  alluma  il  Solj  poi  quando  annotta, 
Destan  fuochi  frequenti  alle  vedette, 

E al  ciel  nc  sbalza  uno  splendor  che  manda 
Ai  convicini  del  periglio  il  segno, 

Se  per  sorte  venir  con  pronte  antenne 
Volessero  in  aita^  a questo  modo 
Dalla  testa  d’Achille  alta  alle  stelle 
Quella  fiamma  salia.  Varcato  il  muro, 

Sul  primo  margo  s’  arrestò  del  fosso. 

Nè  mischiossi  agli  Achei  ^ chè  della  madre 
Al  precetto  obbedra.  Lì  stando,  un  grido 
Mise , c d’  un  altro  da  lontan  gli  fece 
Eleo  Minerva,  ed  un  terror  ne’ Teucri 
. Immenso  suscitò.  Come  sonoro 
D’una  tuba  talor  s’ode  lo  squillo. 

Quando , d’  assedio  una  città  serrando  , 

Armi  grida  terribile  il  nemico  ; 

Cosi  chiara  d’Achille  era  la  voce. 

N’  udirò  i Teucri  il  ferreo  suono , e a tulli 
Tremare  i petti  ^ si  rizzar  sul  collo 
Ai  destrieri  le  chiome  ; e d’  alto  aflaiino 
Presaghi  addietro  rivolgean  le  bighe. 


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ILIADE 


*•-  3oi«34o 


Gli  aurighi  sbigottir,  vista  la  fiamma 
Che  da  Minerva  di  repente  accesa 
Orrenda  e lunga  su  la  fronte  ardea 
Del  magnanimo  eroe.  Tre  volte  Achille 
Dalla  fossa  gridò;  tre  volte  i Teucri 
E i collegati  sgominarsi,  e dodici 
De’  più  prestanti  fra  i riversi  rocchi 
Trafitti  vi  perir  dal  proprio  ferro. 

Pronti  intanto  gli  Achei,  di  sotto  ai  densi 
Strali  sottratto  di  Menczio  il  figlio,  ' 

11  locàr  nella  bara,  e gli  fòr  cerchio, 
Lagrimando,  i compagni.  Anch’ci  veloce 
V’accorse  Achille,  c si  disclolse  in  pianto, 
Nel  feretro  mirando  il  fido  amico 
D’  acuta  lancia  trapassato  il  petto. 

Egli  stesso  con  carri,  armi  c destrieri 
L’  avea  spedito  alla  battaglia , e freddo 
Lo  riebbe  al  ritorno  c sanguinoso. 

Costrinse  allor  la  veneranda  Giuno, 

Suo  malgrado,  a calar  nelle  correnti 
Dell’  Oceàno  l’ instancabil  Sole. 

Ei  si  sommerse,  e dal  crudel  conflitto 
Ebbcr  tregua  gli  Achei.  Dier  posa  all’  armi 
Di  rincontro  i Trojani;  i corridori 
Sciolser  dai  cocchi,  e pria  che  a cibo  alcuno 
Volger  la  mente,  convocar  consiglio. 

Bitti  in  piedi  a]>rir  essi  il  parlamento; 

Né  verun  di  sedersi  ebbe  fidanza. 

Perchè  d’Achille  la  comparsa  orrenda 
Facea  loro  tremar  le  vene  e i polsi; 

Chè  da  lunga  stagion  ne’  lagrimosi 
Campi  di  Marte  non  l’avean  veduto. 

Prese  tra  lor  Polidamantc  il  primo 
A ragionar.  Di  Panto  era  costui 
Prudente  figlio , c de’  Trojani  il  solo 
Che  le  passate  e le  future  cose 
Al  guardo  avea  presenti.  Egli  d’  Ettorrc 
Era  compagno,  c una  medesma  notte 
Li  produsse  ambedue  : 1’  un  di  parole , 
L’altro  d’asta  valente.  Ei  dunque  in  mezzo^ 


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LIBRO  XVIII 


4u5 


Con  saggio  avviso  cosi  tolse  a dire: 
Librate,  amici,  la  bisogna^  ir  dentro 
Alla  cittade,  e tosto,  è mio  consiglio. 

Seni’  aspettar  davanti  a queste  navi 
L’  alma  luce  del  di.  Troppo  siara  lungi 
Qui  dalle  mura.  Finché  l' ira  in  petto 
Àrse  a questo  guerricr  couti'a  TAtride, 

Più  lieve  cr' anco  il  debellar  gli  Àcliivi, 

Ed  40  pm-e  vegliar  godea  le  notti 
Presso  le  navi,  nella  dolce  speme 
D’ occuparle.  Or  tremar  fammi  il  Pelidc. 

L’ ardor  che  il  mena , non  vorrà  ristretto 
Contenersi  nel  campo , ove  1'  acheo 
Col  trojano  valore  in  generose 
Prove  la  gloria  marzi'al  divise^ 

Ma  per  Ilio  a pugnar  e per  le  mogli 
Ne  sforzerà.  Nella  cittade  adunque 
Ripariamo,  e si  segua  il  mio  sentire^ 

Ché  le  cose  avverran  com'  io  v'  assenno. 

L’  alma  notte  or  sopito  in  dolce  calma 
Tien  d'Achille  il  furor;  ma  se  dimani 
All’  assalto  prorompe , e qui  uc  trova , 

Certo  talun  conoscerallo , e quanti 
Dar  potranno  le  spalle,  e dentro  il  sacro 
Ilio  camparsi,  si  terran  beati; 

Ma  pria  ben  molti  rimarran  pastura 
Dr  voraci  avoltoi.  Deh  eh'  io  non  oda 
Sì  rio  caso  giammai!  Se  al  mio  ricordo, 
Benché  non  grato,  obbedirem,  la  notte 
Spenderem  ne'  rinforzi  e ne'  consigli. 

E le  torri  e le  porte  e i contraObrti 
De' ben  commessi  tavolati  intanto 
Faran  sicura  la  città.  Poi  tutti 
D'  arme  orrendi  domani  al  nuovo  Sole 
Starem  su  i merli.  E s'  ei , lasciato  il  lido , 
Verrà  nosco  a pugnar  sotto  le  mura. 

Duro  affar  troveravvi;  c poiché  stanca 
In  vane  giravolte  avrà  la  foga 
De' suoi  superbi  corridor,  gli  Ha 
Forza  alle  navi  ritornar  confuso; 


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Nè  di  scagliarsi  dentro  alla  cittadc 
Daraglì  il  cuore  ^ e pria  che  porla  al  fondo , 
£i  farà  sari  del  suo  corpo  i cani. 

Qui  tacque;  e bieco  gli  rispose  Ettorre: 
Tu  non  mi  fai  gradevole  proposta, 
Polidamantc,  no,  quando  n’esorti 
A serrarci  di  nuovo  entro  le  mura. 

E non  vi  noja  ancor  di  quelle  torri 
La  prigionia?  Fu  tempo,  in  cui  le  genti 
Di  vario  favellar  tutte  a una  voce 
Diccan  ricca  di  molto  auro  e di  bronzo 
La  città  pri'ameja.  Or  dalle  case 
Dileguàrsi  i tesori.  Alle  contrade 
Dell’amena  Meonia  e della  Frigia 
Molta  ricchezza  ne  passò  venduta 
Da  che  l’ ira  di  Giove  i Teneri  oppresse. 

Ed  or  che  Giove  innanzi  a questi  legni 
D’  alta  vittoria  mi  fe  lieto , e diemmi 
Che  al  mar  chiudessi  le  falangi  achec. 

Non  far  palese,  o stolto,  ai  cittadini 
Questo  consiglio;  chè  nessuno  avrai 
Fra  i Trojani  si  vii,  che  lo  secóndi. 

Nè  patirollo  io  mai.  Teucri,  obbediamo 
Tutti  al  mio  detto.  Ristorate  i corpi 
Al  suo  posto  ciascuno,  e vi  sovvegna 
Delle  scolte  per  tutto  e delle  ronde. 
Qualunque  de’  Trojani  in  pcnsier  stassi 
Di  sue  ricchezze,  le  raguni,  e poscia 
Largo  ai  soldati  le  spartisca.  E meglio 
Che  alcun  nostro  ne  goda,  e non  l’Achco. 
Sull'  aurora  dimani  in  tutto  punto 
Assalirem  le  navi  : e se  il  divino 
Achille  all’ armi  si  svegliò  davvero. 

Gli  fia  la  pugna,  se  la  vuol,  funesta. 

Non  fuggirollo  io,  no,  nell’ affannoso 
Ballo  di  Marte,  ma  staragli  a fronte 
Con  intrepido  petto.  Uno  de’  due 
D’  un’illustre  vittoria  andrà  superbo: 

Il  cimento  è comune,  ed  avvicn  spesso 
Che  morte  incontra  chi  di  darla  ha  speme. 


4ji-46u  libro  XVIII  4*>7 

Dissc^  c i Teucri  levar  d’applauso  uu  grido. 
Stolti!  chù  Palla  avea  lor  tolto  il  senno. 

Tutti  assentir  d’  Ettorre  al  pazzo  avviso  j 
Nessuno  al  saggio  del  figliuol  di  Patito. 

Mentre  col  cibo  a rivocar  le  forze 
Intendono  i Trojani,  in  alti  lai 
L’ intera  notte  dispendean  gli  Achivi 
Sovi-a  il  morto  Patróelo,  e prorompea 
Fra  loro  in  pianti  sospirosi  Achille, 

La  man  tremenda  sul  gelato  petto 
Dell’amico  ponendo,  e cupi  e spessi 

I gemiti  mettea,  come  talvolta 
Ben  chiomato  l'ione,  a cui  rapio 

II  cacciator  nel  bosco  i lioncini. 

Crucciato  il  fiero  del  suo  tardo  arrivo, 

Tutta  scorre  la  valle,  e 1’  orme  esplora 
Del  predator,  se  mai  di  ritrovarlo 

In  qualche  lato  gli  riesca;  c orrenda 
Gli  divampa  nel  cor  la  rabbia  c l’ ira. 

Tal  si  cruccia  il  Pelide,  c con  profondi 
Sospiri  in  mezzo  ai  Mirmidóni  esclama: 

Oh  mie  vane  parole  il  di  eh’  io  diedi 
A Menézio  il  conforto , c la  promessa 
Che  in  Opunta  gli  avrei  carco  di  gloria 
E di  gran  preda  ricondotto  il  figlio 
Dall’  atteiTata  Troja!  Ahi  che  non  tulli 
Giove  i disegni  de’  morlali  adempie  ! 

Sotto  Troja  il  destino  ambo  ne  danna 
A far  vermiglia  una  medesma  terra; 

Chi  me  neppure  abbracccrà  tornato 
Il  buon  vecchio  PeliSo  nel  patrio  tetto, 

Nè  Teli  genitrice;  ma  sepolcro 
Mi  darà  questo  lido.  Or  poi  che  deggio 
Dopo  te,  mio  fedel,  scender  sotterra. 

Tu,  no,  sul  rogo  non  andrai,  lo  giuro, 

Se  non  t’arreco  in  prima  io  qui  d’ Ettorre, 

Del  tuo  crudo  uccisor,  1’  armi  e la  testa; 

E dodici  d’  illustri  iliaci  figli 
Tronchcronne  davanti  alla  tua  pira. 

Giaci  intanto  cosi,  caro  compagno, 


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4o8 


ILIilDE 


»•.  ^6i.5no 


Qui  presso  alle  mie  navi^  e le  Irojane 
E le  dardanie  ancelle  il  largo  seno 
Tutte  discinte  intorno  al  tuo  feretro 
Notte  e dì  faran  pianto,  e ploreranno. 

Esse  ne  fur  comun  fatica  e preda, 

Quando  noi  colla  forza  c colle  lunghe 
Aste  domando  le  nemiche  genti , 

L' opime  n'  atterrammo  ampie  cittadi. 

Ciò  detto,  comandò  1'  almo  Pclidc 
Che  dai  compagni  al  fuoco  si  ponesse 
Sul  trìpode  un  gran  vaso,  onde  veloci 
Di  Patroclo  lavar  la  sanguinosa 
Tabe.  E quelli  sul  fuoco,  in  un  baleno. 

Atto  ai  lavacri  collocaro  un  bronzo', 

E v’infusero  l’onda,  c di  stecchiti 
Rami  di  sotto  alimentar  la  fiamma. 
Abhracciavan  le  vampe,  mormorando, 

Del  vaso  il  ventre,  e rotto  in  sottil  fumo 
Scaldavasi  l’ umor.  Poichò  nel  cavo 
Rame  la  linfa  al  suo  boiler  pervenne. 

Diersi  il  corpo  a lavar  : 1’  unser  dì  pingue 
Felice  oliva,  e le  ferite  empierò 
Di  balsamo  novenne.  Indi  al  funebre 
Letto  rcnduto,  dalia  fronte  al  piede 
In  sottil  lino  avvolserlo,  e superno 
Un  bianco  panno  vi  spiegar.  Ciò  fatto, 
Tomaro  ai  pianti,  e intorno  al  mesto  Achille 
Tutta  in  lamenti  consumàr  la  notte. 

Giove  in  questo  alla  sua  moglie  e sorella 
Si  volse  e disse:  Veneranda  Giuno, 

Ecco  pieni  alla  fine  i tuoi  desiri; 

Ricco  all’ armi  tornato  il  grande  Achille. 

Di  te  nacque,  crcd’io,  (cotanto  l’ami) 

L’  argiva  gente.  — E Giuno  a lui  : Che  parli , 
Tremendo  figlio  di  Saturno?  All’uomo 
Povero  d’  alma  e di  consigli  è dato 
n dannaggio  tramar  del  suo  simile^ 

Ed  io  che  incedo  degli  Dei  rcina. 

Perché  saturnia  prole  e perchè  sposa 
Son  dell’alto  de’ numi  impcradorc, 


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treno  xvni 


4°9 


r.  5o  1*540 

Centra  i Trojani  co’  Trojani  irata 
Macchinar  qualche  ofiesa  io  non  dovea? 

Mentre  seguian  tra  lor  queste  contese, 

Teti  agli  alberghi  di  Vulcan  pervenne, 

Stellati  eterni  rilucenti  alberghi. 

Fra  i celesti  i più  belli,  e dallo  stesso 
Vulcan  costrutti  di  massiccio  bronzo. 

Tutto  in  sudor  trovoUo  afiaccendato 
De’  mantici  al  lavoro.  Avea  per  mano 
Dieci  tripodi  c dieci,  adornamento 
Di  palagio  rcgal.  Sopposte  a tutti 
D’  oro  avea  le  rotelle , onde  ne  gisse 
Da  sé  ciascuno  all’  assemblea  de’  numi , 

E da  sè  ne  tornasse  onde  si  tolse: 

Maraviglia  a vederli!  Ornai  compiuto 
L’  ammirando  lavor , solo  restava 
Ch’  ci  v’  adattasse  le  polite  orecchie, 

E appunto  all’  uopo  n’  aguzzava  i chiovi. 
Mentre  venia  tai  cose  elaborando 
Con  egregio  artificio,  entro  la  soglia 
L’  alma  Teti  mettea  1’  argenteo  piede. 

La  vide,  e le  si  fe  Gerite  incontro. 

Ornata  il  capo  d’ eleganti  bende, 

Dell’incUto  Vulcan  moglie  vezzosa^ 

Per  man  la  strinse^  e,  il  roseo  labbro  aprendo: 
Qual,  le  disse,  cagione,  o bella  Teti, 

Ti  guida  inaspettata  a queste  case  ? 

Rado  suoli  onorarle*,  e nondimeno 
Sempre  cara  vi  giungi  e riverita. 

Indltrati , perch’  io  pronta  t’  appresti 
Le  vivande  ospitali.  — E,  si  dicendo, 

La  bellissima  Dea  1’  altra  introdusse, 

E in  un  bel  seggio  collocolla,  ornato 
D’  argentee  borchie  a lavorìo  gentile 
Gol  suo  sgabello  al  piede.  Indi  a chiamarne 
Gorse  1’  esimio  fabbro , e sì  gli  disse  : 

Vieni,  Vulcan;  chè  ti  vuol  Teti.  — Ed  egli: 

Venerevole  Diva  e d’  onor  degna 
Nella  casa  mi  venne.  Ella  malconcio 
E afilitto  mi  salvò , quando  dal  cielo 


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4 ' O ILIIDE  5.',l-5S«» 

Mi  fi:o  gltttir  l' iimTCconda  madre, 

Glie  il  distorto  mio  pié  volea  celato: 

E mille  allor  m'avrei  doglie  sofferto, 

Se  me  del  mar  non  raccogliean  nel  grembo 
Del  rifluente  Oceano  la  figlia 
Euri'nome  c la  Dea  Teti.  Di  queste 
Quasi  due  lustri  in'compagnia  mi  vissi, 

E di  molte  vi  feci  opre  d'ingegno. 

Fibbie  ed  armille  tortuose  e vezzi 
E bei  monili,  in  cavo  antro  nascoso, 

A cui  spumante  intorno  ed  infinita 
D'Ocean  la  corrente  mormorava  : 

Nè  vcrun  di  mia  stanza  avea  contezza , 

Nè  mortale  nè  Dio,  tranne  le  belle 
Mie  servatrici.  Or  poiché  Teli  è giunta 
Alla  nostra  magion,  piena  le  voglio 
Render  mercè  del  benefizio  antico. 

Tu  dinanzi  sollecita  le  poni 
Il  banchetto  ospitai,  mentr'io  veloce 
Questi  mantici  assetto  e gli  altri  arnesi. 

Disse;  c dal  ceppo  dell'incudc  il  mostro 
Abbronzato  levossi,  zoppicando. 

Moveansi  sotto  a gran  stento  le  fiacche 
Gambe  sottili.  Allontanò  dal. fuoco 

I mantici  ventosi;  ogni  fabbrile 
Istrumento  raccolse,  e dentro  un'arca 
Li  ripose  d'argento.  Indi  con  molle 
Spugna  ben  tutto  stropicciossi  il  volto 
Affumicato  ed  ambedue  le  mani 

E il  duro  collo  ed  il  peloso  petto. 

Poi  la  tunica  mise;  cd  il  pesante 
Scettro  impugnato,  tentennando  uscio. 

Scguian  l'orrido  rege,  c a dritta  e a manca 

II  passo  ne  reggean  forme  e figure 

Di  vaghe  ancelle,  tutte  d'oro,  e a vive 
Giovinette  simili , entro  il  cui  seno 
Avea  messo  il  gran  fabbro  e voce  c vita 
E vigor  d'intelletto,  c delle  care 
Arti  insegnate  dai  Celesti  il  senno. 

Queste  al  fianco  del  Dio  spedite  e snelle 


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»,  58i,6ao  LIDRO  TVIII  4 I < 

Camminavano;  ed  egli  a tardo  passo 
Avvicinato  a Tcti,  in  un  lucente 
Trono  s' assise;  c,  la  sua  man  ponendo 
Nella  man  della  Dea,  così  le  disse: 

Qual  mia  sorte  t’adduce  a queste  soglie, 

O sempre  cara  e veneranda  Tcti, 

In  queirampio  tuo  peplo  ancor  più  bella  ^ 

Troppo  rado  ne  fai  di  tua  presenza 
Contenti  e lieti.  Or  parla,  e il  tuo  desire 
Libera  esponi.  A soddisfarlo  il  gi-ato 
Cor  mi  sospinge,  se  pur  farlo  io  possa, 

E il  farlo  mi  s’addica. — E a lui,  sufTusa 
Di  lagrime  i bei  rai,  Teti  rispose: 

Delle  Dive  d’Olimpo  c qual  sofferse 
Tanti,  o Vulcano,  tormentosi  affanni, 

Quanti  in  me  Giove  n’adunò?  Me  sola 
Fra  le  dive  del  mar  suggetta  ci  fece 
Ad  un  mortale,  al  re  Pcléo.  Ritrosa 
Ne  sostenni  gli  amplessi;  cd  egli  or  giace 
Logro  dagli  anni  nel  regai  suo  tetto. 

Nè  il  tenor  qui  restò  di  mie  svcntuit;: 

Mi  nacque  un  Aglio;  io  l’educai  gelosa, 

E come  pianta  ei  crebbe,  c mi  divenne 
Il  maggior  degli  eroi.  Questo  germoglio 
Di  fertile  terren,  questo  diletto 
Unico  Aglio  su  le  navi  io  stessa 
Spedii  di  Troja  alle  funeste  rive 
A guerreggiar  co’  Teucri.  Avverso  fato 
Gli  dinega  il  ritorno;  ed  io  non  deggio 
Nella  pelèa  magion  madre  infelice 
Abbracciarlo  più  mai.  Nè  questo  è tutto. 

Fin  ch’ei  mi  vive,  e la  ria  Parca  il  raggio 
Gli  prolunga  del  Sole,  ei  lo  consuma 
Nella  tristezza,  nè  giovarlo  io  posso. 

Dagli  Achivi  ottenuta  egli  s’avea. 

Premio  di  sue  fatiche,  una  fanciulla: 

Agamenndn  gliela  ritolse;  cd  esso. 

Dell’onta  irato  e nel  dolor  sepolto, 

Si  ritrasse  dall’armi.  I Teucri  intanto 
Alle  navi  rinchiusero  gli  Achei, 


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4/2 


ILliDB 


V.  63i>6(ìo 


Nè  permettean  l' uscita.  Umili  allora 
I duci  ergivi  gli  mandar  preghiere 
E d'orrevoli  doni  ampie  profferte. 

Egli  fermo  negò  la  chiesta  aita; 

Ma  cinse  di  sue  stesse  armi  l’amico 
Patroclo,  e al  campo  l’ inviò  seguito 
Da  molti  prodi.  Su  le  porte  Scee 
Tutto  un  giorno  durò  l'aspro  conflitto. 

E il  di  stesso  llion  saria  caduto, 

S'alta  strage  menar  visto  il  gagliardo 
Di  Menézio  iìgliuol,  non  l’uccidea 
Tra  i combattenti  della  fronte  Apollo, 
Esaltandone  Ettorre.  Or  io  pel  figlio 
Vengo  supplice  madre  al  tuo  ginocchio; 
Onde  a conforto  di  sua  corta  vita 
Di  scudo  e d'elmo  provveder  tu  il  voglia, 
E di  forte  lorica  e di  schinieri 
Con  leggiadro  fermaglio.  A lui  perdute 
Ha  tutte  l’armi  dai  Trojani  ucciso 
n suo  fedel  compagno;  ed  egli  or  giace 
Gittata  a terra,  c dal  dolore  oppresso. 

Tacque;  e il  mal  fermo  Dio  cosi  rispose: 
Ti  riconforta,  o Teti,  e questa  cura 
Non  ti  gràvi  il  pensier.  Così  potessi 
Alla  morte  il  celar,  quando  la  Parca 
Sul  capo  gli  starà,  com’io  di  belle 
Armi  fornito  manderoUo,  c tali. 

Che  al  vederle  ogni  sguardo  ne  stupisca. 

Lasciò  la  Dea  , ciò  detto , e impaziente 
Ai  mantici  tornò,  li  volse  al  fuoco, 

E comandò  suo  moto  a ciascheduno. 

Eiran  venti  che  dentro  la  fornace 

Per  venti  bocche  ne  venian  sofhaudo;  ' 

E al  fiato  che  mcttean  dal  cavo  seno, . 

Or  gagliardo,  or  leggicr,  come  il  bisogno 
Chiedea  dell’opra  e di  Vulcano  il  senno. 
Sibilando,  prcndea  spirto  la  fiamma. 

In  un  commisti  allor  gittò  nel  fuoco 
Argento  ed  auro  prezioso  e stagno 
Ed  indomito  rame.  Indi  sul  toppo  . 


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r.  e6l.;oo  LIBUO  Xyill 

Locò  la  dura  risonante  incade  ^ 

Di  pesante  martello  armò  la  dritta, 

Di  tanaglie  la  n>anca;  e primamente 
Un  saldo  ei  fece  smisurato  scudo 
Di  dedalo  rilievo,  e d^aoro  intorno 
Tre  bei  fulgidi  cerchi  vi  condusse; 

Poi  d'argento  al  di  fuor  mise  la  soga. 
Cinque  dell’ampio  scudo  eran  le  zone; 

E gl’intervalli,  con  divin  sapere, 
D'ammiranda  scultura  aveà  ripieni. 

Ivi  ei  fece  la  terra,  il  mare,  il  cielo, 

E il  Sole  infaticabile,  e la  tonda 
Luna,  c gli  astri  diversi,  onde  sfavilla 
Incoronata  la  celeste  vòlta, 

E le  Plòjadi,  e l’ìadi,  e la  stella 
D’Orion  tempestosa,  e la  grand’ Orsa,  ’ 
Che  pur  Plaustro  si  noma.  Intorno  al  polo 
Ella  si  gira,  ed  O^'on  riguarda. 

Dai  lavacri  del  mar  sola  divisa. 

Ivi  inoltre  scolpite  avea  due  belle 
Popolose  città.  Vedi  nell’ una 
Conviti  e nozze.  Delle  tede  al  chiaro 
Per  le  contrade  ne  vem'an  condotte 
Dal  talamo  le  spose;  e:  Imene,  Imene 
Con  molti  s’intonava  inni  festivi. 

Menan  carole  i giovinetti  in  giro 
Dai  flauti  accompagnate  e dalle  cetre. 
Mentre  le  donne  sulla  soglia  ritte 
Stan  la  pompa  a guardar  maravigliose. 

D’altra  parte  nel  fòro  una  gran  turba 
Convenir  si  vedea.  Quivi  contesa 
Era  insorta  fra  due  che  d’nn  ucciso 
Piativano  la  multa:  un  la  mercede 
Già  pagata  assen'a;  l’altro  negava. 

Finir  davanti  a un  arbitro  la  lite 
Chiedeano  entrambi,  e i testimon  produrre. 
In  due  parli  diviso  era  il  favore 
Del  popolo  fremente,  c i banditori 
Sedavano  il  tumulto.  In  sacro  circo 
Sedeansi  i padri  su  polite  pietre; 


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4.4 


ILIADE 


».  joi-jV) 


C,  dalla  mano  degli  araldi  preso 
Il  suo  scettro  ciascun,  con  questo  in  pugno 
Sorgeano,  e l’uno  dopo  l’altro  in  piedi 
Lor  sentenza  dicean.  Doppio  talento 
D’auro  ò nel  mezzo  da  largirsi  a quello 
Che  più  diritta  sua  ragion  dimostri. 

Era  l’altra  città  dalle  fulgenti 
Armi  ristretta  di  due  campi  in  due 
Parer  divisi,  o di  spianar  del  tutto 
L’opulento  castello,  o che  di  quante 
Son  là  dentro  ricchezze  in  due  partito 
Sia  l’ammasso.  I rinchiusi  alla  chiamata 
Non  obbedian  per  anco,  e ad  un  agguato 
Armavansi  di  cheto.  In  su  le  mura 
Le  care  spose,  i fanciuUetti  c i vegli 
Fan  custodia  e corona^  e quelli  intanto 
Taciturni  s’avanzano.  Minerva 
Li  precorre  e Gradivo  entrambi  d’oro, 

E la  veste  han  pur  d’oro,  ed  alte  c belle 
Le  divine  stature,  e d’ogni  parte 
Visibili:  più  bassa  iva  la  torma. 

Come  in  loco  all’ insidie  atto  fur  giunti 
Presso  un  fiume,  ove  tutti  a dissetarsc 
Venian  gli  armenti,  s’ appiattar  que’ prodi 
Chiusi  nel  ferro,  collocati  in  pria 
Due  di  loro  in  disparte,  che  de’ buoi 
Spiassero  la  giunta  c delle  gregge. 

Eid  eccole  arrivar  con  due  pastori 
Che,  nulla  insidia  suspicando,  al  suono 
Delle  zampegne  si  prendean  diletto. 
L’insidiator  drappello  alla  sprovvista 
Gli  assalia,  ne  predava  in  un  momento 
De’ buoi  le  mandrc  c delie  bianche  agnelli', 
Ed  uccidea  crudele  anco  i pastori. 

Scossa  all’ alto  rumor  l’ assediatrice 
Oste  a consiglio  tuttavia  seduta, 

De’  veloci  corsie.'  sidiitamcnte 
Monta  le  groppo,  i predatori  insegue, 

E li  raggiunge,  Allor  si  ferma,  c fiera 
Sul  fiume  appicca  la  battaglia.  Entrambe 


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LIBRO  XVIII 


4l5 


Si  ferian  coll’ acute  aste  le  schiere. 

Scorrea  nel  mezxo  la  Discordia,  c seco 
Era  il  Tumulto  c la  tcrribil  Parca 
Che  un  vivo  già  ferito  c un  altro  illeso 
Artiglia  colla  dritta,  e un  morto  aflìerra 
Nc'piò  coll’altra,  e per  la  strage  il  tira. 

Manto  di  sangue  tutto  sozzo  e rotto 
Le  ricopre  le  spalle:  i combattenti 
Parean  vivi,  c tracan  de’  loro  uccisi 
I cadaveri  in  salvo  alternamente. 

Vi  sculsc  poscia  un  morbido  maggese 
Spazioso,  ubertoso  e che  tre  volte 
Del  vómero  la  piaga  avea  sentito. 

Molti  aratori  lo  vcm'an  solcando, 

E sotto  il  giogo  in  questa  parte  c in  quella 
Stimolando  i giovenchi.  E come  al  capo 
Giungean  del  solco,  un  uom,  che  giva  in  volta, 
Lor  ponea  nelle  man  spumante  un  nappo 
Di  dolcissimo  bacco;  e quei,  tornando 
Ristorati  al  lavor,  l’almo  terreno 
Fcndcan , bramosi  di  fmirlo  lutto. 

Dietro  nereggia  la  sconvolta  gleba: 

Vero  arato  sembrava^  c nondimeno 
Tutta  era  d’ór:  mirabile  fattura! 

Altrove  un  campo  efligiato  avea 
D’alta  messe  già  biondo.  Ivi,  le  destre 
D’acuta  falce  armati,  i segatori 
Micteau  le  spighe^  c le  recise  manne 
Altre  in  terra  cadeau  ti'a  solco  c solco, 

Altre  con  vinchi  le  venian  stringendo 
Tre  legàtor  da  tergo,  a eui  festosi 
Tra  le  braccia  recandole  i fanciulli 
Senza  posa  porgean  le  tronclic  ariste. 

In  mezzo  a tutti  colla  verga  in  pugno 
Sovra  un  solco  sedea  del  campo  il  sire. 

Tacito  e lieto  della  multa  messe. 

Sotto  una  quercia  i suoi  sergenti  intanto 
Imbandiscon  la  mensa,  e i lombi  curano 
D’un  immolato  bue,  mentre  le  donne 
Intente  a mescolar  bianche  farine, 


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4«6 


tUADB 


**•  7li-8aa 


VaD  preparando  ai  mietitor  la  cena. 

Se^uia  quindi  un  vigneto  oppresso  e curvo 
Sotto  il  carco  dell’uva.  Il  tralcio  è d’oro, 
Nero  il  racemo,  ed  un  filar  prolisso 
D’argentei  pali  sostenea  le  viti. 

Lo  circondava  una  cerulea  fossa 
E di  stagno  una  siepe.  Un  sentier  solo 
Al  vendemmiante  ne  schiudea  l’ingresso. 
Allegri  giovinetti  e verginelle 
Portano  ne’  canestri  il  dolce  fratto , 

E fra  loro  un  garzon  tocca  la  cetra 
Soavemente.  La  percossa  corda 
Con  sottil  voce  rispondeagii ; e quelli, 

Con  tripudio  di  piedi  sufolando 
E canticchiando,  ne  seguiano  il  suono. 

Di  giovenche  una  mandra  anco  vi  pose 
Con  erette  cervici.  Erano  scnlte 
In  oro  é stagno,  e dal  bovile  nsciéno 
Mugolando  e correndo  alla  pastura 
Lungo  le  rive  d’un  sonante  fiume 
Che  tra  giunchi  volgea  l’onda  veloce. 
Quattro  pastori,  tutti  d’oro,  in  fila 
Clan  coll’armento,  e li  seguian  fedeli 
Nove  bianchi  mastini.  Ed  ecco  uscire 
Due  tremendi  lioni,  ed  avventarsi 
Tra  le  prime  giovenche  ad  un  gran  tauro , 
Che  abbrancato,  ferito  c strascinato. 
Lamentosi  mandava  alti  muggiti. 

Per  riaverlo,  i cani  ed  i pastori 
Pronti  accorrcan^  ma  le  superbe  fiere, 

Del  tauro  avendo  già  squarciato  /I  fianco. 

Ne  mettean  dentro  alle  bramose  canne 
Le  palpitanti  viscere  ed  il  sangue. 

Gl’ inseguivano  indarno  i mandriani. 
Aizzando  i mastini.  Essi  co’  morsi 
Attaccar  non  osando  i due  feroci , 

Latravan  loro  addosso,  e si  schermivano. 

Fecevi  ancora  il  mastro  ignipotente 
In  amena  convalle  una  pastura 
Tutta  di  gi'eggi  biancheggiante  c sparsa 


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Di  capanne,  di  chiusi  c pecorili. 

Poi  vi  sculse  una  danza  a quella  eguale 
Che  ad  Ài'ianna  dalle  belle  trecce 
Nell’ampia  Creta  Dèdalo  compose. 

erano  garzoncelli  e vcrginette 
Di  bellissimo  corpo,  che  saltando 
Tcncansi  al  carpo  delle  palme  avvinti. 
Queste  un  velo  sottil,  quelli  un  farsetto 
Ben  tessuto  vestia,  soavemente 
Lusti'o  qual  bacca  di  palladia  fronda. 
Portano  queste  al  crin  belle  ghirlande, 
Quelli  aurato  trafiere  al  fianco  appeso 
Da  cintola  d'argento.  Ed  or  leggieri 
Danzano  in  tondo  con  maestri  passi. 
Come  rapida  ruota  che,  seduto 
Al  mobil  tomo,  il  vascllier  rivolvc^ 

Or  si  spiegano  in  file.  Numerosa 
Stava  la  turba  a riguardar  le  belle 
Carole,  e in  cor  godea.  Finian  la  danza 
Tre.  saltator  che  in  varj  caracolli  < 

Rotavansi,  intonando  una  canzona.  ... 

11  gran  fiume  Oceàn  l’orlo  chiudea 
Dell’ammirando  scudo'.  A fin  condotto  > 
Questo  lavoro,  una  lorica  ei  fece 
Che  della  fiamma  lo  splendor  vincca^ 

Poi  di  raro  artificio  un  saldo  c vago 
Elmo  alle  tempie  ben  acconcio,  e sopra 
D’auro  tessuta  v’innestò  la  cresta.  . 

Fur  l’ultima  fatica  i bei  schinieri 
Di  pieghevole  stagno.  E terminate 
L’armi  tutte,  il  gran  fabbro  alto  levolle, 
E al  piè  di  Teli  le  depose.  Ed  ella, 

Co’ bei  doni  del  Dio,  come  sparviero 
Ratta  calossi  dal  nevoso  Olimpo. 


LIBRO  DECIMONONO 


AR(iL>MK>T() 


AtLiIW  riiuira  le  armi  a lui  recate  dalla  madiv>,  e m*  nr  coaipure.  Tctidc  *{>arge  d'aml>r(^ 
lia  il  corpo  di  Pàtrodo  ptrr  coownrarlo  dalla  eorruiiuoc.  Achille  convoca  il  parlamento  de* 
Greci:  ai  riconrilia  con  Agamennone.  Vuol  condurre  tenta  indugio  le  icliirre  aliatUgUa.  Ri« 
tzKntraoie  d'Ulitie.  L*  eroe  accontenle  che  i guerrieri  ti  rìvtorioo  col  cilio,  Agamennone  gli 
rende  Brit^ide  ccdi’aggiunla  dei  dunì  promeiù.  Giurameolo  del  re  e solenne  sacri&tiu.  Lamenti 
di  BriWide  sopra  il  morto  Patroclo.  1 Greci  t’unitcouo  a banchettare , ma  Adiille  rkusa  qoa- 
luac^oe  alimento.  Giove  spediue  Minerva  che  gli  stilli  ru^ttare  cd  ambrosia  mi  seno.  Egli  ti 
arma:  monta  sul  carro:  tue  parole  ai  ravalb  : risposta  di  Xanto,  uno  di  questi}  e replica 
dell*  eroe. 


Uscia  del  mar  l’Aurora  in  croceo  velo, 
Alla  terra  ed  al  ciel  nunzia  di  luce  ; 

£ co’  doni  del  Dio  Teli  giungea. 
Singhiozzante  da  canto  al  morto  amico 
Trovò  l’amato  figlio,  a cui  dintorno 
Ploravano  i compagni.  Apparve  in  mezzo 
L’  augusta  Diva;  e,  strettolo  per  mano: 
Figlio,  disse,  poiché  piacque  agli  Dei 
La  sua  morte,  lasciam,  benché  dolenti, 

Che  questi  qui  si  giaccia  ; e tu  le  belle 
Armi  ti  prendi  di  Vulcan,  che  mai 
Mortai  non  indossò.  — Così  dicendo, 

Le  depose  al  suo  pié.  Dicr  quelle  un  suono 
Che  terror  mise  ai  MirmiJóni  : il  guardo 
Non  le  sostenne,  e si  fuggir.  Ma  come 
Le  vide  Achille,  maggior  surse  l’ira, 

E sotto  le  palpebre  orrendamente 
CH  occhi  qual  fiamma  balenar.  Godea 
Trattarle,  vagheggiarle;  e,  dilettalo 
Del  mirando  lavor,  si  volse,  c disse: 


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V 2I>6o 


4'9 


ILIAI1E,  LIBRO  XIX 

Madre,  sou  degne  del  divino  fabbro 
Quest’  armi,  nè  può  tanto  arte  terrena. 

Or  le  mi  vestoj  ma  timor  mi  grava 
Che  nelle  piaghe  di  Patroclo  intanto 
Vile  insetto  non  entri,  che  di  vermi 
Generator  la  salma  ( ahi  ! senza  vita  ! ) 

Ne  guasti  si,  che  tutta  imputridisca. 

Pcnsier  di  questo  non  ti  prenda,  o Gglio, 
Gli  rispose  la  Dea:  l' infesto  sciame. 
Divoratore  de’  guerrieri  uccisi , 

Io  ne  ten'ò  lontano.  Ov’  anco  ei  giaccia 
Intero  un  anno,  farò  si,  che  il  corpo 
Incorrotto  ne  resti,  e ancor  più  bello. 

Or  tu  raccogli  in  assemblea  gli  Àchivi^ 

E,  placato  all’Atridc,  armati  ratto 
Per  la  battaglia,  e di  valor  ti  eingi. 

Disse  ^ e spirto  audacissimo  gl’ infuse. 

Indi  ambrosia  all'  estinto,  e rubicondo 
Néltare , a farlo  d’  ogni  tabe  illeso , 

Nelle  nari  stillò.  Lunghesso  il  lido 
L’orrenda  voce  intanto  alza  il  Pelide^ 

Nè  soli  i prenci  achei,  ma  tutte  accorrono 
Le  sparse  schiere  per  le  navi;  e quanti 
Di  navi  han  cura,  remator,  piloti 
E vivandieri  e-  dispensicr,  van  tutti 
A parlamento,  di  veder  bramosi 
Dopo  un  lungo  cessar  l'apparso  Achille. 
Barcollanti  v’  andare  anco  i due  prodi 
Diomede  ed  Ulisse,  por  le  gravi 
Piaghe  all'asta  appoggiati,  e ne’primiei-i 
Seggi  adagiarsi.  Ultimo  giunse  il  sommo 
Atridc,  in  forte  mischia  ci  pur  dal  telo 
Di  Goon  Anlcnóridc  ferito. 

Tutti  adunati,  Achille  sursc  e disse: 

Alride,  a te  del  par  che  a me  sana 
Meglio  tornato  che  tra  noi  non  fusse 
Mai  surta  la  fatai  lite  che  il  core 
Sì  ne  ròse  a cagion  d’  una  fiuciulla. 

Dovea  Diana  saettarla  il  giorno 

Ch’io  saccheggiai  Lirnesso,  c mia  la  feci; 


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ILIADE 


V.  6*1-100 


Ché  tanti  non  avrian  trafitti  Achivi, 

Mentre  l’ira  io  eovai,  morso  il  terreno. 
Ettore  e i Teucri  ne  gioir  5 ma  lunga 
Rimarrà  tra  gli  Achei,  credo,  ed  amara 
De’  nostri  piati  la  memoria.  Or  copra 
Obblio  le  andate  cose  , e il  cor  nel  petto 
Necessità  nc  doni.  Io  qui  depongo 
L’ira,  nè  giusto  è ch’io  la  serbi  eterna. 

Tu  ridesta  le  schiere  alla  battaglia. 

Vedrò  se  i Teucri  al  mio  venir  vorranno 
Presso  le  navi  pernottar.  Di  gambe. 

Spero,  ila  lesto  volentier  chiunque 
Potrà  sottrarsi  in  campo  alla  mia  lancia. 

Disse^  e gli  Achivi  giubilar,  vedendo 
Aliln  placato  il  generoso  Achille. 

Surse  allora  l’Atride,  e dal  suo  seggio. 
Senza  avanzarsi , favellò  : M’  udite , 

Eroi  di  Grecia,  bellicosi  amici. 

Nè  turbate  il  mio  dir^  cbè  Io  frastuono 
Anche  il  più  sporto  dicitor  confonde. 

E chi  far  mente,  chi  parlar  potrebbe 
In  cotanto  tumulto,  ove  la  voce 
La  più  sonora  verna  meno?  Io  volgo 
Le  parole  ad  Achille , e voi  porgete 
Attento  orecchio.  Con  rimprocci  ed  onte 
Spesso  gli  Achivi  m’  accusàr  d’  un  fallo 
Cui  Giove  e il  Fato  e la  notturna  Erinni 
Commisero,  non  io.  Fissi  in  consiglio 
Quel  di  la  mente  m’oifuscàr,  che  il  premio 
Ad  Achille  rapii.  Che  farmi  ? Un  Dio 
Cosi  dispose,  la  funesta  a tutti 
Ate,  tremenda  del  Saturnio  figlia. 

Lieve  ed  alta  dal  suolo  ella  sul  capo 
De’  mortali  cammina , c lo  perturba , 

E a ben  altri  pur  nocque.  Anche  allo  stesso 
Degli  uomini  t de’  numi  arbitro  Giove 
Fu  nocente  costei,  quando  ingannollo 
L’augusta  Giuno  il  di  che  in  Tebe  AIcmcna 
L’  erculea  forza  partorir  dovea. 

Detto  ai  Celesti  avea  Giove  per  vanto: 


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».  I01-l4o  libro  XIX  /j-n 

Divi  e Dive,  ascoltate 4 io  vo’  del  petto 
Rivelarvi  un  segreto:  oggi  llitia, 

Curati-ice  de’ parti,  in  luce  un  uomo 
Del  mio  sangue  trarrà,  che  su  le  tutte 
V’icine  genti  stenderà  lo  scettro. 

Mentirai,  nè  atterrai  la  tua  parola, 

Giulio  riprese,  meditando  un  frodo. 

Giura,  o Giove,  il  gran  giuro,  che  nel  vero 
Fia  de’  vicini  regnator  1’  uom  eh’  oggi 
Di  tua  stirpe  cadrà  fra  le  ginocchia 
D’  una  madre  mortai.  Giurollo  il  nume 
Senza  sospetto,  e ne  fu  poi  peutito^ 

Chè  Giuno  dal  ciel  ratta  in  Argo  scesa 
Del  Persei'de  Stèndo  all'  illustre 
Moglie  sen  venne.  Àvea  grav’  ella  il  seno 
D' un  caro  figlio  settimestre.  A que.sto. 

Benché  immaturo,  accelerò  la  luce 
Giuno,  e d'Alcmcna  prolungando  il  parto, 

Ne  represse  le  doglie.  Indi  a narrarne 
Corse  al  Saturnio  la  novella,  c disse: 

Giove , t’  annunzio  che  mo’  nacque  un  prode 
Che  in  Argo  impererà,  lo  Stenelide, 

Tua  progenie,  Euristèo  d’Argo  re  degno. 

D’  alto  dolor  ferito  infuriossi 
Giove ^ e,  tosto  ai  capelli  Atc  afferrando, 

Per  lo  Stige  giurò  che  questa  a tutti 
Furia  dannosa  non  avria  più  mai 
. Riveduto  l’Olimpo.  E,  si  dicendo. 

La  rotò  colla  destra,  e fra’  mortali 
Dagli  astri  la  scagliò.  Per  la  costei 
Colpa  reggendo  di  travagli  oppresso 
11  diletto  figliuol  sotto  Euristèo, 

Adiravasi  Giove.  E a me  pur  anco. 

Quando  alle  navi  Ettòr  struggea  gli  Achivi, 
Lacerava  il  pcnsier  la  rimembranza 
Di  questa  Diva  che  mi  tolse  il  senno. 

Ma  poiché  Giove  il  volle , io  vo’  del  pari 
Farne  1'  emenda  con  immensi  doni. 

Sorgi,  Achille,  alla  pugna,  e gli  altri  accendi. 
Tutto,  che  jeri  nella  tenda  Ulisse 


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ILIADE 


Ti  promise,  io  clarotti  : c se  t'aggrada, 

L’  ardor  sospendi  clic  a pugnar  ti  sprona. 

E dal  mio  legno  farò  tosto  i doni 
Recar,  cbe,  visti,  plachcranti  il  core. 

Duce  de’ prodi,  glorioso  Atride, 

Rispose  Achille , il  dar  quc’  doni  a norma 
Di  tua  giustizia  o ritenerli,  è tutto 
Mei  tuo  poter.  Ma  tempo  non  è questo 
Da  parole:  sia  d’armi  ogni  pensiero, 

Nè  più  s’ indugi  ^ che  il  da  fai'si  è assai. 

Uop’  è che  Achille  in  campo  rieda  e spcrd.! 
Le  trojane  falangi,  e eh’  altri  il  vegga, 

E l’esempio  n’  imiti.  — Illustre  Achille, 
Soggiunse  allor  1’  accorto  Ulisse,  è grande 
Il  tuo  valor^  ma  non  menar  digiuni 
Contro  i Teucri  gli  Achei.  Venuti  al  cozzo 
Una  volta  gli  eserciti,  c infiammati 
Quinci  e quindi  da  un  Dio,  non  (la  sì  breve 
L’ aspro  certame.  Nelle  navi  adunque 
Comanda  che  di  cibo  e di  bevanda. 

Fonte  di  forza,  si  ristaurin  tutti; 

Che  digiuno  soldato  un  giorno  intero 
Fino  al  tramonto  non  sostien  la  pugna. 

Sete,  fame,  fatica  a poco  a poco 
Dóman  anco  i più  forti,  e dispossato 
Casca  il  ginocchio.  Ma  guerrier,  cui  fresche 
Tornò  le  forze  il  cibo,  il  giorno  tutto 
Intrepido  combatte,  e sua  stanchezza 
Sol  col  finirsi  del  conflitto  ei  sente. 

Dunque  il  campo  congeda,  e fa  che  pronte 
Mense  imbandisca.  Agamennòn  frattanto 
Qua  rechi  i doni;  onde  ogni  Acheo  li  vegga, 
E il  tuo  cor  ne  gioisca.  Indi  nel  mezzo 
Del  parlamento  il  re  si  levi,  e giuri 
Che  mai  non  giacque  colla  tua  fanciulla; 

E questo  giuro  il  cor  ti  plachi.  Ei  poscia. 
Perchè  nulla  si  fraudi  al  tuo  diritto, 

Di  lauto  desco  nella  propria  tenda 
Ti  presenti  e t’  onori.  E tu  più  giusto 
Mdstrati,  Atride,  in  avvenir;  che  bello 


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¥.  i8|'320 


LIBRO  XIX 


4a3 


Rcgal  atto  è il  placar , qual  sia , 1'  offeso. 

A questo  il  sire  Agamennón  : M'  è grato , 
Ulisse,  il  saggio  e acconciamente  espresso 
Tuo  ragionar.  Io  giurerò  dall'imo 
Cuor,  nò  dinauzi  al  Dio  sarò  spergiuro. 

Ma  tempri  Achille  del  pugnar  la  foga 
Sino  che  giunga  il  donativo^  e il  sangue 
Della  vittima  fermi  il  giuramento, 

Qui  presenti  voi  tutti.  Or  tu  medesmo 
Vanne,  Ulisse^  c traseeltu,  io  tei  comando. 
De' primi  achivi  giovinetti  il  fiore. 

Reca  i doni  promessi  c le  donzelle; 

E Taltibio  mi  cerchi  c m'apparecchi 
Un  cinghiai  da  svenarsi  a Giove  e al  Sole. 

Inclito  Atride,  gli  rispose  Achille, 

Serbar  si  denno  queste  cose  al  tempo 
Che  dall’  armi  avrem  posa,  e che  non  tanto 
Sdegno  m’infiammi.  Giacciono  squarciati 
Nella  polve  gli  eroi  che  spense  Ettorre 
Favorito  da  Giove,  c voi  ne  fate 
Ressa  di  cibo?  Io,  qual  si  trova,  all'  armi 
Senza  ritardo  il  campo  esorterei; 

E,  vendicato  1’ onor  nostro,  allegre 
Cene  Abbondanti  appresterei  la  sera. 

Non  verrà  cibo  al  labbro  mio  nè  beva, 

S’  ulto  pria  non  vedrò  1’  estinto  amico. 

D’  acuto  acciar  trafitto  egli  mi  giace 
Nella  tenda  co’  piè  volti  all’  uscita , 

E gli  fan  cerchio  i suoi  compagni  in  pianto. 
Non  altro  è dunque  il  mio  pensier  che  strage 
E sangue,  e il  cupo  di  chi  muor  sospiro. 

E Ulisse  a lui:  Fortissimo  Peli'de, 

Tu  nell'asta  me  vinci,  io  te  nel  senno. 
Perchè  pria  nacqui,  e più  imparai.  Fa  dunque 
Di  quotarti  al  mio  detto.  Umano  core 
Presto  si  sazia  di  conflitti  in  cui. 

Molto  miete  l’ acciar,  poco  raccoglie 
Il  mietitor,  se  Giove,  arbitro  sommo 
Di  nostre  guerre,  le  bilance  inclina. 

Pianger  col  ventre  non  si  dee  gli  estinti. 


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itunr. 


E qual  respiro  il  pianto  avn'a,  se  mille 
Fa  cadeiTie  la  Parca  ogni  momento  ? 

Intero  un  sole  al  lagrimar  si  doni  ; 

Poi  con  coraggio,  chi  morì  s’intombi: 

E noi  che  vivi  dalla  mischia  uscimmo, 
Conforliamci  di  cibo^  onde  più  fieri, 
D’invitto  ferro  ricoperti  il  petto, 

Alla  pugna  tornar,  senza  che  sia 
Meslier  novello  incitamento.  E guai 
A chi  tcrrassi  su  le  navi  inerte. 

Mentre  gli  altri  animosi  ad  acre  assalto 
Centra  i Teucri  dal  vallo  irromperanno! 

Dissc^  e compagni  i due  hgliuoi  si  prese 
Di  Nestore,  c Toantc  c McrVonc 
E il  Filide  Mcgéte  e Melanippo 
E Licomede  di  Creonte.  Andare 
D’Atride  al  padiglione  presti  il  comando 
N’ adempirò,  c arrecar  le  già  promesse 
Cose:  sette  treppiè,  venti  lebeti, 

Dodici  corridori;  indi  prestanti 
D' ingegno  e di  beltà  sette  captivc. 

La  Gglia  di  firisco,  guancia  rosata, 

Ottava  ne  vcm'a.  Li  precedea 

Con  dieci  di  buon  peso  aurei  talenti* 

Ulisse,  e lo  seguian  con  gli  altri  doni 
Gli  altri  giovani  achei.  Deposto  il  tutto 
Nell’  assemblea,  le  vessi  Agamennòne; 

E Taltibio,  di  voce  a un  Dio  simile. 

Irto  cinghiai  gli  appresentò.  Fuor  trasse 
Il  sospeso  del  brando  alla  vagina 
Trafier  l’Atride:  e,  della  belva  i primi 
Peli  recisi,  alzò  le  palme,  e a Giove 
Pregò.  Sedeansi  tutti  in  riverente 
Giusto  silenzio  per  udirlo;  ed  egli, 
Guardando  al  cielo  c supplicando,  disse: 

Il  sommo  ottimo  Iddio,  la  Terra,  il  Sole 
E r Erinni  laggiù  gastigatrici 
Degli  spergiuri,  tcstimon  mi  siciio 
Che  per  desio  lascivo  iinqua  io  non  posi 
Sopra  la  figlia  di  Briséo  le  mani, 


V.  a6i-3oo 


LIBRO  TIX 


4a5 


E che  la  tenni  nelle  tende  intatta. 

Mi  mandino,  s' io  mento,  ogni  castigo 
Serbato  al  falso  giurator  gli  Dei. 

Disse^  e l'ostia  scannò^  poscia  ne' vasti 
Gorghi  marini  la  scagliò  1’  araldo , 

Pasto  de' pesci.  Allor  rizzossi  Achille, 

G sciamò  : Giove  padre , oh  di  che  danni 
Tu  ne  gravi!  Non  mai  m' avvia  TAtridc 
Mosso  all'ira,  nè  mai  per  farmi  oltraggio 
Rapita  a mio  mal  grado  egli  la  schiava^ 

Ma  tu  il  volesti,  Iddio,  tu  che  di  tanti 
Achei  la  morte  decretavi.  Or  voi 
Itene  al  cibo,  e all'  armi  indi  si  voli. 

Disse;  e,  sciolto  il  consesso,  alla  sua  nave 
Si  disperse  ciascun.  Ma  co’  presenti 

I Mirmidòni  s'  avviar  d’Achille 
Verso  le  tende,  e li  posar,  schierando 
Su  bei  seggi  le  donne;  e nell’  armento 
Fur  dai  sergenti  i corridor  sospinti. 

Di  beltà  simigliante  all’  aurea  Venere 
Come  vide  Briseide  de)  morto 
Patroclo  le  ferite,  abbandonossi 
Sull’estinto,  e ululava,  e colle  mani 
Laccravasi  il  petto  e il  delicato 
Collo  e il  bel  viso,  e si  dicea  plorando: 

Oh  mio  Patroclo!  oh  caro  e dolce  amico 
D’  una  meschina  ! Io  ti  lasciai  qui  vivo 
Partendo;  e ahi  quale  al  mio  tornar  ti  trovo! 
Ahi  come  viemmi  un  mal  su  1’  altro  ! Vidi 
L’uomo  a cui  diermi  i genitor,  trafitto 
Dinanzi  alla  città;  vidi  d’  acerba 
Morte  rapiti  tre  fratei  diletti; 

E quando  Achille  il  mio  consorte  uccise 
E di  Minete  la  città  distrusse , - 
Tu  mi  vietavi  il  piangere,  e d’Achille 
Farmi  sposa  dicevi,  e a Ftia  condurmi 
Tu  stesso,  e m’ apprestar  fra’ Mirmidòni 

II  nuz'ial  banchetto.  Avrai  tu  dunque, 

O sempre  mite  eroe,  sempre  il  mio  pianto. 
Cosi  piange  : piangean  1’  altre  donzelle 


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ILIADE 


3oi 


Piltroclo  ili  vista,  c il  [iroprio  danno  in  core. 

Stretti  intanto  ad  Achille  i seniori 
Lo  confortano  al  cibo,  ed  egli  il  niega 
Gemebondo:  Se  restami  un  amico 
Che  mi  compiaccia,  non  ni’  esorti,  il  prego, 
A toccar  cibo  in  tanto  duol:  to’ starmi 
Fino  a sera,  e potrollo,  in  questo  stato. 

Tutti,  ciò  detto,  accomiatò;  ma  seco 
Restar  gli  Atridi  e Nèstore  cd  Ulisse, 

E il  re  cretese  e il  buon  Fenice,  intenti 
A stornarne  il  dolor;  ma  il  cor  sta  chiuso 
Ad  ogni  dolce,  finché  l’apra  il  grido 
Della  battaglia  sanguinosa.  Or  tutto 
Gol  pensicr  nell’amico  alto  sospira, 

E prorompe  cosi;  Caro  infelice! 

Tu  pur  ne’  giorni  di  fcral  conflitto 
Degli  Achivi  co’ Troi  m’apparecchiavi 
Con  presta  cura  nelle  tende  il  cibo. 

Or  tu  giaci,  c digiuno  io  qui  mi  struggo 
Del  desio  di  te  sol;  né  più  cordoglio 
Mi  graveria,  se  morto  il  padre  udissi 
(Misero!  ei  forse  or  per  me  piange  in  Ftia, 
Per  me  fatto  campione  in  stranio  lido 
Dell’  abborrita  Argiva  ) , o morto  il  mio 
Di  divina  beltà  figlio  diletto. 

Che  a me  si  educa,  se  pur  vive,  in  Sciro. 
Ahi  ! mi  sperava  di  morir  qui  solo; 

Sperava  che  tu,  salvo  a Flia  tornando 
Su  presta  nave,  un  di  da  Sciro  avresti 
Teco  addotto  il  mio  Pirro,  c móstri  a lui 
I miei  campi,  i mici  servi  c l'alta  reggia; 
Perocché  temo  che  Pelèo  pur  troppo 
O più  non  viva,  o di  dolor  sol  viva. 
Aspettando  ogni  di,  veglio  cadente, 

L’  amaro  annunzio  della  morte  mia. 

Cosi  geme:  gemean  gli  astanti  croi, 
Ricordando  ciascun  gli  abbandonati 
Suoi  cari  pegni.  Di  quel  pianto  Giove 
Impietosito,  a Pallade  si  volse 
Immantinente,  c si  le  disse:  O figlia, 


r.  341-3*0  libro  XIX  4»7 

Perché  lasci  Puom  prode  in  abbandono? 

Pensier  d'Achille  non  hai  più  ? Noi  vedi 
Là  seduto  alle  navi  e lagrimoso 
Pel  caro  amico  ? Àudàr  già  tutti  al  desco  4 
Ri  sol  ricusa  ogni  ristor.  Va  dunque, 

R dolce  ambrosia  e nettare  nel  petto, 

Onde  non  caggia  di  languor,  gl’  instilla. 

Sprone  aggiunse  quel  cenno  alla  già  pronta 
Minerva , che  d’  un  salto , con  la  foga 
Delle  vaste  ali  di  stridente  nibbio. 

Calò  dal  cielo,  e nettare  ed  ambrosia 
Stillò  d’Achille  in  petto;  onde  le  forze 
11  suo  fiero  digiun  non  gli  togliesse; 

Indi  agli  eterni  del  potente  padre 
Soggiorni  rivolo.  Gli  Achivi  intanto 
Tutti  in  procinto  dalle  navi  a torme 
Versavansì  nel  campo.  E a quella  guisa 
Che  fioccano  dal  ciel,  spinte  dal  solilo 
Serenatore  d’  aquilon , le  nevi  ; 

Così  dai  legni  uscir  densi  allor  vedi 
I lucid’  elmi,  i vasti  scudi,  e i forti 
Còncavi  usberghi  e le  frassinee  lance. 

Folgora  ai  lampi  dell’acciaro  il  cielo, 

E ne  brilla  il  terren,  che  al  calpestio 
Delle  squadre  rimbomba.  In  mezzo  a queste 
Armasi  Achille.  Gli  strideano  i denti. 

Gli  occhi  eran  fiamme,  di  dolore  e d'ira 
Rompessi  il  petto  : e tale  egli  dell’  armi 
Vulcanie  si  vestia.  Strinse  alle  gambe 

I bei  stinieri  con  argentee  fibbie; 

Pose  al  petto  l’usbergo,  e di  lucenti 
Chiovi  firegiato  agli  òmeri  sospese 

II  forte  brando;  s’imbracciò  lo  scudo. 

Che  immenso  e saldo  di  lontan  splendca 
Come  luna,  o qual  foco  ai  naviganti 
Sovr’ alta  apparso  solitaria  cima. 

Quando  lontani  da’  lor  cari  il  vento 

Li  travaglia  nel  mar.  Tale  dal  bello 
E vario  scudo  dell’  eroe  saliva 
All’  etra  lo  splendor.  Stella  parea 


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n-iADE  ... 

Su  la  fronte  il  grand'  elmo , irto  d'  equine 
Chiome,  e fusa  sul  cono  tremolava 
L’  aurea  cresta.  In  quest’  armi  il  divo  Achille 
Tenta  sè  stesso,  c vi  si  vibra,  c prova 
Se  gli  son  atte:  e gli  erano  qual  piuma 
Ch'  alto  il  solleva.  ÀlGn  dal  suo  riservo 
Cavò  l’ immensa  e salda  asta  patema 
Cui  nullo  Achivo  palleggiar  potea. 

Tranne  il  Pelide , fràssino  d’  eroi 

Sterminatore,  da  Chiron  reciso 

Su  le  pcliachc  vette,  c dato  al  padre. 

Alcimo  intanto  e Automedontc  aggiogano, 
Di  belle  barde  adorni  e di  bei  ireni, 

I cavalli;  c allungate  ai  saldi  anelli 
Le  guide,  e tolta  nella  man  la  sferza, 

Salta  sul  cocchio  Automedòn.  Vi  monta 
Dopo,  raggiante  come  Sole,  Achille 
Tutto  presto  alla  pugna,  e con  tremenda 
Voce  ai  paterni  corridor  sì  grida: 

Xanto  e Bàlio,  a Podarge  incliti  figli, 

Sia  vostra  cura  in  salvo  ricondurre 
Sazio  di  stragi  il  signor  vostro;  c morto 
Noi  lasciate  colà  come  Patròclo. 

Chinò  la  testa  l’ immortai  corsiero 
Xanto:  diffusa  per  lo  giogo  andava 
Fino  a terra  la  chioma;  ed  ci,  da  Giuno 
Fatto  parlante,  udir  fé  questi  accenti: 

Achille,  in  salvo  questa  volta  ancora 
Ti  trarremo  noi,  sì;  ma  ti  sovrasta 
L’ultim’ora,  nè  fia  nostra  la  colpa. 

Ma  di  Giove  e del  Fato.  Se  dell’  armi 
Spogliàr  Pàtroclo  i Troi,  non  accusarne 
Nostra  pigrizia  c tardità,  ma  il  forte 
Di  Latona  figliuolo.  Ei  nella  prima 
Fronte  l’uccise,  e dienne  a Ettòr  la  palma. 
Noi  Zefiro  sfidiamo,  il  più  veloce 
De’ venti,  al  corso;  ma  nel  Fato  è scritto 
Che  un  Dìo  te  domi  ed  un  mortai...  Troncaro 
L'  Erinni  i detti.  E a lui  l’ irato  Achille: 

Xanto,  a che  morte  mi  predir?  Non  tocca 


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V.  ijji  4-j4  libro  XIX  4'-*9 

Questo  a te.  Qui  cader  dcgglo  lontano, 

Lo  so,  dal  cari  genitore  tna  pria 
TraiTÒ  tutta  di,  guerre  a’ Troi  la  voglia. 

Oisse^  e gridando  i corridor  sospinse. 


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LIBRO  VENTESIMO 


ARGOMENTO 


CioTt  ra|;uoB  a conrilio  gli  Dei,  « loro  impoM  di  pmulrr  parte  nelU  batlaglu.  CioDonf, 
Psilade,  Merrurin,  IScitunno^  Vulcano  dùcendooo  ia  ajulo  de' Greci)  tUnno  dalla  parte 
de'  TrojaDÌ  Marte,  Aptillo,  Latona,  Diana,  Venere  e lo  Scamaodrò.  Enea , venuto  alle 
prr«e  con  Achille,  « nrroodato  dì  DcUtta  e ulvato  da  Nclluaoo.  Achille  mette  a morte 
multi  lU'  Demki , fra'  quali  Polidoro,  figlio  di  Priamo.  Eltorr,  avendo  aiaalito  AcluUe,  vtttM 
«ottnlto  de  Apollo.  Prodeue  di  Achille  che  Ca  atnge  de'  Trojani. 


Così  dintorno  a te,  marzio  Pelidc, 

Gli  Achei  melteansi  in  punto  appo  le  navi, 
E i Troi  del  campo  sul  nalto.  A Temi 
Giove  allor  comandò  che  dalle  molte 
Eminenze  d'Olimpo  a parlamento 
Convocasse  gli  Dei.  Volò  la  Diva 
D'ogni  parte,  e chiamolli  alla  stellata 
Magion  di  Giove.  Accorser  tutti;  c,  ti'anuc 
11  canuto  Oceàn,  nullo  de’ Fiumi 
Nò  delle  Ninfe  vi  maucò,  de’  boschi 
E de’  prati  e de]  fonti  abitatrici. 

Giunti  del  grande  adimator  de’ nembi 
Alle  stanze,  si  assisero  su  tersi 
Troni  che  a Giove  con  solerte  cura 
Vulcano  fabbricò.  Prese  .ciascuno 
Cheto  il  suo  posto;  ma  d.al  mar  venuto 
Obbediente  ei  pure  il  re  Nellunno , 

Tra  i maggiori  sedendosi , la  inclite 
Di  G iovc  interrogò  con  questi  accenti  : 
Perchè  di  nuovo,  fulminante  Iddio, 


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V.  31 -6o 


ILIADE,  LIBRO  XX 

CLiamì  i numi  a consiglio?  Alfin  decisa 
De’ Trojani  vuoi  forse  c degli  Achei, 

Pronti  a zuffa  mortai,  l’ultima  sorte? 

Ben  vedesti,  o Nettunno , il  mio  pensiero, 
Giove  rispose^  del  chiamarvi  è questa 
La  cagion:  benché  presso  al  fato  estremo 
E gli  uni  e gli  altri,  in  cor  mi  stanno.  Assiso 
Su  le  cime  d’Olimpo  io  qui  mi  resto 
L’ire  mortali  a contemplar  tranquillo. 

Voi  sul  campo  scendete,  e a cui  v’aggrada 
De’  Teucri  e degli  Achei  recate  aita. 

Se  pugna  Achille  ci  sol , noi  sosterranno 
Nè  pur  tampoco  i Teucri,  essi  che  jeri 
Solo  al  vederlo  nc  tremare.  Ed  oggi 
Che  d’ira  egli  arde  per  l’amico,  io  temo 
Non  anzi  il  dì  fatai  Troja  rovini. 

Disse;  c di  guerra  un  iter  desire  accese 
De’ Celesti  nel  cor,  che  in  due  divisi 
Nel  campo  si  calàr:  verso  le  navi 
Giuno  e Palla  Minerva,  e coll’accorto 
Util  Mercurio  s’ avviò  Ncttunno. 

Li  segui'a  zoppiccaudo,  e truci  intorno 
Gli  occhi  volgendo,  di  sua  forza  altero. 
Vulcano,  ed  il  sottil  stinco  di  sotto 
Gli  barcollava.  Alla  trojana  parte 
N’ andar  dell’elmo  il  crollator  Gradivo, 
L’intonso  Febo  colla  madre  e l’alma 
Cacciatrice  sorella  e Xanto  e Venere, 

Dea  del  riso.  Finché  dalle  mortali 
Turbe  i numi  fur  lungi,  orgoglio  e festa 
Menavano  gli  Achei , perché  comparso 
Dopo  lungo  riposo  era  il  Pclide, 

E corse  ai  Teucri  un  freddo  orror  per  Tossa, 
Visto  nell’ armi  lampeggiar,  sembiante 
Al  Dio  tremendo  delle  stragi,  Achille. 

Ma  quando  le  celesti  alle  terrene 
Armi  fur  miste,  una  ineffabil  surse 
Di  genti  agitatrice  aspra  contesa. 

Terribile  Minerva,  or  sull’estremo 
Fosso  volando,  ed  or  sul  rauco  lido. 


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43u 


ILIADE 


*.  ffl-lOO 


Da  questa  parte  ombilmente  grida; 

Grida  Marte  dall'altra,  a tenebroso 
Turbili  simile;  ed  or  dall' ardue  cime 
Delle  dardauie  torri,  ed  or  sul  poggio 
Di  Colone  lunghesso  il  Simocnta 
Correndo,  infiamma  a tutta  voce  i Teucri. 

Cosi  r un  campo  c l’ altro  inanimando , 
Gli  Dei  beati  gli  auulTàr,  commisti 
In  conflitto  crudcl.  Dall'alto  allora 
De'  mortali  e de’  numi  orrendamente 
11  gran  padre  tuonò  : scosse  di  sotto 
L'ampia  terra  c de’ monti  le  superbe 
Cime  Nettuuno.  Traballar  dell'  Ida 
Le  falde  tutte  e i gioghi  e le  trojane 
Rócche  e le  navi  degli  Achei.  Tremoune 
Fiuto,  il  re  de' sepolti,  c spaventato 
Diè  un  alto  grido  e si  gittò  dal  trono, 
Temendo  non  gli  squarci  la  terrena 
Vòlta  sul  capo  il  crollator  Ncttunno, 

Ed,  intromessa  colaggiù  la  luce, 

Agli  Dei  non  discopra  ed  ai  mortali 
Le  sue  squallide  bolge,  al  guardo  orrende 
Anco  del  ciel:  cotanto  era  il  fragore 
Che  dal  conflitto  de'  Celesti  uscia. 

Contea  Nettunno  il  re  dcU'arco  Apollo; 
Contea  Marte  Minerva,  e coutra  Giuuo 
Sta  delle  cacce  c degli  strali  amante 
La  sorella  di  Febo,  alma  Diana; 

Contra  il  dator  de’  lucri  c scrvatorc 
Di  ricchezze,  Mercui'io,  era  Latoua; 
Coutra  Vulcano  il  vorticoso  fiume, 

Dai  mortali  Scamandro,  e dagli  Dei 
Xauto  nomato.  E questo  era  di  numi 
Contro  numi  il  certame  e l' ordiuauza. 

Ma  di  scagliarsi  fra  le  turbe  in  cerca 
Del  Priàmide  Ettorre  arde  il  Pelide  ; 

Chò  innanzi  a tutto  gli  comanda  il  core 
Di  far  la  rabbia  marzial  satolla 
Di  quel  sangue  abborrito.  Allor,  destando 
Le  guerriere  faville,  .Apollo  spinse 


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LIBRO  XX 


. 101-l4o 

Contro  il  tessalo  eroe  d’Anchise  il  figlio: 

E,  presa  la  favella  e la  sembianza 
Del  Pr'iamejo  Licaon,  gl' infuse 
Ardimento  e valor  con  questi  accenti: 

Illustre  duce,  Enea,  dove  n' andavo 
Le  fatte  tra  le  tazze  alte  promesse 
Al  re  de’  Teucri,  che  pur  solo  avresti 
Contro  il  Pelidc  Achille  combattuto? 

Pnamidc,  e perchè,  contro  mia  voglia. 
Enea  rispose,  ad  affrontar  mi  sproni 
Queir  invitto  guerrier?  Gli  stetti  a fronte 
Pur  altra  volta,  ed  altra  volta  in  fuga 
La  sua  lancia  dall’ Ida  mi  sospinse, 

Quando,  assaliti  i nostri  armenti,  ei  Pédasu 
E Lirnesso  atterrò.  Giove  protesse 
Il  mio  ratto  fuggir:  senza  il  suo  nume 
M’ avvia  domo  il  Pelidc,  esso  e Minerva 
Che,  il  precorrendo,  lo  spargea  di  luce, 

E de’  Teucri  e de’  Lélegi  alla  strage 
La  sua  lancia  animava.  Alcun  non  sia 
Dunque  che  pugni  col  Pelidc.  Un  Dio 
Sempre  va  seco  che  il  difende,  e dritto 
Vola  sempre  il  suo  telo,  e non  s’arresta 
Finché  non  passi  del  nemico  il  petto. 

Se  della  guerra  si  librasse  eguale 
Dai  Sempiterni  la  bilancia,  ci  certo. 

Fosse  tutto  qual  vantasi  di  ferro, 

Non  avvia  meco  agevolmente  il  meglio. 

E tu  pur  prega  i numi,  o valoroso. 

Rispose  Apollo^  che  tu  pure,  è fama. 

Di  Venere  nascesti,  ed  ei  di  Diva 
Inferiore  chù  quella  a Giove,  c questa 
Al  marin  vecchio  è figlia.  Orsù;  diriz/.a 
In  lui  l’invitto  acciaro,  e non  lasciarli 
Per  minacce  fugar  dure  c superbe. 

Fatto  animoso  a questi  delti  il  duce. 
Processe  di  lucenti  armi  vestilo 
Tra  i guerrieri  di  fronte.  E lui  veduto 
Per  le  file  avanzarsi  arditameute 
Contro  il  Pelidc,  ai  collegati  numi 

•Moiiti.  Iliade.  a 8 


434 


ILIADE 


V.  i4i-i8o 


SI  volse  Giuno,  e disse:  Il  cor  volgete, 

Tu,  Nettunno,  e tu,  Pallade,  al  periglio 
Che  ne  sovrasta.  Enea  tutto  nell’ armi 
Folgorante  s’ avvia  contro  il  Pelide, 

E Febo  Apollo  ve  lo  spinge.  Or  noi 
O forziamlo  a dar  volta,  o pur  d’Achille 
Vada  in  ajuto  alcun  di  noi,  che  forza 
All’uopo  gli  ministri;  onde  s’ avvegga 
Ch’egli  ai  Celesti  più  possenti  è caro, 

E che  di  Troja  i difensor  fann’  opra 
Infruttuosa.  Vi  rammenti,  o numi. 

Che  noi  tutti  scendemmo  a questa  pugna. 
Perché  nullo  da’  Teucri  egli  riceva 
Questo  di  nocumento.  Abbiasi  dopo 
Quella  sorte  che  a lui  filò  la  Parca, 
Quando  la  madre  il  partono.  Se  istrutto 
Di  ciò  noi  renda  degli  Dei  la  voce. 

Temerà  nel  veder  venirsi  incontro 
Fra  l’armi  un  nume;  perocché  tremendi 
Son  gli  Eterni  veduti  alla  scoperta. 

Fuor  di  ragione  non  irarti,  o Giuno, 

Ché  ciò  sconvienti,  rispondea  Nettunno. 
Non  sia  che  primi  commettiam  la  pugna 
Noi  che  siamo  i più  forti.  Alla  vedetta 
Di  qualche  poggio  dalla  via  remoto 
Assidiamci  piuttosto,  ed  ai  mortali 
Resti  la  cura  del  pugnar.  Se  poscia 
Cominceran  la  zuffa  o Marte  o Febo, 

E,  rattenendo  Achille,  impediranno 
Ch’egli  entri  nella  mischia,  e noi  pur  tosto 
Susciteremo  allor  l’aspro  conflitto; 

E presto,  io  spero,  dal  valor  del  nostro 
Braccio  domati,  per  le  vie  d’Olimpo 
Ritorneranno  all’  immortai  consesso. 

Li  precorse,  ciò  detto,  il  nume  azzurro 
Verso  l’alta  bastia  che  pel  divino 
Ercole  un  giorno  con  Minerva  i Teucri 
Innalzàr,  perché  a quella  egli  potesse 
Riparato  schivar  della  vorace 
Orca  l'assalto  allor  che  furibonda 


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iSl-AlO 


LIBRO  XX 


43S 


L’ inseguisse  dal  lido  alla  pianura. 

Qui  co'  numi  alleali  il  Dio  s' assise 
D’ impenctrabil  nube  circonfuso. 

Sul  ciglio  anch’  essi  s’ adagiar  dell'  erto 
Callicolon  gli  opposti  numi  intorno 
A te,  divino  saettante  Apollo, 

E a Marte,  di  cittadi  atterratore. 

Così  di  qua,  di  là  deliberando 
Siedono  i Divi;  e niuna  parte  ardisce, 
Benché  Giove  gli  sproni,  aprir  la  pugna. 

E già  tutto  d'armati  il  campo  è pieno, 

E di  lampi  che  manda  il  riforbito 
Bronzo  de' cocchi  e de' guerrieri,  n suona 
Sotto  il  fervido  piò  de'  concorrenti 
Eserciti  la  terra.  Ed  ecco  in  mezzo 
Aflrontarsi,  di  pugna  desiosi. 

Due  fortissimi  eroi,  d'Anchisc  il  figlio. 

Ed  Achille.  Avanzossi  Enea  primiero. 
Minacciando  e crollando  il  poderoso 
Elmo^  e,  proteso  il  forte  scudo  al  petto, 

La  grand’asta  vibrava.  Ad  incontrarlo 
Mosse  il  Pelide  impetuoso,  e parve 
Truculento  Tionc,  alla  cui  vita 
Denso  stuol  di  garzoni , anzi  l' intero 
Borgo  si  scaglia^  incede  egli  da  prima 
Sprezzatamente;  ma  se  alcun  de' forti 
Assalitor  coll'asta  il  tocca,  ei  fiero,  . 
Spalancando  le  fauci,  si  rivolve 
Colla  schiuma  alle  sanne^  la  gagliarda 
Alma  in  cor  gli  sospira,  i fianchi  e i lombi 
Flagella  colla  coda,  e sé  medesmo 
Alla  battaglia  irrita;  indi  repente 
Con  torvi  sguardi  avventasi  ruggendo , 

Di  dar  morte  già  fermo  o di  morire. 

Tal  la  forza  e il  coraggio  incontro  al  franco 
Enea  sospinscr  l'orgoglioso  Achille; 

E,  giunti  a fronte,  favellò  primiero 
11  gran  Pelide:  Enea,  perché  tanl'  oltre 
Fuor  della  turba  ti  spingesti?  Forse 
Meco  agogni  pugnar,  perché  su  i Teucri 


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436 


ILIADK 


r.  a3l'2(k> 


Di  Priamo  speri  un  di  stender  lo  scettro? 
Ma  s’egli  avvegna  ancor  che  tu  m'uccida, 
Ei  non  porrallo  alle  tue  mani,  ei  padre 
Di  più  figli,  e d’età  sano  e di  mente: 

0 forse  i Teucri,  se  mi  metti  a morte. 

Un  eletto  poder  bello  di  viti 

Ti  statuirò  e di  fecondi  solchi? 

Ma  dora  impresa  t’assumesti,  io  spero ^ 
Ch’altra  volta,  mi  par,  ti  pose  in  fuga 
Questa  mia  lancia.  Non  rammenti  il  giorno 
Che  soletto  ti  colsi,  e con  veloce 
Corso  dall’  Ida  ti  cacciai  lontano 
Dalle  tue  mandre  ? Tu  volavi,  e,  mai 
Non  volgendo  la  fronte,  entro  Limesso 
Ti  riparasti.  Col  favore  io  poi 
Di  Giove  e Palla  la  città  distrussi, 

E ne  predai  le  donne,  e,  tolta  loro 
La  cara  libertà,  meco  le  trassi. 

Gli  Dei  quel  giorno  ti  scampar^  non  oggi 
Lo  faranno , cred’  io , come  t’ avvisi. 

Va,  ritirati  adunque,  io  te  n’assenno; 
Rientra  in  torba,  nè  mi  star  di  fironte. 

Se  il  tuo  peggio  non  vuoi;  chè  dopo  il  fatto 
Anche  lo  stolto  dell’  error  si  pente. 

Me  co’  detti  atterrir  come  fanciullo 
Indarno  tenti,  Enea  rispose;  anch’io 
So  dir  minacce  ed  onte,  e l’un  dell’altro 

1 natali  sappiamo,  e per  udita 

I genitori;  chè  nè  tu  conosci 

Per  vista  i miei,  ned  io  li  tuoi.  Te  prole 
Dell’egregio  Peléo  dice  la  fama, 

E della  bella  equòrea  Teti.  Io  nato 
Di  Venere  mi  vanto,  e gencrommi 

II  magnanimo  Ànchise.  Oggi  per  certo 

O gli  uni  o gli  altri  piangeranno  il  figlio; 
Chè  veruno  di  noi  di  puerili 
Ciance  contento  non  vorrà,  cred’ io, 
Separarsi  ed  uscir  di  questo  arringo. 

Ma  se  più  brami  di  mia  stirpe  udire 
Al  mondo  chiara,  primamente  Giove 


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. a6i*.Vìo 


LIBRO  XX 


437 


Dórdano  generò,  che  fondamento 
Pose  qui  poscia  alle  dardanic  mura^ 
Perocché  non  ancora  allor  nel  piano 
Sorgean  le  sacre  iliache  torri,  e il  molto 
Suo  popolo  le  idée  falde  copriva. 

Di  Dàrdano  fu  nato  il  re , d'  ogni  altro 
Più  opulente,  Erittdnio.  A lui  tre  mila 
Di  teneri  puledri  allegre  madri 
Le  convalli  pascean.  Innamorossi 
Borea  di  loro;  e,  di  destrier  morello 
Presa  la  forma,  alquante  ne  comprèsse. 

Che  sei  puledre  e sei  gli  partorirò. 

Queste,  talor  ruzzando  alla  campagna, 
Gorrean  sul  capo  delle  bionde  ariste 
Senza  pur  sgretolarle;  e se  co’ salti 
Prendean  sul  dorso  a lascivie  del  mare. 

Su  le  spume  volavano  de’  flutti 
Senza  toccarli.  D’  Erittdnio  nacque 
Tróe,  re  de’Trojani,  e poi  di  Troe 
Generosi  tre  figli,  Ilo  ed  Àssàraco, 

E il  diHforme  Ganimede,  al  tutto 
De’ mortali  il  più  bello,  c dagli  Dei 
Rapito  in  cielo,  perchè  fosse  a Giove 
Di  coppa  mescitor  per  sua  bcltade, 

Ed  abitasse  con  gli  Eterni.  Ad  Ilo 
Nacque  l’alto  figliuol  Laomedonte; 

Titone  a questo  e Priatho  c Lampo  e Clizio 
E l’alunno  di  Marte,  Icctaone: 

Àssàraco  ebbe  Capi,  e Capi  Anchise, 

Mio  genitore,  e Priamo  il  divo  Ettorrc. 
Ecco  il  sangue  eh’  io  vanto.  Il  resto  scende 
Tutto  da  Giove  che  ne’  petti  umani 
Il  valor  cresce  o scema  a suo  talento. 
Potentissimo  iddio.  Ma  tregua  ornai 
Fra  1’  armi  a borie  fanciullesche.  Entrambi 
Possiam  d’ ingiurie  aver  dovizia  c tanta, 

Che  nave  non  potria  di  cento  remi 
Levarne  il  pondo.  De’  mortai  volubile 
È la  lingua,  e ne  piovono  parole 
D’  ogni  maniera  in  largo  campo , e quale 


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Dirai  motto,  cotal  ti  ila  rimesso. 

Ma  perchè  d'onte  tenzonar,  siccome 
Stizzose  femmiiictte  che  nel  mezzo 
Della  via  si  rabbuQano,  col  vero. 

Spinte  dall’  ira , aOastclIando  il  falso  ? 

Me  qui  pronto  a pugnar  non  distorrai 
Colle  minacce  dal  cimento.  Or  via^ 

Alle  prove  dell’asta.  — E,  cosi  detto. 

La  ferrea  lancia  fulminò  nel  vasto 
Terribile  brocchicr  che  dell’  acuta 
Cuspide  al  picchio  rimugghiò.  Turbossi 
Il  Pelide , c dal  petto  colla  forte 
Mano  lo  scudo  allontanò,  temendo 
Noi  trafori  la  lunga  ombrosa  lancia 
Del  magnanimo  Enea.  Di  mente  uscito 
Eragli,  stolto!  che  mortai  possanza 
Difficilmente  dòma  armi  divine. 

Non  ruppe  la  gagliarda  asta  trojana 
11  pavese  achilleo^  chè  la  rattenne 
Dell’aurea  piastra  l’ immortai  fattura, 

E sol  due  falde  ne  forò  di  cinque 
Che  'ITulcano  v’avea  l’una  sull’altra 
Ribattute:  di  bronzo  le  due  prime ^ 

Le  due  dentro  di  stagno  ^ e tutta  d’  oro 
La  media  che  il  crudel  tronco  represse. 
Vibrò  secondo  la  sua  lunga  trave 
11  Pelide,  e colpi  dell’inimico 
L’orbicolar  rotella  all’orlo  estremo. 

Ove  sottil  di  rame  era  condotta 
Una  falda,  e sottile  il  sovrapposto 
Cuojo  taurino.  La  peliaca  antenna 
Da  parte  a parte  lo  passò.  La  targa 
Rimbombò  sotto  il  colpo:  esterrefatto 
Rannicchiossi  e scostò  dalla  persona 
Enea  lo  scudo  sollevato  ; e 1’  asta , 

Rotti  i due  cerchi  che  il  cingean,  sul  dori 
Trasvolò  furiosa,  e al  suol  si  fisse. 
Scansato  il  colpo,  si  ristette,  e immenso 
Duol  di  paura  gli  abbujò  le  luci. 

Sentita  la  vicina  asta  confitta. 


LIBRO  XX 


341  18o 


Pronto  il  Pelide  allor,  tratta  la  spada, 

Con  terribile  grido  si  disserra 
Contro  il  nemico.  Era  nel  campo  un  sasso 
D’  enorme  pondo  che  soverchio  fora 
Alle  forze  di  due  quai  la  presente 
Età  produce.  Diè  di  piglio  Enea 
À questo  sasso,  e,  agevolmente  solo 
L’agitando,  si  volse  all’ aggressore 4 
E nel  vulcanio  scudo  o nell’elmetto 
Avventato  1’  avvia,  ma  senza  offesa^ 

E a lui  per  certo  del  Pelide  il  brando 
Toglica  la  vita,  se  di  ciò  per  tempo 
Avvistosi  Nettunno,  ai  circostanti 
Celesti  non  facea  queste  parole  : 

Duoimi,  0 numi,  d’assai  del  generoso 
Elnea  che  domo  dal  Pelide  all’  Orco 
Ime  tosto  doirrà,  dalle  lusinghe 
Mal  consigliato  dell’  arderò  Apollo. 
Insensato  ! chè  nulla  incontro  a morte 
Gli  varrà  questo  Dio.  Ma  della  colpa 
Altrui  la  pena  perchè  dee  patirla 
Quest’  innocente , liberal  di  grati 
Doni  mai  sempre  agl’immortali?  Or  via 4 
Moviamo  in  suo  soccorso,  e s’ impedisca 
Che  il  Pelide  1’  uccida , e che  di  Giove 
L’ire  risvegli  la  sua  morte.  1 fati 
Dccretàr  ch’egli  viva,  onde  la  stiiq>c 
Di  Dàrdano  non  péra  interamente. 

Di  lui  che  Giove,  innanzi  a quanti  figli 
Alvo  mortai  gli  partorio,  dilesse 4 
Perocché  da  gran  tempo  egli  la  gente 
Di  Priamo  abborrc,  e su  i Trojani  ornai 
D’  Enea  la  forza  regnerà  con  tutti 
De’ figli  i figli,  e chi  verrà  da  quelli. 

Pensa  tu  teco  stesso,  o re  Nettunno, 
(liuno  rispose,  se  sottrarre  a morte 
Enea  si  debba,  o consentir,  malgrado 
La  sua  virtude,  che  Io  domi  Achille. 
Quanto  a Pallade  e a me,  presenti  i numi, 
Noi  giurammo  solenne  giuramento 


439 


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440  ILIADE  38l^jo 

Di  non  mai  da'  Trojani  la  mina 
Allontanar,  no,  s’ anco  tutta  in  cenere 
Troja  cadesse  tra  le  fiamme  achee. 

Udito  quel  parlar,  corse  per  mezzo 
Alla  mischia  e al  Iragor  delle  volanti 
Aste  Nettunno;  e,  giunto  ove  d'  Enea 
E dell’inclito  Achille  era  la  pugna. 

Una  subita  nube  intorno  agli  occhi 
Del  Peh'de  diffuse,  e dallo  scudo 
Del  magnanimo  Enea  svelto  il  ferrato 
Frassino,  al  piede  del  rivai  lo  pose. 

Indi  spinse  di  forza,  c dalla  terra 
Levò  sublime  Enea,  che  preso  il  volo 
Dalla  mano  del  Dio,  varcò  d'  un  salto 
Molte  file  d’ eroi , molte  di  cocchi , 

E all’  estremo  arrivò  del  rio  conflitto. 

Ove  in  procinto  si  mettean  di  pugna 
De’Càuconi  le  schiere.  Ivi  davanti 
Gli  si  fece  Nettunno,  e cosi  disse; 

Sconsigliato!  qual  Dio  contra  il  Peh'de 
Ti  sedusse  a pugnar,  contra  un  guerriero. 

Di  te  più  caro  ai  numi  e più  gagliardo? 

S’ altra  volta  lo  scontri,  ti  ritira. 

Onde  anzi  tempo  non  andar  sotterra. 

Morto  Achille,  combatti  audacemente^ 

Chè  nullo  Acheo  t’ ucciderà.  — Disparve 
Dopo  questo  precetto,  e alle  pupille 
Del  Peh'de  sgombrò  la  portentosa 
Caligine  : tornar  tutto  ad  un  tempo 
Chiari  al  guardo  gli  obbietti,  onde  fremendo 
Nel  magnanimo  cor:  Numi,  diss’  egli, 

Quale  strano  prodigio  ? Al  suol  giacente 
Veggo  il  mio  telo,  ma  il  gucrricr  non  veggo, 

In  cui  bramoso  di  ferir  lo  spinsi. 

Dunque  è caro  a’ Celesti  ei  pur  davvero 
Questo  figlio  d’Anchise!  ed  io  stimava 
Falso  il  suo  vanto.  E ben,  si  salvi.  Andata 
Gli  sarà,  spero,  di  provarsi  meco 
In  avvenir  la  voglia,  assai  felice 
D’ aver  posta  in  sicuro  oggi  la  vita. 


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LIBRO  XX 


Orsù  ; l’ achco  valor  riconfortato, 

Facciam  degli  altri  Teneri  esperimento. 

Sì  dicendo,  saltò  dentro  alle  file, 

E tutti  rincorò:  Prestanti  Achei, 

Non  vogliate  discosto  or  più  tenervi 
Da’  nemici  : guerrier  centra  guerriero 
Scagliatevi,  e pugnate  ardimentosi. 

Per  forte  ch’io  mi  sia,  m’è  dura  impresa 
Sol  con  tutti  azzuffarmi  ed  inseguirli. 

Nè  Marte  pure,  immortai  Dio,  nè  Palla 
A tanti  armati  reggerian.  Ma  quanto 
Queste  man,  questi  piedi  e questo  petto 
Potranno,  io  tutto  vel  consacro,  e giiu-o 
Di  non  posarmi  un  sol  momento.  Io  vado 
A sfondar  quelle  iìlej  e non  fia  lieto 
Chi  la  mia  lancia  scontrerà,  mi  penso. 

Cosi  gli  sprona;  e minaccioso  anch’esso 
Ettore  i suoi  conforta,  e contro  Achille 
Ir  si  promette:  Del  Peh'de,  o prodi, 

Non  temete  le  borie  ; anch’  io  saprei 
Pur  co’  numi  combattere  a parole , 
Coll’asta,  no;  ch’ei  son  più  forti  assai. 

Nè  tutti  avran  d’Achille  i vanti  effetto  : 

Se  l’un  pieno  gli  andrà,  l’altro  gli  fia 
Tronco  nel  mezzo.  Ad  incontrarlo  io  vado, 
S’  anco  la  man  di  fuoco  egli  s’ avesse  ; 

Sì,  di  fuoco  la  man,  di  ferro  il  pobo. 

Da  questo  dire  accesi,  alto  levaro 
L’ aste  avverse  i Trojani,  e con  immenso 
Romor  le  forze  s’ accozzar.  Si  strinse 
Allora  Apollo  al  teucro  duce,  e disse: 

Ettore,  non  andar  contro  il  Pelide 
Fuor  di  fila;  ma  tienti  entro  la  schiera, 

E dalla  turba  Io  ricevi,  e bada 

Che  di  brando  o di  strai  non  ti  raggiunga. 

Udì  del  Dio  la  voce,  e sbigottito 

Nella  timba  de’  suoi  1’  eroe  s’ immerse. 

Ma  di  gran  forza  il  cor  vestito  Achille, 

Con  gridi  orrendi  si  balzò  nel  mezzo 
De’  Trojani , e prostese  a prima  giunta 


44> 


ILUDB 


V.  ^6i*5oo 


Di  numerose  genti  un  condottiero, 
n prode  Ifiz'ion  che  ad  Otrintéo, 

Guastator  di  città,  nell'opulento 
Popolo  d’Ide  sul  nevoso  Tmolo 
Nàide  Ninfa  partorì.  Venia 
Costui  di  punta  a furia.  Il  divo  Achille 
Coll’asta  a mezzo  capo  lo  percosse, 

E in  due  lo  fésse.  Rimbombando  ei  cadde  ^ 
Ed  orgoglioso  il  vincitor  sovr’  esso 
Elsclamd:  Tremendissimo  Otrintide, 

Eccoti  a terra:  e tu  sepolcro  umile 
In  questa  sabbia  avrai , tu  che  superba 
Cuna  sortisti  alla  gigéa  palude 
Ne’  patemi  poderi  appo  il  pescoso 
Dio  e dell’  Ermo  il  vorticoso  flutto. 

Cosi  l’oltraggia;  della  morte  il  bujo 
Coprì  gli  occhi  al  meschino,  e de’  cavalli 
L’ugna  e li  chiovi  deUe  rote  achee 
Il  lasciar  nella  calca  infranto  e pesto. 

Feri  dopo  costui  Demoleonte, 
D’Ànténore  figliuolo  e valoroso 
Combattitore;  lo  ferì  sul  polso 
Della  tempia,  nè  valse  aUa  difesa 
La  ferrea  guancia  del  polito  elmetto. 

, L’ impetuosa  punta  spezzò  1’  osso , 

Sgominò  le  cervella,  che  di  sangue 
Tutte  insozzàrsi:  e così  giacque  il  fiero. 
Gittatosi  dal  carro,  Ippodamante 
Dinanzi  gli  fuggia.  L’  asta  d’Achille 
Lo  raggiunse  nel  tergo.  L’ infelice 
Eisalava  lo  spirto,  e mugolava 
Come  tauro  che  a forza  innanzi  all’  are 
D’  Elice  è tratto  da  garzon  robusti, 

E ne  gode  Nettunno.  A questa  guisa 
Muggia  quell’  alma  feroce , e spirava. 

S’  avventò  dopo  questi  a Polidoro. 

Era  costui  di  Priamo  un  figlio  : il  padre 
Gli  avea  difeso  di  pugnar,  siccome 
D minor  de’ suoi  nati  c il  più  diletto. 

Che  tutti  al  corso  li  vincea.  Di  questa 


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LtBftO  TX 


443 


r.  Sol-S^O 

Sua  virtude  di  pii  con  fancinllesca 
Demenza  vanitoso,  egli  tra' primi 
Combattenti  correa  senza  consiglio, 

Finché  morto  vi  cadde.  Il  colse  a tergo 
In  quei  trascorsi  Achille,  ove  la  cinta 
Dall’  auree  fibbie  s’  annodava , e doppio 
Scontravasi  l’  usbergo.  Q telo  acuto 
Riuscì  di  rimpetto  all' ombilico  : 

Ululò  quel  trafitto,  e su  i ginocchi 
Cascò',  curvato  colla  man  compresse 
Le  intestina,  e mortai  nube  lo  cinse. 

Come  in  quell'  atto  miserando  il  vide 
Il  suo  germano  Ettorre,  una  profonda 
Nube  di  duolo  gl’  ingombrò  le  luci. 

Nè  gli  sofierse  il  cor  di  più  ristarsi 
Dentro  la  turba;  ma,  crollando  immensa 
Una  lancia,  volò  contro  il  Pelide, 

Come  fiamma  ondeggiante.  A quella  vista 
Saltò  di  gioja  Achille;  e baldanzoso  : 

Bieco  l’uom,  disse,  che  nel  cor  m'aperse 
Sì  gran  piaga,  colui  che  il  mio  m’uccise 
Caro  compagno:  or  più  non  fuggiremo 
L’ un  1’  altro  a lungo  pei  sentier  di  guerra. 
Disse;  e al  divino  Ettòr  bieco  guatando. 
Gridò  : T’ accosta  ; chè  al  tuo  fin  se’  giunto. 

Non  pensar,  gli  rispose  imperturbato 
L’eroe  trojano,  non  pensar  di  darmi 
Per  minacce  terror,  come  a fanciullo; 

Chè  oprar  so  l'armi  della  lingua  io  pure, 

E conosco  tue  forze,  e mi  confesso 
Men  valente  di  te;  ma  in  grembo  ai  numi 
Sta  la  vittoria:  ed  avvenir  può  forse 
Ch’io  men  prode  dal  sen  1’  alma  ti  svelga: 
Affilata  ha  la  punta  anche  il  mio  telo. 
Disse;  e 1’  asta  scagliò;  ma  dal  divino 
Petto  d'Achille  la  sviò  Minerva 
Con  levissimo  soffio.  Risospinta 
Dall’  alito  immortai,  1'  asta  ritorno 
Fece  ad  Ettorre,  e al  piè  gli  cadde.  Allora 
Con  oiribile  grido  disserrossi 


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444 


ILIADE 


*•  54i*AHo 


Furibondo  il  Pelide,  impaziente 
Di  trucidarlo.  Ma  gliel  tolse  Apollo, 

Lieve  impresa  ad  un  Dio,  tutto  coprendo 
Di  folta  nebbia  Ettór.  Tre  volte  Achille 
Coll'asta  Tassali,  tre  volte  un  vano 
Fumo  tra6sse^  e con  furor  venendo 
Il  divino  guerriero  al  quarto  assalto. 
Minaccioso  tuonò  queste  parole; 

Cane  trojan,  di  nuovo  ecco  fuggisti 
L’estremo  fato  che  t’ avea  raggiunto^ 

E Febo  ti  scampò,  quel  Febo  , a cui 
Tra  il  sibilo  dei  dardi  alzi  le  preci. 

Ma  s’ altra  volta  mi  darai  nell’ ugna, 

E se  a me  pure  assiste  un  qualche  iddio. 
Ti  finirò.  Di  quanti  in  man  frattanto 
Mi  verranno  de’  tuoi,  farò  macello. 

Cosi  dicendo,  a Driiope  sospinse 
Sotto  il  mento  la  picca,  e questi  al  piede 
Gli  traboccò.  Così  lasciollo:  e,  ratto 
Scagliandosi  a Demiico,  un  grande  e prode 
Di  Filétore  figlio,  alle  ginocchia 
Lo  feri,  1’ arrestò;  poscia  col  brando 
L’alma  gli  tolse.  Dopo  questi  Dàrdano 
E Laògono  assalse,  illustri  figli 
Di  Biante;  e,  travolti  ambo  dal  cocchio. 
L’un  di  lancia  atterrò,  l’altro  di  spada. 
Poi  distese  il  trojairo  Alastorìde 
Che,  a’ suoi  ginocchi  supplice  cadendo, 
Chiedea  la  vita  in  dono,  ed  ai  conformi 
Suoi  verd’  anni  pietà.  Stolto!  chè  vano 
11  pregar  non  sapea,  nè  quanto  egli  era 
Mite  DO,  ma  feroce.  In  umil  atto 
Gli  abbracciava  i ginocchi,  cd  altro  dire 
Volea  pure  il  meschin;  ma  quegli  il  ferro 
Ncll’épate  gl’ immerse,  che  di  fuori 
Riversossi,  e di  sangue  un  nero  fiume 
Gli  fe  lago  nel  seno.  Venne  manco 
L’alma,  e gli  occhi  copri  di  morte  il  velo. 

Indi  Mulio  investendo,  entro  un’orecchia 
Gli  fisse  il  telo,  c uscir  per  1’  altra  il  fece. 


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V.  58i4Iao 


Limo  XX 


Ad  Echeclo  d'Àgénore  un  fendente 
Calò  di  spada  al  mezzo  della  testa, 

E la  spaccò;  si  tepefece  il  grande 
Aeciar  nel  sangue,  e la  purpurea  morte 
E la  Parca  possente  i rai  gli  chiuse. 
Colse  dopo  di  punta  nella  destra 
Deucalion  là  dove  i nervi  vanno 
Del  cubito  ad  unirsi.  Intormentito 
Nella  mano,  il  guerrier  vedeasi  innanzi 
La  morte,  e passo  non  movea.  Gli  mena 
Un  mandritto  il  Pelide  alla  cervice; 

Netto  il  capo  gli  mozza,  e via  coll'elmo 
Lungi  il  butta.  Schizzàr  dalle  vertebre 
Le  midolle,  e disteso  il  tronco  giacque. 
Rigmo  poscia  aggredì,  Rigmo,  dai  pingui 
Trac]  campi  venuto,  e di  Piréo 
Generoso  figliuol.  Lo  colse  al  ventre 
11  tessalico  telo , e giù  dal  cocchio 
Lo  scosse.  Allor  diè  volta  ai  corridori 
L'auriga  Arè'itóo;  ma  del  Peh'de 
L'  asta  il  giunge  alle  spalle,  e capovolto 
Tra  i turbati  cavalli  lo  precipita. 

Quale  infuria  talor  per  le  profonde 
Valli  d’  arido  monte  un  vasto  fuoco 
Che  divora  le  selve,  e in  ogni  lato 
L'agita  e spande  di  Garbino  il  soffio; 
Tale  in  sembianza  d' un  irato  iddio 
D'  ogni  parte  si  volve  furibondo 
n Peh'de,  ed  insegne  e uccide  e rossa 
Fa  di  sangue  la  terra.  E come  quando 
Nella  tonda  c polita  aja  il  villano 
Due  tauri  accoppia  di  ben  larga  fronte 
Di  Cerere  a trebbiar  le  bionde  ariste  ; 
Fuor  del  guscio  in  un  subito  saltella 
Di  sotto  al  piede  de' mugghianti  il  grano; 
Del  magnanimo  Achille  in  questa  forma 
Gl'  immortali  cornipedi  sospinti 
I cadaveri  calcano  e gli  scudi. 

L' orbe  tutto  del  cocchio  e tutto  l' asse 
Gronda  di  sangue  dalle  zampe  sparso 


446  ILIADE,  LIBRO  XX  «^,,6,4 

De’  caralli  a gran  sprazzi  e dalle  rote. 

Desio  di  gloria  il  cuor  d’Achille  infiamma, 

E r invitte  sue  mani  tntte  sozze 
Son  di  polve,  di  tabe  e di  sudore. 


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LIBRO  VENTESIMOPRIMO 


ARGOMEIVTO. 


A«ki]U  inalnniJo  i Trojani,  {taru  ae  ipùgc  orlU  cittì  • paru  oeDo  Scamandro.  Fa  pri> 
i;iocn  dodiri  giovani  per  aagriRcarli  all* ombra  ili  Patroclo.  Morto  di  Licoooo  o di  Aiton^>éo. 
Lotta  detTcroe  rollo  Sramandro.  Nel  ponto  di  caitr  aopnSitto  dal  £iuno  è lalvato  per  opera 
di  Gionone,  U quale  Ci  diuecrare  da  Vulcano  col  fuoco  le  correnti  dell*  aequa.  Pugna  degli 
Dei  fn  loro.  Agf^oere  aaaale  Achille , rd  h lalvato  da  Apollo.  11  Nume,  presa  la  figura  di 
Agt^oore,  delude  l'eroe,  che,  teuetidogU  dietro,  ù dirrta  dal  ambattÙMnlo.  Frattanto  i Trojani 
M gettano  oella  città. 


Ma  divenuti  i Teucri  alle  bell’ onde 
Del  vorticoso  Xanto,  ameno  fiume 
Generato  da  Giove,  ivi  il  Pelide 
Intercise  i fuggenti^  c parte  al  muro 
Per  lo  piano  ne  incalza,  ove  testcso 
Davan  le  spalle  al  furibondo  Ettorre 
Scompigliati  gli  Achei  (per  l’orme  istesse 
Or  dispersi  si  versano  i Trojani, 

E a tardarne  il  fuggir  densa  una  nebbia 
Giuno  intorno  spandea),  parte  negli  alti 
Gorghi  si  getta  dell’argenteo  fiume 
Con  tumulto.  La  rotta  onda  rimbomba, 
Nc  gemono  le  ripc^  e quei  mettendo 
Cupi  ululati , nuotano  dispersi 
Come  il,  rapido  vortice  li  gira. 

Qual  cacciate  dall’impeto  del  fuoco 
Alzan  repente  le  locuste  il  volo 
Sul  margo  del  ruscello  5 arde  veloce 
L’inopinata  fiamma,  e quelle  in  fretta 
Spaventate  si  gettano  nel  rio^ 


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448 


ILIADE 


V.  al*6o 


Tal  dinanzi  al  Pclide  la  sonante 
Corsia  del  Xanto  riempiasi  tutta 
Di  guerrieri  e cavalli  alla  riufnsa. 

Su  la  sponda  del  fiume  allor  poggiata 
Alle  mirici  la  peliaca  antenna, 

Strinse  l’eroe  la  spada,  e dentro  il  flutto, 
Come  deradn  lanciossi,  rivolgendo 
Opre  orrende  nel  cor.  Menava  a cerchio 
11  terribile  acciar;  s’udia  lugubre 
Dei  trafitti  il  lamento , e tinta  in  rosso 
L’onda  correa.  Qual  fugge  innanzi  al  vasto 
Delfin  la  torma  del  minuto  pesce', 

Che  di  tranquillo  porto  si  ripara 
Nei  recessi  atterrito,  ed  ei  n’ingoja 
Quanti  ne  giunge;  paurosi  i Teucri 
Così  ne’  greti  s’ascondcan  del  fiume. 

Poiché  stanca  d’ ucciderli  il  Pelide 
Sentì  la  destra,  dodici  ne  prese 
Vivi  e di  scelta,  gioventù,  che  il  fio 
Dovean  pagargli  dell’estinto  amico. 

Stupidi  per  terror  come  cervetti 
Fuor  degli  antri  ei  li  tira,  e cu’  politi 
Cuoi  di  che  strette  avean  le  gounc,  a tutti 
Dietro  annoda  le  mani , e a’  suoi  compagni , 
Onde  trarli  alle  navi,  li  commette. 

Vago  ei  poscia  di  stragi  in  mezzo  all’ acque 
Dicssi  di  nuovo  impetuoso,  e il  figlio 
Del  dardànidc  Priamo,  Licaonc, 

GU  occorse  in  quella  che  fuggia  dal  fiume. 

Ne’  paterni  poderi  un’altra  volta. 

Venutovi  notturno,  egli  l’avea 
Sorpreso  c seco  a viva  forza  addotto 
Mentre  inaccorto  con  tagliente  accetta 
I nuovi  rami  recidendo  stava 
Di  selvatico  fico,  onde  foggiarne 
Di  bel  carro  il  contorno:  all'improvvisla 
Gli  fu  sopra  in  quell’opra  il  divo  Achille, 
Che,  trattolo  alle  navi,  in  Lenno  il  cesse 
Per  prezzo  al  figlio  di  Giasone,  Euuéo. 

Ospito  poi  d’Eunéo  con  molti  doni 


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. 6i'ioo 


libro  XXI 


449 

Ne  fc  riscatto  l'imbrio  Cezione,  * 

Che  in  Arisba  il  mandò.  Di  là  fuggito 
Nascostamente,  alle  paterne  case 
Avea  fatto  ritorno:  e già  la  luce 
Undecima  splendea  che  con  gli  amici 
Si  ricreava  di  servaggio  uscito^ 

Quando  di  nuovo  il  dodicesmo  giorno 
Un  Dio  nemico  tra  le  mani  il  pose 
Del  terribile  Achille,  onde  inviarlo. 

Suo  malgrado,  alle  porte  atre  di  Fiuto. 
Riguardollo  il  Pelide^  e siccom’era 
Nudo  la  fronte  (chè  celata  e scudo 
E lancia  e tutto  avea  gittate  oppresso 
Dalla  fatica  nel  fuggir  dal  fiume, 

E vacillava  di  stanchezza  il  piede). 

Lo  riconobbe,  e irato  in  suo  cor  disse: 

Quale  agli  occhi  mi  vicn  strano  portento? 

Che  sì  che  i Teucri  dal  mio  ferro  ancisi 
Tornan  dall' ombre  di  Gocito  al  giorno! 

Come  vivo  costui?  come,  venduto 

Già  tempo  in  Lenno,  del  frapposto  mare 

Potè  l’onda  passar  che  a tutti  è freno? 

Or  ben,  dell’asta  mia  giisti  la  punta. 

Vedrem  s’ci  torna  di  là  pure,  ovvero 
Se  l’alma  terra,  che  ritien  costretti 
Anche  i più  forti,  riterrà  costui. 

Queste  cose  ei  discoiTc  in  suo  segreto 
Senza  far  passo.  Sbigottito  intanto 
Licaon  s’avvicina,  desioso 
D’ abbracciargli  i ginocchi,  e al  nero  artiglio 
Della  Parca  involarsi.  Alza  il  Fetide 
La  lunga  lancia  per  ferir^  ma  quello 
Gli  si  fa  sotto  a tutto  corso,  e chino 
Atterrasi  al  suo  piè.  Divincolando 
L’asta  sul  capo  gli  trapassa,  e in  terra 
Sitibonda  di  sangue  si  conficca. 

Supplichevole  allor  coll’ una  mano 
Le  ginocchia  gli  stringe  il  meschiuello, 

Coll’altra  gli  rattien  l' asta  confitta , 

Nè  l’abbandona^  e tuttavia  pregando: 

Mosti.  Iliade.  ^9 


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45o 


aiADE 


».  I0l-l'|0 


Deh  ferma!  ei  grida:  umilemente  io  tocco 
Le  tue  ginocchia,  Achille;  ahi  mi  rispetta; 
Miserere  di  me!  pensa  che  sacro 
Tuo  supplice  son  io;  pensa,  o divino 
Germe  di  Giove,  che  nudrito  fui 
Del  tuo  pane  quel  di  che  nel  paterno 
Poder  tua  preda  mi  facesti,  e tratto 
Lungi  dal  padre  e dagli  amici  in  Lenno, 

Di  cento  buoi  ti  valsi  il  prezio,  ed  ora 
Tre  volte  tanti  io  ti  varrò  redento. 

È questa  a me  la  dodicesma  aurora 
Che  dopo  molti  affanni  in  Ilio  giunsi; 

Ed  ecco  elle  crudel  fato  mi  mette 
In  tuo  poter:  ciò  chiaro  assai  mi  mostra 
Che  in  odio  a Giove  io  sono.  Ah!  che  a ben  corta 
Vita  la  madre  a partorir  mi  venne. 

La  madre  Laotòe,  d’Alto  figliuola. 

Di  queir  Alte  che  vecchio  ai  bellicosi 
Lélegi  impera,  e tien  suo  seggio  al  fiume 
Satnl'ocnte  nell’eccelsa  Pedaso. 

Di  questo  ebbe  la  figlia  il  re  trojano 
Fra  le  molte  sue  spose , e due  nascemmo 
Di  lei,  serbati  a insanguinarti  il  ferro. 

E l’un  tra  i fanti  della  prima  fronte 
Già  domasti  coll’asta,  il  generoso 
Mio  fratei  Polidoro,  ed  or  me  pure 
Ria  sorte  attende;  chè  non  io  già  spero. 
Poiché  nemico  mi  vi  spinse  un  Dio, 

Le  tue  mani  sfuggir.  E nondimeno  ' 

Nuovo  un  prego  ti  porgo,  e tu  del  core 
La  via  gli  schiudi.  Non  volermi,  Achille, 
Trucidar:  d’uno  stesso  alvo  io  non  nacqui 
Con  Ettor  che  t’ha  morto  il  caro  amico. 

Cosi  pregava  umil  di  Priamo  il  figlio  ì 
Ma  dispietata  la  risposta  intese: 

Non  parlar,  stolto,  di  riscatto,  e taci. 

Pria  che  Patròclo  il  dì  fatai  compiesse, 

Erami  dolce  il  perdonar  de’  Teucri 
Alla  vita,  e di  vivi  assai  ne  presi, 

Ed  assai  ne  vendetti:  ora  di  quanti 


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LIBRO  \\i 


45 1 


Fiu  che  nc  mandi  allo  mie  mani  Iddio, 
Nessun  da  morte  scamperà^  nessuno 
De'  Teucri,  e meno  del  tuo  padre  i figli. 
Muori  dunque  tu  pur.  Perchè  sì  piangi? 

Muri  Patroclo  che  miglior  ben  era. 

E me,  bello  qual  vedi  e valoroso, 

E di  gran  padre  nato  e di  una  Diva, 

Me  pur  la  morte  ad  ugni  istante  aspetta, 

E di  lancia  o di  strale  un  qualcheduno 
Anche  ad  Achille  rapirà  la  vita. 

Senti  mancarsi  lo  ginocchia  e il  core 
A quel  dir  F infelice^  e,  abbandonata 
L'asta,  accosciossi  coll’ aperte  braccia. 

Strinse  Achille  la  spada,  e alla  giuntura 
Lo  percosse  del  collo.  Addentro  tutto 
Gli  si  nascose  l'affilato  acciaro, 

E boccon  egli  cadde  in  sul  terreno. 

Steso  in  lago  di  sangue.  Àllor , d' un  piede 
Presolo  Achille,  lo  gittù  nell'onda, 

E con  acerbo  insulto:  Or  qui  ti  giaci. 

Disse,  tra'  pesci  che  di  tua  ferita 
Il  negro  sangue  lambiran  securi. 

Nè  te  la  madre  sul  funereo  letto 
Piangerà,  ma  del  mar  nell'ampio  seno 
Ti  tran'à  lo  Scamandro  impetuoso^ 

E là  qualeuno  del  guizzante  armento 

Ti  salterà  dintorno,  e sotto  l’atrc 

Crespe  dell'onda  l' adipose  polpe 

Di  Licaon  si  roderà.  Possiate 

Cosi  tutti  perir,  finché  del  sacro 

Ilio  sia  nostra  la  città,  voi  sempre 

Fuggendo,  e io  sempre  colle  stragi  al  tergo ^ 

Nè  giovcranvi  i vortici  di  questo 

Argenteo  fiume,  a cui  di  molli  turi 

Fate  sovente  sacrificio,  e vivi 

Gettar  solete  i corridor  nell'onda. 

Nè  per  questo  sarà  che  non  vi  tocchi 
Di  rio  fato  perir,  finché  la  morte 
Di  Patroclo  sia  sconta  e in  un  la  strage 
Che,  me  lontano,  degli  Achei  faceste. 


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45a 


ILIADE 


p.  i8i«9M 


Dagl' imi  gorghi  udì  Xanto  d’Achille 
Le  superbe  parole,  e,  d’alto  sdegno 
Fremendo,  divisava  in  suo  pensiero 
Come  alla  furia  dell’eroe  por  modo, 

E de’  Teucri  impedir  l’ultimo  danno. 

Intanto  il  figlio  di  Peléo  brandita 
A nuove  stragi  la  gran  lancia,  assalse 
Asteropóo,  figliuol  di  Pelegone, 

Di  Pelegon  cui  l’Assio  ampio-corrente 
Generò  Dio  commisto  a Peribéa, 

D’Acessaméno  la  maggior  fanciulla. 

A costui  si  fe  sopra  il  grande  Achille; 

E <juei,  del  fiume  uscendo,  ad  incontrarlo 
Con  due  lance  ne  venne.  Animo  e fona 
Gli  avea  messo  nel  cor  lo  Xanto,  irato 
Pe’  tanti  in  mezzo  alle  sue  limpid’onde 
Giovani  prodi  dal  Pelide  uccisi 
Spietatamente.  Avvicinati  entrambi. 

Disse  Achille  primiero:  Chi  se’  tu 
Ch’osi  fermiti  incontro,  e di  che  gente? 

Chi  m’attenta,  è figliuol  d’un  infelice. 

E a lui  di  Pelegon  l’ inclita  prole  : 

Magnanimo  Pelide,  a che  mi  chiedi 
Del  mio  lignaggio?  Dai  remoti  campi 
Della  Peonia  qua  ne  venni  (ò  questo 
Già  l’undecimo  sole),  e alla  battaglia 
Guido  i Peonj  dalle  lunghe  picche. 

Del  nostro  sangue  6 autor  l’Assio  di  lai^a 
Bellissima  corrente,  c genitore 
Del  bellicoso  Pelegon.  Di  questo 

10  nacqui,  e basU.  Or  mano  all’ armi,  o prode. 
All’ altere  minacce  alto  solleva 

11  divo  Achille  la  peliaca  trave. 

Fassi  avanti  del  par  con  due  gran  teli 
L’ambidestro  campione  Asteropéo. 

Coglie  col  primo  l’inimico  scudo. 

Ma  noi  giunge  a forar;  ché  l’aurea  squama 
Lo  vieta,  opra  d’un  Dio:  sfiora  coll  altro 
Il  destro  braccio  dell’eroe,  di  nero 
Sangue  lo  sprizza,  c dopo  lui  si  figgo. 


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¥.  2Ìl’9fiO 


LIBRO  XXI 


453 


Di  maggior  piaga  desioso  , in  terra. 

Fe  secondo  volar  contro  il  nemico 
La  sua  lancia  il  Pelide,  intento  tutto 
A trapassargli  il  cor,  ma  colse  in  fallo: 
Colse  la  ripa,  e mezzo  infitto  in  quella 
Il  gran  fusto  restò.  Dal  fianco  allora 
Trasse  Achille  la  spada,  e furibondo 
Assalse  Asteropéo  che  invan  dalPalta 
Sponda  si  studia  di  sferrar  d'Achille 
Il  frassino:  tre  volte  egli  lo  scosse 
Colla  robusta  mano,  e lui  tre  volte 
La  forza  abbandonò.  Mentre  s’accinge 
Ad  incurvarlo  colla  quarta  prova 
E spezzarlo,  d’Achille  il  folgorante 
Brando  il  prevenne,  arrecator  di  morte. 
Lo  percosse  nell’epa  all’ombelico; 

N’andàr  per  terra  gl’intestini;  in  negra 
Caligine  ravvolti  ei  chiuse  i lumi, 

E spirò.  L’uccisor  gli  calca  il  petto, 

Lo  dispoglia  dell’ armi,  e si  l’insulta: 
Statti  cosi,  meschino;  e,  benché  nato 
D’un  fiume,  impara  che  il  cozzar  co’  figli 
Del  saturnio  signor  t’è  dura  impresa. 

Tu  dell’Assio,  che  larghe  ha  le  correnti, 
Ti  lodavi  rampollo,  ed  io  di  Giove 
Sangue  mi  vanto,  e generommi  il  prode 
Eàcide  Peléo  che  i numerosi 
Mirmidòni  corregge,  e discendéa 
Eiaco  da  Giove.  Or  quanto  ò questo  Dio 
Maggior  de’  fiumi  che  nel  vasto  grembo 
Devolvonsi  del  mar,  tanto  sua  stirpe 
La  stirpe  avanza  che  da  lor  procede. 
Eiccoti  innanzi  un  alto  fiume,  il  Xanto: 

Di’  che  ti  porga,  se  lo  puote,  aita. 

Ma  che  puot’egli  centra  Giove,  a cui 
Né  il  regale  Achelòo,  né  la  gran  possa 
Del  profondo  Oceano  si  pareggia? 

E l’Oceàn,  che  a tutti  e fiumi  e mari 
E fonti  e laghi  é genitor,  pnr  egli 
Della  folgore  trema,  e dell’orrendo 


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454 


ILIADE 


V.  s6i-3o4j 


Fragor  che  mette  del  gran  Giove  il  tuono. 

Sì  dicendo,  divclse  dalla  ripa 
La  ferrea  lancia,  e su  la  sabbia  steso 
L'esanime  lasciò.  Bruna  il  bagnava 
La  corrente,  e famelici  dintorno 
Aflbllavansi  i pesci  a divorarlo. 

Visto  il  forte  lor  duce  Astcropéo 
Cader  domato  dal  Pelide , in  fuga 
Spaventati  si  volsero  i Peonj 
Lungo  il  rapido  fiume,  flagellando 
Prontamente  i corsier.  Gl' insegne  Achille, 

E Tcrsiloco  uccide  e Trasio  e Mneso, 

Enio,  Midonc,  Asti’pilo,  Ofeleste; 

E più  n'avria  trafitti  il  valoroso. 

Se  irato  il  fiume  dai  profondi  gorghi 
Non  levava  in  mortai  forma  la  fronte 
Con  questo  grido:  Achille,  tu  di  fona 
Ogni  altro  vinci,  è ver,  ma  il  vinci  insieme 
Di  fatti  indegni,  e troppo  insuperbisci 
Del  favor  degli  Dei  che  sempre  hai  teco. 

Se  ti  concesse  di  Saturno  il  figlio 
Di  tutti  i Troi  la  morte,  dal  mio  letto 
Cacciali,  e in  campo  almen  fa  tue  prodezze. 

Di  cadaveri  e d’armi  ingombra  è tutta 
La  mia  bella  corrente,  ed  impedita 
Da  tante  salme  aprirsi  al  mar  la  via 
Più  non  può  te  ^ e tu  segni  a farle  intoppo 
Di  nuova  strage.  Orsù;  desisti,  o fiero 
Prence,  e ti  basti  il  mio  stupor.  — Scamandro, 
Figlio  di  Giove,  gli  rispose  Achille, 

Sia  che  vuoi;  ma  non  io  degli  spergiuri 
Teucri  l’eccidio  cesserò,  se  pria 
Dentr’Ilio  non  li  chiudo,  e corpo  a corpo 
Non  mi  cimento  con  Ettòr.  Qui  deve 
Restar  privo  di  vita  od  esso  od  io. 

Sì  dicendo,  coll’impeto  d’nn  nume 
Avventossi  ai  Trojani.  Allor  si  volse 
Xanto  ad  Apollo:  Saettante  iddio, 

Giove  fatto  t’avea  l’alto  comando 

Di  dar  soccorso  ai  Teucri  insin  che  giunga 


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Liuno  XXI 


455 


¥.  3ol'.ì4o 

La  sera,  c il  volto  della  terra  adombri. 

E tu  del  padre  non  adempì  il  cenno? 

Mentr'egli  si  dicea,  l’audace  Achille 
Si  scagliò  dalla  ripa  in  mezzo  al  fiume. 

11  fiume  allor  si  rabbufio,  gonfiossi, 
lutorbidossi,  e furiando  sciolse 
A tutte  l’onde  il  freno:  urtò  la  stipa 
De’  cadaveri  opposti,  e li  respinse. 
Mugghiando  come  tauro,  alla  pianura. 

Servati  i vivi  ed  occultati  in  seno 
A’  suoi  vasti  recessi.  Orrenda  intorno 
Al  Pelide  ruggia  la  torbid’onda, 

E gli  urtava  lo  scudo  impetuosa 

Sì,  eh’ ci  fermarsi  non  potea  su  i piedi. 

A un  eccelso  e grand’olmo  alfin  s’apprese 
Colle  robuste  mani^  ma,  divelta 
Dalle  radici,  minò  la  pianta, 

Seco  trasse  la  ripa,  e coi  prostrati 
Folti  rami  la  fiera  onda  rattenne, 

E le  sponde  congiunse  come  ponte. 

Fuor  balza  allor  l’eroe  dalla  vorago, 

E,  messe  l’ali  al  piè,  nel  campo  vola 
Sbigottito.  Né  il  Dio  perciò  si  resta. 

Ma,  colmo  e negro  rinforzando  il  flutto, 

Vie  più  gonfio  l’ insegue,  onde  di  Marte 
Rintuzzargli  le  furie,  e de’  Trojani 
L’eccidio  allontanar.  Diè  un  salto  Achille 
Quanto  è il  tratto  d’ un’ asta,  ed  il  suo  corso 
Somigliava  il  volar  di  cacciatrice 
Aquila  fosca  che  i volanti  tutti 
Di  forza  vince  e di  prestezza.  11  bronzo 
Dell’usbergo  gli  squilla  orribilmente 
Sul  vasto  petto;  con  obliqua  fuga 
Scappar  dal  fiume  ei  tenta,  e il  fiume  a tergo 
Con  più  spesse  e sonanti  onde  l’incalza. 

Come  quando  per  l’orto  e pe’  filari 
Di  liete  piante  il  fontanier  deduce 
Da  limpida  sorgente  un  ruscelletto,  , 

E,  la  marra  alla  man,  sgombra  gl’intoppi 
Alla  rapida  linfa  che,  correndo, 


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456 


ILIADE 


9.  34i«38u 


I lapilli  rimescola,  e si  volve 
Giù  per  la  china  gorgogliando,  e avanza 
Pur  chi  la  guida  ; così  sempre  inscgue 
L'alto  flutto  il  Pelide,  c lo  raggiunge 
Benché  presto  di  piè;  chè  non  resiste 
Mortai  virtude  all' imraortal.  Quantunque 
Volte  la  fronte  gli  converse  il  forte, 

Mirando  se  giurati  a porlo  in  fuga 
Tutti  fosser  gli  Dei,  tante  il  sovrano 
Fiotto  del  fiume  gli  avvolgea  le  spalle. 
Conturbato  nell'alma,  egli  non  cessa 
D'espedirsi  e saltar  verso  la  riva, 

Ma  con  rapide  ruote  il  fiero  fiume 
Sottentrato  gli  snerva  le  ginocchia, 

E di  costa  aggirandolo,  gli  ruba 
Di  sotto  ai  piedi  la  fuggente  arena.  ' 

Levò  lo  sguardo  al  cielo  il  generoso. 

Ed  urlò:  Giove  padre,  adunque  nullo 
De'  numi  aita  l'infelice  Achille 
Contro  quest'onda?  Ah!  ch'io  la  fuggaj  c poi 
Contento  patirò  qualsia  sventura. 

Ma  nullo  ha  colpa  de'  Celesti  meco. 

Quanto  la  madre  mia  che  di  menzogne 
Mi  lattò,  profetando  che  di  Troja 
Sotto  le  mura  perirei  trafitto 
Dagli  strali  d' Apollo.  Oh  foss’io  morto 
Sotto  i colpi  d'Ettorre,  il  più  gagliardo 
Che  qui  si  crebbe!  Avrìa  rapito  un  forte 
D'un  altro  forte  almen  l'armi  e la  vita. 

Or  vuole  il  Fato  che  sommerso  io  pera 
D'oscura  morte,  ohimè!  come  fanciullo 
Di  mandre  guard’ian  cui  ne'  piovosi 
Tempi  il  torrente,  nel  guadarlo,  affoga. 

Accorsero  veloci  al  suo  lamento, 

E appressarsi  all'eroe  Palla  e Ncttunno 
In  sembianza  mortai:  lo  confortare, 

11  presero  per  mano,  e della  terra 
Sì  disse  il  grande  scotitor:  Pelidc, 

Non  trepidar:  qui  siamo  in  tua  difesa 
Due  gran  Divi,  Minerva  ed  io  Nettunno, 


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LIBnO  TLTLi 


Nè  Giove  il  vieta,  nè  dal  Fato  è fisso 
Che  ti  conquida  un  fiume;  e tu  di  questo 
Vedrai  tra  poco  abbonacciarsi  II  flutto. 

Un  saggio  avviso  porgeremti  intanto, 

Se  obbedirne  vorrai:  dalla  battaglia 
Non  ti  ristar,  se  pria  dentro  le  mura 
Dell'alta  Troja  non  rinserri  i Teuci7 
Quanti  potranno  dalla  man  fuggirti, 

Nè  alle  navi  tornar,  che  spento  Ettorre: 
Noi  ti  daremo  di  sua  morte  il  vanto. 

Disparvero,  ciò  detto,  e ai  congiurati 
Numi  tornir.  Riconfortato  Achille 
Dal  celeste  comando,  in  mezzo  al  campo 
Precipitossi.  11  campo  era  già  tutto 
Una  vasta  palude,  in  cui  disperse 
De'  trafitti  nuotavano  le  belle 
Armature  e le  salme.  Alto  al  Pch'de 
Saltavano  i ginocchi,  ed  ei  diretto 
La  fiumana  rompea,  che  a rattenerlo 
PIÙ  non  bastava;  perocché  Minerva 
Gli  avea  nel  petto  una  gran  forza  infuso. 

Nè  rallentò  per  questo  lo  Scamandro 
Gl'impeti  suoi;  ma,  più  che  pria  sdegnoso. 
Contro  il  Pelidc  sollevossi  in  alto. 
Arricciando  le  spume,  e al  Simoenta, 
Destandolo,  gridò  queste  parole: 

Caro  germano,  ad  afilrenar  vien  meco 
La  costui  furia,  o le  dardanie  torri 
Vedrai  tosto  atterrate,  e tolta  ai  Teucri 
Di  resister  la  speme.  Or  tu  deh!  corri 
Veloce  in  mio  soccorso;  apri  le  fonti; 

Tutti  gonfia  i tuoi  rivi,  e con  superbe 
Onde  t'innalza,  e tronchi  aduna  e sassi, 

E con  fracasso  ruotali  nel  petto 
Di  questo  immane  guastator  che  tenta 
Uguagliarsi  agli  Dei.  Ben  io  t' affermo 
Che  nè  bellezza  gli  varrà,  nè  forza. 

Nè  quel  divin  suo  scudo  che  di  limo 
Giacerà  ricoperto  in  qualche  gorgo 
Voraginoso.  Ed  io  di  negra  sabbia 


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458 


ILIADE 


V. 


InTolverò  luì  stesso^  c tale  un  monte 
Di  ghiaja  immenso  e di  pattume  intoriiu 
Gli  verserò,  gli  ammasserò,  che  Fossa 
Gli  Achei  raccome  non  potran:  cotanta 
La  belletta  sarà  che  lo  nasconda. 

Fia  questo  il  suo  sepolcro;  onde  non  v’abbia 
Mcsticr.  di  fossa  nell’ esequie  sue. 

Disse;  cd  alto  insorgendo  e d’atre  spume 
Ribollendo  e di  sangue  e corpi  estinti. 

Con  tempesta  piombò  sopra  il  Pelidc. 

E già  la  sollevata  onda  vermiglia 
Occupava  1’  eroe;  quando,  temendo 
Che  vorticoso  noi  rapisca  il  fiume. 

Diè  Giuno  un  alto  grido,  ed  a Vulcano: 
Sorgi,  disse,  mio  figlio;  a te  si  spetta 
Pugnar  col  Xante:  non  tardar;  risveglia 
Le  tremende  tue  fiamme.  Io  di  Ponente 
E di  Noto  a destar  dalla  marina 
Vo  le  gravi  procelle;  onde  1’  incendio 
Per  lor  cresciuto  i corpi  inveiva  e l’arme 
De’  Trojani , e le  bruci.  E tu  del  Xanto 
Lungo  il  margo  le  piante  incenerisci; 

Fa  che  avvampi  egli  stesso;  e non  lasciarti 
Nè  per  minacce  nè  per  dolci  preghi 
Svolger  dall’  opra , nè  allentar  la  forza , 

S’ io  non  tcn  porga  con  un  grido  il  segno. 
Frena  allora  gl’  incendj  j e ti  ritira. 

Ciò  detto  appena,  un  vasto  foco  accese 
Vulcano,  e lo  scagliò.  Si  sparse  quello 
Prima  pel  campo,  e i tanti,  di  che  pieno 
Il  Pelide  1’  avea,  morti  combussc. 

Si  dileguar  le  limpid’  acque,  c tutto 
Seccossi  il  pian,  qual  suole  in  un  istante 
D’autunnale  aquilon  scingarsi  al  soffio 
L’  orto  irrigato  di  recente,  c in  core 
Ne  gode  il  suo  cultor.  Seccato  il  campo, 

E combusti  i cadaveri,  si  volse 

Contro  il  fiume  la  vampa.  Ardean  stridendo 

I salci  c gli  olmi  e i tamarigi,  ardea 

II  loto  c l’alga  cd  il  cipèro  in  molta 


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K 4^t*r>oo 


LIBAO  XXt 


459 


Copia  cresciuti  su  la  verde  ripa. 

Dal  caldo  spirto  di  Vulcano  afllitli, 

E qua  e là  per  le  belle  onde  dispersi 
Guizzano  i pesci.  11  cupo  fiume  istesso 
S'infoca,  e in  voce  dolorosa  esclama: 
Vulcano,  al  tuo  poter  nullo  resiste 
De’ numi:  io  cedo  alle  tue  fiamme.  Ah!  cessa 
Dalla  contesa:  immantinente  Achille 
Scacci  pur  tutti  di  citiade  i Teucri^ 

Di  soccorsi  e di  risse  a me  che  cale  ? — 

Così  i-iarso  dalle  fiamme  ei  parla. 

Come  ferve  a gran  fuoco  ampio  Icbcte 
In  cui  di  verro  saginato  il  pingue 
Lombo  si  frolla;  alla  sonora  vampa 
Crescon  forza  di  sotto  i crepitanti 
Virgulti,  e l’onda  d’  ogni  parte  esulta; 

Si  la  bella  del  Xanto  acqua  infocata 
Bolle,  nè  puote  piu  fluir  consunta 
Ed  impedita  dalla  forza  infesta 
Dell’  ignifero  Dio.  Quindi  a Giunone 
Queir  offeso  pregò  con  questi  accenti  : 

Perchè  prese  il  tuo  figlio,  augusta  Giuno, 
Su  l’ altre  a tormentar  la  mia  corrente  1! 

Reo  ti  son  forse  più  che  gli  altri  tutti 
Protettori  de’  Troi  ? Pur  se  il  comandi, 

Mi  rimarrò  ; ma  si  rimanga  anch’  esso 
Questo  nemico,  e non  sarà,  lo  giuro, 

Mai  de’ Teucri  per  me  conteso  il  fato, 

No , s’  anco  tutta  per  la  man  dovesse 
De’  forti  Achivi  andar  Troja  in  faville. 

La  Dea  l’intese;  ed  a Vulcan  rivolta: 
Fermati,  disse,  glorioso  figlio; 

Dar  cotanto  martfr  non  si  conviene 
Per  cagion  de’  mortali  a un  Immortale. 
Spense  Vulcano  della  madre  al  cenno 
Quell’  incendio  divino , e ne’  bei  rivi 
Retrograda  tornò  l’onda  lucente. 

Domo  il  Xanto,  quetàrsi  i due  rivali; 

Chè  cosi  Giuno  comandò,  quantunque 
Calda  di  sdegno.  Ma  tra  gli  altri  numi 


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46o 


ILIADE 


« 501.540 


Più  tremenda  risorse  la  contesa. 

Scissi  in  due  parti  s’avanzàr  sdegnosi 
L’  un  contro  P altro  con  fracasso  orrendo  : 
Ne  muggì  l’ampia  terra,  c le  celesti 
Tube  squillar;  sull’ alte  vette  assiso 
Dell’  Olimpo  n’  udì  Giove  il  clangore, 

E il  cor  di  gioia  gli  ridea,  mirando 
La  divina  tenzone:  e già  sparisce 
Tra  gli  eterni  guerrieri  ogn’  intervallo. 
Truce  di  scudi  forator  diè  Marte 
Le  mosse,  e primo  colla  lancia  assalsc 
Minerva,  e ontoso  favellò:  Proterva 
Audacissima  Dea , perchè  de'  numi 
L’ ire  attizzi  cosi?  Non  ti  ricorda 
Quando  a ferirmi  concitasti  il  figlio 
Di  Tidéo,  Diomede,  e,  dirigendo 
Della  sua  lancia  tu  raedesma  il  colpo. 
Lacerasti  il  mio  corpo?  Il  tempo  è giunto 
Che  tu  mi  paghi  dell’  oltraggio  il  fio. 

SI  dicendo,  avventò  l’insanguinato 
Marte  il  gran  telo,  e ne  ferì  1’  orrenda 
Egida  che  di  Giove  anco  resiste 
Alle  saette.  Si  ritrasse  indietro 
La  Dira,  e ratta  colla  man  robusta 
Un  macigno  afferrò  che  negro  e grande 
Giacea  nel  campo,  dalle  prische  genti 
Posto  a confine  di  poder.  Con  questo 
Golpi  l’impetuoso  iddio  nel  collo, 

E gli  sciolse  le  membra.  Ei  cadde,  e steso 
Ingombrò  sette  jugeri;  le  chiome 
Insozzarsi  di  polve,  e orrendamente 
L’ armi  sul  corpo  gli  tonàr.  Sorrise 
Pallade , e altera  l’ insultò  : Demente  ! 

Che  meco  ardisci  gareggiar:  non  vedi 
Quant’ io  t’avanzo  di  valor?  Va,,  sconta 
Di  tua  madre  le  furie,  e dal  suo  sdegno 
Maggior  castigo,  dell’ aver  tradito 
Pe’ Teneri  infidi  i giusti  Achei,  t’aspetta. 

Cosi  detto,  le  lucide  pupille 
Volse  altrove.  Frattanto  al  Dio  prostrato 


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Lino  SUI 


461 


Venere  accorse,  per  la  mano  il  prese, 

E lui,  ebe  grave  sospira,  e a fatica 
Riaver  può  gli  spirti,  altrove  adduce. 

L'alma  Giuno  li  vide,  ed  a Minerva; 

Guarda , disse , di  Giove  invitta  figlia  , 
Guarda  quella  impudente:  ella  di  nuovo 
Fuor  dell’  aspro  conflitto  via  ne  mena 
Queir  omicida.  Ah!  vola,  e su  lor  piomba. 

Volò  Minerva,  e gl’  inseguì.  Di  gioja 
11  cor  ballava;  e,  fattasi  lor  sopra. 

Colla  terribil  mano  a Citeréa 
Tal  diè  un  tocco  nel  petto,  che  la  stese: 
Giaceano  entrambi  riversati,  e altera 
Su  lor  Minerva  gloriossi,  e disse: 

Fosser  tutti  così  questi  di  Troja 
Proteggitori,  a disfidar  venuti 

I loricati  Achei  I Fossero  tutti 

Di  fermezia  e d’ardir  pari  a Ciprigna 
Di  Marte  ajutatrice  e mia  rivale! 

E noi,  distrutte  d’ Ilion  le  torri, 

Già  poste  l’armi  da  gran  tempo  avremmo. 
Udì  la  Diva  dalle  bianche  braccia 

II  motteggio,  e sorrise.  A Febo  allora 
Disse  il  sire  del  mar:  Febo,  già  sono 

Gli  altri  alle  prese;  e noi  ci  stiamo  in  posa? 
Ciò  del  tutto  sconviensi;  onta  saria 
Tornar  di  Giove  ai  rilucenti  alberghi 
Senza  far  d’  armi  paragon.  Comincia 
Tu  minore  d’età;  chè  non  è bello 
A me,  più  saggio  e antico,  esser  primiero. 
Oh  povero  di  senno  e d’ intelletto  ! 

Non  ricordi  più  dunque  i tanti  affanni 
Che  noi  da  Giove  ad  esular  costretti 
Intorno  ad  Ilio  sopportammo  insieme. 

Noi  soli  e numi,  allor  che  all’orgoglioso 
Laomedonte  intero  un  anno  a prezzo 
Pattuimmo  il  servir  ? Duri  comandi  , 

11  tiranno  ne  dava.  Ed  io  di  Troja 
L’ alta  cittade  edificai , di  belle 
Ampie  mura  la  cinsi  e di  securi 


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462  ILI\DE  I».  58|'6}u 

Baluardi^  c tu,  Febo,  alle  selrosc 
Idée  pendici  pascolavi  intanto 
Le  cornigere  mandre.  Ma  condotta 
Dalle  grate  Ore  del  servir  la  fine, 

Ne  frodò  la  mercede  il  re  crudele, 

E minaccióso  ne  scacciò,  giurando 
Che  te  di  lacci  avvinto  e mani  e piedi 
In  isola  remota  avrìa  venduto, 

E mozze  inoltre  ad  ambeduo  1’  orecchie. 

Frementi  di  rancor  per  la  negata 
Pattuita  mercede,  immantinente 
Noi  ne  partimmo.  E questo  forse  il  merlo 
Ch’  or  le  sue  genti  a favorir  ti  move , 

Anzi  che  nosco  procurar  di  questi 
Fedifraghi  Trojani  e de’  lor  figli 
E delle  mogli  la  total  mina? 

Possente  Enosigeo,  rispose  Apollo, 

Stolto  davvero  ti  parrei,  se  teco 
A cagion  de’ mortali  io  combattessi, 

Che  miseri  c quai  foglie  or  fireschi  sono, 

Or  languidi  e appassiti.  Usciamo  adunque 
Del  campo,  e sia  tra  lor  tutta  la  briga. 

Ciò  detto , altrove  s’  avviò , nè  volle 
Alle  mani  venir,  per  lo  rispetto 
Di  quel  Nume  a lui  zio.  Ma  la  sorella 
Di  belve  agitatrice  aspra  Diana 
Con  acri  molli  il  rampognò:  Tu  fuggi. 

Tu  che  lungi  saetti?  e tutta  cedi 
Senza  contrasto  al  re  Ncttun  la  palma  ? 

Vile!  a che  dunque  nelle  man  quell’arco? 

Ch’  io  non  t’  oda  più  mai  nella  patema 
Reggia  tra’ numi,  come  pria,  vantarli 
Di  combattere  solo  il  re  Neltunno. 

Non  le  rispose  Apollo;  ma  sdegnosa 
Si  rivolse  alla  Dea  di  strali  amante 
La  veneranda  Giuno,  e sì  la  punse 
Con  acerbo  ripiglio  : E come  ardisci  ! 

SUrmi  a fronte,  o proterva?  Di  poss-anza 
Mal  tu  puoi  meco  gareggiar,  quantunque 
D’  arco  armata.  Gli  è ver  che  fra  le  donne 


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K 6ai«66o 


LIBRO  1X1 


463 


Ti  fe  Giove  un  l'ione,  e qual  ti  piaccia 
Ti  concesse  ferir  ^ ma  per  le  selve 
Meglio  ti  fia  dar  morte  a capri  e cervi, 

Che  pugnar  co’ più  forti.  E se  provarti 
Vuoi  pur,  ti  prova,  e al  paragone  impara 
Quanto  io  sono  da  più.  — Ciò  detto,  al  polso 
Colla  manca  le  afferra  ambe  le  mani, 

Colla  dritta  dagli  òmeri  le  strappa 
Gli  aurei  strali,  e,  ridendo,  su  1’ orecchia 
Gli  sbatte  alla  rivai  che  d’ogni  parte 
Si  divincola^  e sparse  al  suol  ne  vanno 
Le  aligere  saette.  Alfin  di  sotto 
Le  si  tolse,  e fuggi  come  colomba 
Che,  da  grifagno  augel  per  venturoso 
Fato  scampata,  ad  appiattarsi  vola 
Nel  cavo  d’una  rupe.  Ella,  piangendo. 

Così  fuggia,  lasciate  ivi  le  frecce. 

Parlò  quindi  a Latona  il  messaggiero 
Àrgicida:  Latona,  io  non  vo’teco 
Cimentarmi^  il  pugnar  colle  consorti 
Del  nimbifero  Giove,  è dura  impresa. 

Va  dunque,  e franca  fra  gli  eterni  Dei 
D’ avermi  vinto  per  valor  ti  vanta. 

Cosi  dicea -Mercurio^  e quella  intanto 
Gli  sparsi  per  la  polve  archi  e quadrelli 
Raccogliea  della  figlia,  e la  scguia^ 

Chè  all’Olimpo  salita  entro  l’ eterne 
Stanze  di  Giove  avea  già  messo  il  piede. 

Su  i patemi  ginocchi,  lagrimando, 

La  vergine  s’ assise , c le  tremava 
L’  ambrosio  manto  sul  bel  corpo.  Il  padre 
La  si  raccolse  al  petto,  e con  un  dolce 
Sorriso  dimandò  ; Chi  de’  Celesti 
Temerario  t’ offese,  o mia  diletta, 

Come  còlta  in  error?  — La  tua  consorte. 
Cinzia  rispose,  mi  percosse,  o padre, 

Giunon  che  sparge  fra  gli  Dei  le  risse. 

Mentre  in  cielo  seguian  queste  parole, 
Febo  entrava  nel  sacro  Dio  a difesa 
Dell’alto  muro^  perocché  temea 


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,{64 


ILlÀO£ 


V.  66i>7oo 


Noi  prendeste  in  qncl  di,  pria  del  destino, 
Degli  Àchivi  il  valor.  Ma  gli  altri  Eterni 
All'Olimpo  tomaro,  irati  i vinti, 

Festosi  i vincitori;  e ognnn  dintorno 
Ai  procelloso  genitor  s' assise. 

11  Pelide  struggea  pel  campo  intanto 
I Trojani,  c stendea  confusamente 
Cavalli  e cavalier.  Come  fra  densi 
Globi  di  fumo,  che  si  volve  al  ciclo, 

Un  gran  fuoco,  in  cui  soffia  ira  divina, 

Una  cittade  incende,  e a tutti  arreca 
Travaglio  e a molti  esizio;  a questa  immago 
Dava  Achille  ai  Trojani  angoscia  e morte. 

Stava  sull’alto  d'  una  torre  il  veglio 
Priamo;  e,  visti  fuggir  senza  ritegno. 

Senza  far  più  difesa,  i Troi  davanti 
Al  gigante  guerricr,  mise  nno  strido, 

E calò  dalla  torre,  onde  ai  custodi 
Degl'  ingressi  lasciar  lungo  le  mura 
Questi  avvisi;  Alle  man  tenete,  o prodi, 
Spalancate  le  porte  insin  che  tutti 
Nella  città  sicn  salvi  i fuggitivi 
Dal  diro  Achille  sbaragliati.  Ahi,  giunto 
Forse  è l'ultimo  danno!  Come  dentro 
Siensi  messe  le  schiere,  e ognun  respiri, 
Riscrrate  le  porte,  e saldamente 
Sbarratele;  eh’  io  temo  non  irrompa 
Fin  qua  dentro  il  furor  di  questo  fiero. 

Al  comando  rogai  schiusero  quelli 
Tosto  le  porte,  e ne  levar  le  sbarre; 

Onde  una  via  s'  aperse  di  salute. 

Fuor  delle  soglie  allor  lauciossi  Apollo 
In  soccorso  de' Troi  che  dritto  al  muro 
Fuggian  da  tutto  il  campo  arsi  di  sete, 

Sozzi  di  polve.  E impetuoso  Achille, 

Come  il  porta  furor,  rabbia,  ira  e brama 
Di  sterminarli,  gl’inseguia  coll’asta; 

Ed  era  questo  il  punto,  in  che  gli  Achei 
Dell’alta  Troja  avrian  fatto  il  conquisto. 

Se  Febo  Apollo  l’  antenóreo  figlio , 


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70I  /4® 


LIBRO  XXI 


465 


Agenore,  guerrier  d'alta  prestanza, 

Non  eccitava  alla  battaglia.  Il  Dio 
Gli  fe  coraggio,  gli  si  mise  al  fianco. 

Onde  lungi  tenergli  della  Parca 
I gravi  artigli;  ed  appoggiato  a un  faggio, 
*Di  caligine  tutto  si  ricinse. 

Come  Agénore  il  truce  ebbe  veduto 
Guastator  di  città,  fermossi,  e,  molti 
Pensier  volgendo,  gli  ondeggiava  il  cure, 

G dicca  doloroso  in  suo  segreto: 

Misero  me!  se  dietro  agli  altrì  io  fuggo 
Per  timor  di  quel  crudo,  egli,  malgrado 
La  mia  rattezza,  prenderammi , e morte 
Non  decorosa  mi  darà.  Se  mentre 
Ei  va  questi  inseguendo,  io  d’altra  parte 
M’involo,  e d’ilio  traversando  il  piano, 
Dell’lda  ai  gioghi  mi  riparo,  e quivi 
Nei  roveti  m’appiatto,  indi  la  sera 
Lavato  al  fiume,  e rinfrescato  a Troja 
Mi  ritorno...  Oh!  che  penso?  Egli  non  puote 
Non  veder  la  mia  fuga,  e arriverammi 
Precipitoso  con  più  presti  piedi. 

E allor  dall’  ugna  di  costui , che  tutti 
Vince  di  forza,  chi  mi  scampa?  Or  dunque. 
Poiché  certa  è mia  morte,  ad  incontrarlo 
Vadasi  in  faccia  alla  cittade.  Ei  pure 
Ha  corpo  che  si  fora,  e un’alma  sola; 

E benché  Giove  glorioso  il  renda, 

Mortai  cosa  lo  dice  il  comun  grido. 

Verso  Achille,  in  ciò  dir,  vòlta  la  fronte, 

E desioso  di  pugnar  l’aspetta. 

Come  da  folto  bosco  una  pantera 
Sbucando,  affronta  il  cacciator,  né  teme 

I latrati , nè  fugge , e s’  anco  avvegna 
Ch’ ei  l’impiaghi  primier,  la  generosa 

II  furor  non  rallenta,  innanzi  eh’  ella 
O gli  si  stringa  addosso,  o resti  uccisa; 

Così  ricusa  di  fuggir  1'  ardito 
D'Antenore  figliuol,  se  col  Pelide 

Pria  non  fa  prova  di  valor.  Protese 
Mosti.  Iliatie.  3o 


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Dunque  al  petto  lo  scudo,  e,  nel  nemico 
Tolta  la  mira,  alto  gridò:  Per  certo 
De’  magnanimi  Teucri , illustre  Achille , 
Atterrar  ti  speravi  oggi  le  mura. 

Stolto!  n’avrai  penoso  affare  ancora^ 

Chè  là  dentro  siam  molti  e valorosi. 

Che  ai  cari  padri,  alle  consorti,  ai  figli 
Difendiam  la  cittade^  e tu,  quantunque 
Guerrier  tremendo,  giacerai  qui  steso. 

Sì  dicendo,  lanciò  con  vigoroso 
Polso  la  picca,  e nello  stinco  il  colse 
Sotto  il  ginocchio.  Risonò  lo  stagno 
Dell’  intatto  stinier^  ma  il  ferro  acuto. 
Senza  forarlo,  rimbalzò  respinto 
Dalle  tempre  divine.  Impetuoso 
Scagliossi  Achille  al  feritore  ma  ratto, 

Gl’ invidiando  quella  lode.  Apollo 
Involò  l’avversario  alla  sua  vista. 
L’avvolgendo  di  nebbia,  e queto  queto 
Dal  certame  lo  trasse,  e via  lo  spinse. 

Indi  tolta  d’Agònore  la  forma , 

Diessi  in  fuga,  e sviò  con  quest’inganno 
Dalla  turba  il  Pelide  che  veloce 
Dietro  gli  move,  e incalzalo,  e piegarne 
Vèr  Io  Scamandro  studiasi  la  fuga. 

Noi  precorre  il  fuggente  a tutto  corso. 

Ma  di  poco  intervallo;  e colla  speme 
Sempre  Palletta  d’ una  pronta  presa, 

E sempre  lo  delude.  Intanto  a torme 
Spaventati  si  versano  i Trojani 
Dentro  le  porte.  In  un  momento  tutta 
Di  lor.  fu  piena  la  città;  chè  nullo 
Rimanersene  fuori  non  sostenne. 

Nè  il  compagno  aspettar,  nè  dei  campati 
Dimandar,  nè  de’ morti.  Ognun,  che  snelle 
A salvarsi  ha  le  piante,  alla  rinfusa 
Dentro  si  getta , e dal  terror  respira. 


LIBRO  VENTESIMOSECONDO 


ARGOMENTO 


EooikIom  i Trojaai  riArhiiiù  Della  nttà,  il  >olo  Ettore  rùnaue  «otto  le  mura  ini  .ittrnJi-rc 
Achille  <li  pictle  fermo.  Timore  e |«rule  di  Priamu  e di  Ecul«a.  Ettore  ù pone  iu  fuga  ^ia 
\itta  d’Achille,  che,  rìronoKiiitn  ]'iog.inno  iti  A|>oUo,  ritorna  verso  'rmja.  (jio«e  le  sorti 
ilei  due  capitani.  Minerva  «otto  U figura  ili  neifobo  ìiuliga  Ellure  a ciascnlarsi  con  Achille. 
ComUattimeDlo  degli  erui.  Ettore  , (èritu  a morte  , supplKa  il  ueaiicu  di  rendere  il  suo  cada* 
vere  ai  genitori.  Dura  risposta  di  AchiUe.  Parole  c nsorte  di  Ettore.  Iiuullt  d’Achille  sull'c» 
stinto  * vaiu  laldama  dei  Greci.  Achille,  disinvitato  il  cadavere,  gli  fora  i piedi,  e li  In  lega, 
e strasciua  dietro  U soo  carro.  Coslenusioiic  e lamenti  di  Eculia.  di  Priamù  e d’AuJrùma<-a. 


Cosi  quai  cervi  paurosi,  i Teucri 
Nella  città  fuggian  confusamente, 

E davano,  appoggiati  agli  alti  merli, 

Al  sudor  refrigerio  cd  alla  sete. 

Mentre  gli  Achei  con  inclinali  scudi 
Si  fan  sotto  alle  mura.  Ma  la  Parca 
Dinanzi  ad  Ilio  su  le  porte  Scec 
Rattcnne  immoto,  come  astretto  iti  ceppi, 
Lo  sventurato  Ettór.  Fece  ad  Achille 
L’ arcicro  Apollo  allor  queste  p.arolc: 
Perchè  mortale  un  Immortal  persegui, 

O figlio  di  Pelèo?  Non  anco  avvisi, 

Cieco  furente,  che  un  Celeste  io  sono  ? 

Dei  fugati  Trojani  e nel  riparo 
D'Ilio  già  chiusi  ogni  pensicr  ponesti, 

E qua  sviasti  il  tuo  furor.  Che  speri  ! 
Uccidermi  ? Son  nume.  — E nume  infesto, 
E di  tutti  il  peggior  ( rispose  acceso 
Di  grand’  ira  il  Pelide  ).  A questa  parte 
M’hai  deviato  dalle  mura,  c tolto 


468 


ILIADE 


¥.  si4So 


Che  molti,  prima  d’arrivar  là  dentro, 
Mordessero  la  polve.  Ah!  mi  rapisti 
Un  gran  vanto,  e quei  vili  in  salvo  hai  messo. 
Perchè  non  temi  la  vendetta  mia) 

Ma  la  farei  ben  io,  se  la  potessi. 

Tacque)  e drizzassi  alla  città,  volgendo 
Terribili  pensieri , e il  piè  movea 
Rapido  come  vincitor  de' ludi 
Animoso  destrier  che  per  1'  arena 
Fa  le  ruote  volar.  Primo  lo  vide 
Precipitoso  correre  pel  campo 
Priamo,  e da  lungi  folgorar,  siccome 
L’astro  che  cane  d'  Orion  s'  appella, 

E precorre  1’  autunno)  scintillanti 
Fra  numerose  stelle  in  densa  notte 
Manda  i suoi  raggi;  splendidissim’ astro , 

Ma  luttuoso  e di  cocenti  morbi 
Ai  miseri  mortali  apportatore. 

Tal  del  volante  eroe  sul  vasto  petto 
Splendean  Tarmi.  Ululava,  e colle  mani 
Alto  levate  si  battea  la  fronte 
11  buon  vecchio,  e chiamava  a tutta  voce 
L’amato  figlio,  supplicando:  e questi 
Fermo  innanzi  alle  porte  altro  non  ode. 

Che  il  desio  di  pugnar  col  suo  nemico. 

AUor  le  palme  il  misero  gli  stese, 

E questi  profierì  pietosi  accenti: 

Mio  diletto  figliuolo,  Ettore  mio. 

Deh!  lontano  da’ tuoi  da  solo  a solo 
Non  affrontar  costui,  che  di  fortezza 
D’assai  t’è  sopra.  Oh  fosse  in  odio  il  crudo 
Agli  Dei,  quanto  a me!  Pasto  di  belve 
Ei  giacerla  qui  steso  ( e del  mio  petto 
Avria  fine  l’ angoscia  ) , ei  che  di  tanti 
Orbo  mi  fece  valorosi  figli, 

Quale  ucciso,  qual  tratto  alle  remote 
Rive,  e venduto.  Ed  or  fra  i qui  rinchiusi 
Teucri  i due  figli , ahi  lasso  ! ancor  non  veggo, 
Che  l’esimia  consorte  Laotóe 
A me  produsse,  Polidoro,  io  dico. 


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V 6i-ioo 


LIBRO  KXIl 


i'«) 

R Licaon.  Se  prigionieri  ei  sono, 

Con  auro  e bronzo  ne  farem  riscatto; 

Ch'io  n’ho  molte  conserve,  e molto  avere 
Diè  l’egregio  vegliardo  Alte  alla  figlia. 

Se  poi  ne’  regni  già  passar  di  Piato , 

Alto  sarà  su  la  lor  morte  il  pianto 
Della  madre  ed  il  mio , ma  brevi  i'  lutti 
Del  popolo,  ove  spento  tu  non  cada 
Dal  Pelide,  tu  pur.  Rientra  adunque, 

Mio  dolce  figlio,  nelle  mura,  e i Teucri 
Conservane  e le  spose.  Al  diro  Achille 
Non  lasciar  sì  gran  lode:  abbi  pensiero 
Della  cara  tua  vita  ; abbi  pietade 
Di  me  meschino,  a cui  non  tolse  ancora 
La  sventura  il  sentir,  di  me  che  misi 
Già  nelle  soglie  di  vecchiezza  il  piede, 

Dall’alta  condannato  ira'di  Giove 
Di  ria  morte  a perir,  vista  di  mali 
Prima  ogni  faccia,  trucidati  i figli. 

Rapite  le  fanciulle,  i casti  letti 
Contaminati,  crudelmente  infranti 
Contro  terra  i bambini,  e strascinate 
Dall’empio  braccio  degli  Achei  le  nuore. 

£d  ultimo  me  pur  su  le  regali 
Porte  trafitto  e spoglia  abbandonata 
Voraci  i cani  sbraneran,  que’  cani 
Che  custodi  io  nudria  del  regio  tetto 
Alla  mia  mensa  io  stesso;  e allor,  da  ingorda 
Rabbia  sospinti,  disputar  vedransi 
11  mio  sangue,  e di  questo  alfin  satolli 
Ne’ portici  sdraiarsi.  Ah,  bello  è in  campo 
Del  giovine  il  morir!  Coperto  il  petto 
D’onorate  ferite,  onta  non  avvi. 

Non  offesa  che  morto  il  disonesti. 

Ma  che  ludibrio  sìa  degli  affamati 
Mastini  il  capo  venerando  e il  bianco 
Mento  d’ un  veglio  indegnamente  ucciso, 

Che  sia  bruttato  il  nudo  e verecondo 
Suo  cadavere,  ah!  questo,  è questo  il  colmo 
Dell’  umane  sventure.  E,  sì  dicendo, 


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ILIADE  r.  10I-l4i> 

Strappasi  il  veglio  dall'  augusto  capo 
1 canuti  capei;  ma  non  si  piega 
L’  alma  d’  Èttorre.  Desolata  accorse 
D’altra  parte  la  madre;  c,  lagrimando, 

E nudandosi  il  seno,  la  materna 

Poppa  scoperse;  e:  A questa  abbi  rispetto, 

Singhiozzante  sciamava,  a questa,  o figlio. 

Che  calmò,  lo  ricorda,  i tuoi  vagiti. 

Rientra,  Ettore  mio;  fuggi  cotesto 
Sterminatore;  non  istargli  a petto. 

Sciaurato!  Non  io,  s’cgli  t’uccide, 

Non  io  darti  potrò,  caro  germoglio 
Delle  viscere  mie,  su  la  funebre 
Bara  il  mio  pianto,  nè  il  potrà  1'  illustre 
Tua  consorte:  e tu  lungi  appo  le  navi 
Giacerai  degli  Achivi,  esca  alle  belve. 

Questi  preghi  di  lagrime  interrotti 
Porgono  al  figlio  i dolorosi,  c nulla 
Persuadon  1’  eroe  che  fei-mo  attende 
Lo  smisurato  già  vicino  Achille. 

Quale  in  tana  di  tristi  erbe  pasciuto 
Fero  colubro  il  viandante  aspetta, 

E gonfio  di  grand’  ira , orribilmente 
Guatando  intorno,  nelle  sue  latebre 
Lubrico  si  convolvc;  e tale  il  duce 
Trojan,  di  sdegni  generosi  acceso. 

Appoggiato  lo  scudo  a una  sporgente 
Torre,  sta  saldo;  e nel  gran  cor  rivolge 
Questi  pensieri  : Che  farò  ? Se  metto 
Là  dentro  il  piè,  Polidamante  il  primo 
Rampognerammi  acerbo,  ei  che  la  scorsa 
Notte  esortommi  alla  città  ritrarre. 

Comparso  Achille,  i Teucri;  ed  io  noi  feci: 

E si  quest’  era  il  meglio.  Or  che  la  mia 
Pertinacia  fatai  tutti  li  trasse 
Nella  mina,  sostener  l’aspetto 
Più  non  oso  de’  Troi  nè  dell’  altere 
Trojane;  e parmi  già  i peggioi'i  udire  : 

Ecco  là  queir  Ettór  che,  di  sue  forae 
Troppo  fidando,  il  popolo  distrusse. 


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. l4l-l8o  LIBRO  XXII  47  ‘ 

Così  diranno,  e meglio  allor  mi  fia 
Combattere,  e reddir,  prostrato  Achille, 

Nella  citlade,  o per  la  patria  mia 
Aver  qui  morte  gloriosa  io  stesso. 

Pur  se  deposto  e scudo  e lancia  ed  elmo, 

Io  medesmo  mi  féssi  incontro  a questo 
Magnanimo  rivale,  e la  spartana 
Donna  cagion  di  tanta  guerra,  e tutte 
Gli  promettessi  le  con  lei  portate 
Da  Paride  ricchezze,  ed  altre  ancora 
Da  partirsi  agli  Achei,  quante  ne  chiude 
Questa  città  4 se  con  tremendo  giuro 
Quindi  i Trojani  a rivelar  stringessi 

I riposti  tesori,  ed  in  due  parti 
Dividendoli  lutti...  Oh  che  vaneggia 

Mai  la  mia  mente!  Io  supplice,  io  dimesso 
Presentarmi  ? Il  crudel , nulla  m’ avendo 
Nè  pietà  nè  rispetto  ( ov’  io  dell’  armi 
Nudo  a lui  vada),  disarmato  ancora. 

Qual  donna  imbelle,  metterammi  a morte^ 

Ch’  ei  non  è tale  da  poter  con  esso 
Novellar  dal  querceto  o dalla  rupe 
Come  amanti  garzoni  e donzellette. 

A donzellette  adunque  ed  a garzoni 
Le  dolci  fole 4 a me  la  pugna:  e tosto 
Vedrassi  cui  darà  Giove  la  palma. 

Cosi  seco  ragiona,  e fermo  aspetta. 

Ed  ecco  Achille  avvicinarsi,  al  truce 
Dell’  elmo  agitator  Marte  simile. 

Nella  destra  scotea  la  spaventosa 
Peliaca  trave;  come  viva  fiamma, 

O come  disco  di  nascente  Sole 
Balenava  il  suo  scudo.  Il  riconobbe 
Ettore , e freddo  corsegli  per  1’  ossa 
Un  tremor;  nè  aspettarlo  ci  più  sostenne; 

Ma,  lasciate  le  porte,  a fuggir  diessi 
Atterrito.  Spiccossi  ad  inseguirlo 
Fidato  Achille  ne’  veloci  piedi. 

Qual  ne’  monti  sparvicr  che,  de’ volanti 

II  più  ratto,  si  scaglia  impetuoso 


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47» 


ILIADE 


r.  i8t*2au 


Su  pavida  colomba^  ella  scn  fugge 
• Obbliquamentc,  c quei,  doppiando  il  volo, 
Vie  più  l’ incalza  con  acuti  stridi , 

Di  ghermirla  bramoso^  a questa  guisa 
L’ ardente  Achille  difilato  vola 
Dietro  il  trepido  Ettdr  che  in  tutta  fiiga 
Mena  il  rapido  piè,  rasente  il  muro. 
Trascorsero  veloci  la  collina 
Delle  vedette^  oltrepassar,  lunghesso 
La  callaja,  il  selvaggio  aèreo  fico 
Sempre  sotto  alle  mura^  e già  venuti 
Son  deir  alto  Scamandro  alle  due  Tonti. 
Calida  è l'una,  c qual  di  fuoco  acceso 
Spandesi  intorno  di  sue  linfe  il  fumo^ 
Fredda  come  gragnuola  o ghiaccio  o neve 
Scorre  l’altra  di  state:  ambe  son  cinte 
D' ampi  lavacri  di  polita  pieti'a, 

A cui,  pria  che  l’Acheo  venisse  i giorni 
Della  pace  a turbar,  solean  de’ Teucri 
Liete  le  spose  e le  avvenenti  figlie 
I bei  veli  lavar.  Da  questa  parte 
Volano  i due  campion,  l’uno  fuggendo, 

L’ altro  inseguendo.  11  fuggitivo  è forte; 

Ma  più  forte  c più  ratto  è chi  l’ insegue, 

E d'  un  tauro  non  già , nè  della  pelle 
Si  gareggia  d’ un  bue , premio  a veloce 
Di  corsa  vincitor,  ma  della  vita 
Del  grande  Ettorre.  E quale  a vincer  usi 
Giran  le  mete  corridori  ardenti, 

A cui  proposto  è di  gentil  donzella 
O d’ un  tripode  il  premio,  ad  onoranza 
D’ alcun  defunto  eroe;  così  tre  volte 
Dell’iliaca  città  fér  questi  il  giro 
Velocemente.  A riguardarli  intento 
Stava  il  consesso  de’ Celesti,  e Giove 
A dir  si  fece  : Ahi  sorte  indegna  ! io  veggo 
D’ Ilio  intorno  alle  mura  esagitato 
Un  diletto  mortai;  duoimi  d’ Ettorre 
Che  su  l’ idée  pendici  e sull’  eccelsa 
Pergàmea  ròcca  a me  solea  di  scelte 


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e.  Mi-360  libro  kxii  4?3 

Vittime  offrire  i pingui  lombi,  ed  ora 
Del  minaccioso  Achille  il  presto  piede 
L’incalza  intorno  alla  città.  Pensate, 

Vedete,  o numi , se  per  noi  si  debba 
Dalla  morte  camparlo,  o pur,  quantunque 
Cosi  prode,  il  domar  sotto  il  Pelide. 

Procelloso  Tonante,  oh!  che  dieesti? 

Gli  rispose  Minerva^  e che  t’  avvisi? 

Alla  morte  involar  uom  sacro  a morte  ? 

E tu  r invola.  Ma  non  tutti  al  certo 
Noi  Celesti  tal  fatto  assentiremo. 

T’ accheta , o &glia , rcplieò  de’  nembi 
L’  adunator  ^ eh’  io  nulla  bo  fermo  ancora , 

E nulla  io  voglio  a te  negar.  Fa  tutto , 

Senza  punto  ristarti,  il  tuo  desire. 

Spronò  quel  detto  la  già  pronta  Diva 
Che  dall’  olimpie  eime  impetuosa 
Spiccossi,  e scese.  Alla  dirotta  intanto 
Incalza  Achille  il  fuggitivo  Ettorre. 

Come  veltro  cerviero  alla  montagna 
Giù  per  coovalli  e per  boscaglie  insegne 
Dalla  tana  destato  un  caprìuolo^ 

Sotto  un  arbusto  il  meschinel  s’ appiatta 
Tutto  tremante,  e 1’  altro  ne  ritesse 
L’orme,  e corre  e ricorre  irrequieto, 

Finché  lo  trova  ^ così  tutte  Achille 
Del  sottrarsi  ad  Ettór  tronca  le  vie. 

Quante  volte  sBlar  diritto  ei  tenta 
Alle  dardanie  porte,  o delle  torri 
Sotto  gli  spaldi,  onde  co’  dardi  aita 
Gli  dian  di  sopra  i suoi,  tante  il  Pelide 
Lo  previene,  e il  ricaccia  alla  pianura, 

Vicino  alla  città.  Come  nel  sogno 
Talor  ne  sembra  con  lena  affannata 
Uom,  che  fugge,  inseguir,  nè  questi  ha  forza 
D’ involarsi,  nè  noi  di  conseguirlo; 

Cosi  nè  Achille  aggiunger  puote  Ettorre, 

Nè  questi  a quello  dileguarsi.  E intanto 
Come  schivar  potuto  avrìa  la  Parca 
Di  Priamo  il  figlio,  se  l’estrema  volta 


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<74 


ILIADE 


«*■  iCi<!luo 


Nuoto  al  petto  vigor  non  gli  porgca 
Propizio -Apollo,  e nuova  lena  al  piede? 
Accennava  col  capo  il  divo  Achille 
Alle  sue  genti  di  non  far  co’  dardi 
Al  fuggitivo  offesa,  onde  veruno, 

Ferendolo  , 1’  onor  non  gli  precida 
Del  primo  colpo.  Ma  venuti  entrambi 
La  quarta  volta  alle  scamandrie  fonti, 

L’  auree  bilance  sollevò  nel  cielo 
Il  gran  Padre,  e dne  sorti  entro  vi  pose 
Di  mortai  sonno  eterno:  una  d’Achille; 
L’altra  d’ Ettorre  : le  librò  nel  mezzo, 

E del  duce  trojano  il  fatai  giorno 
Cadde,  e vèr  l’Orco  decbinò.  Dolente 
Febo  allora  lasciollo  in  abbandono; 

Ed  al  Peb'de  fattasi  vicina. 

Sì  Minerva  parlò:  Diletto  a Giove, 

Inclito  Achille , or  si  che  giunto  io  spero 
11  momento,  in  che  noi  su  queste  rive. 
Spento  alla  6ne  il  bellicoso  Ettorre, 

D’  alta  gloria  andrem  lieti.  Ei  più  non  puotc 
Scapparne  ei,  no,  quand’  anche  il  Saettante, 
Ai  piè  prostrato  dell’  Egioco  Padre , 

Di  liberarlo  s’argomenti.  Or  tu 
Qui  sdstati,  e respira.  Andronne  io  stessa 
Al  tuo  nemico,  e metterdgli  in  core 
Di  venir  teco  a singoiar  conflitto. 

Obbedì,  s’  appoggiò  lieto  al  ferrato 
Suo  frassino  il  Peh'de;  e dipartita 
Da  lui  la  Diva,  al  volto,  alla  favella 
Dèifobo  si  fece,  c all’anelante 
Ettor  venuta:  O mio  german,  dicea. 

Troppo  costui  dintorno  a queste  mura 
Con  piè  ratto  t’incalza  e ti  travaglia. 

Or  via  restiamei,  e difendiamei  a fermo. 

Rispose  Ettòr:  Dèifobo,  di  quanti 
Mi  diè  fratelli  Priamo  ed  Ecùba, 

Sempre  il  più  caro  tu  mi  fosti,  ed  ora 
Lo  mi  sei  più  che  prima , c più  mi  traggi 
Ad  onorarti;  perocché  tu  solo 


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.‘v>i-34o 


LTBRO  ^XU 


475 

Da  quelle  mura  osasti  a mia  difesa, 

Tu  solo  uscir,  veduto  il  mio  periglio. 

Fratello  amato,  replicò  la  Diva, 

I venerandi  genitori,  c tutti 
Stringendosi  gli  amici  a’  miei  ginocchi , 

Di  non  uscire  mi  pregar,  cotanto 
Tcrror  gl' ingombra^  ma  l’interno  vinse, 

Che  per  tc  mi  struggea.  Cero  dolore. 

Combattiam  dunque  arditamente,  e nullo 
Sia  più  d’aste  risparmio;  onde  si  vegga 
S’ egli,  noi  spenti,  tornerà  di  nostre 
Spoglie  onusto  alle  navi,  o se  piuttosto 
Qui  cadrà  per  la  tua  lancia  traCtto. 

Si  dicendo , la  Diva  ingannatrice 
Precorse;  e quelli,  l’uà  dell’altro  a fronte 
Divenuti , primier  1’  armi  crollando , 

Fe  questi  detti  1’  animoso  Ettorrc  : 

Più  non  fuggo , o Pelide.  Intorno  all’  alte 
Iliache  mura  mi  aggirai  tre  volte. 

Nè  aspettarti  sostenni.  Ora  son  io 
Che  intrepido  t’aOronto,  c darò  morte, 

O l’ avrò.  Ma  gli  Dei , Cdi  custodi 
De’  giuramenti,  teslimon  ne  sièno 
Che  se  Giove  1’  onor  di  tua  caduta 
Mi  concede,  non  io  sarò  spietato 
Col  cadavere  tuo,  ma  renderollo. 

Toltene  solo  le  bell’ armi,  intatto 
À’  tuoi.  Tu  giura  in  mio  favor  lo  stesso. 

Non  parlarmi  d’  accordi , abbominato 
Nemico.,  ripigliò  torvo  il  Peh'de: 

Nessun  patto  tra  l’uomo  ed  il  bone, 

Nessuna  pace  tra  1’  eterna  guerra 
Dell’agnello  e del  lupo,  e tra  noi  due 
Nè  giuramento  nè  amistà  nessuna. 

Finché  1’  uno  di  noi  steso  col  sangue 
L’ invitto  Marte  non  satòll;.  Or  bada , 

Chè  n’hai  mestiero,  a richiamar  la  tutta 
Tua  prodezza,  e a lanciar  dritta  la  punta. 

Ogni  scampo  è preciso,  e già  Minerva 
Per  1’  asta  mia  ti  doma.  Ecco  il  momento 


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476 

Che  dei  morti  da  te  miei  cari  amici 
Tutte  ad  un  tempo  «conterai  le  pene. 

Disse;  e forte  avventò  la  bilanciata 
Lunga  lancia.  Antivide  Ettorre  il  tiro, 

E,  piegato  il  ginocchio  e la  persona, 

Lo  schivò.  Sorvolando  il  ferreo  telo, 

Si  confìsse  nel  suol;  ma  ne  lo  svelse 
Invisibile  ad  Ettore  Minerva, 

E tomollo  al  Pclide.  — Errasti  il  colpo. 
Gridò  1’  eroe  trojan;  nè  Giove  ancora. 

Come  dianzi  cianciasti,  il  mio  destino 
Ti  fe  palese.  Deiforme  sei, 

Ma  cinguettiere,  che  con  vani  accenti 
Atterrirmi  ti  speri,  e nella  mente 
Addormentarmi  la  virtude  antica. 

Ma  nel  dorso  tu,  no,  non  pianterai 
L’  asta  ad  Ettorre  che  diritto  viene 
Ad  assalirti,  e ti  presenta  il  petto  ; 

Piantala  in  questo  se  t’ assiste  un  Dio. 

Schiva  intanto  tu  pur  la  ferrea  punta 
Di  mia  lancia.  Oh  si  possa  entro  il  tuo  corpo 
Seppellir  tutta  quanta,  e della  guerra 
Ai  Teucri  il  peso  alleviar,  te  spento, 

Te  lor  funesta  principal  rovina! 

Disse;  e,  l'asta  di  lunga  ombra  squassando. 
La  scagliò  di  gran  forza,  e del  Pelide 
Colpì  senza  fallir  lo  smisurato 
Scudo  nel  mezzo.  Ma  il  divino  amesb 
La  respinse  lontan.  Crucciossi  Ettorre, 

Visto  uscir  vano  il  colpo;  e,  non  gli  essendo 
Pronta  altra  lancia,  chinò  mesto  il  volto, 

E a gran  voce  Dèifobo  chiamando. 

Una  picca  chiedea  ; ma  lungi  egli  era. 

Allor  s’  accorse  dell’  inganno , e disse  : 

Misero  ! a morte  m’  appellar  gli  Dei. 

Credeami  aver  Dèifobo  presente  ; 

Egli  è dentro  le  mura,  e mi  deluse 
Minerva.  Al  fianco  ho  già  la  morte,  e nullo 
V è più  scampo  per  me.  Fu  cara  un  tempo 
A Giove  la  mia  vita,  e al  saettante 


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LIBUO  IXII  4?7 

Suo  figlio,  ed  essi  mi  campar  cortesi 
Ne’  guerrieri  perigli.  Or  mi  raggiunse 
La  negra  Parca.  Ma  non  fia  per  questo 
Che  da  codardo  Io  cada  : periremo , 

Ma  gloriosi,  e alle  future  genti 
Qualche  bel  fatto  porterà  il  mio  nome. 

Ciò  detto,  scintillar  dalla  vagina 
Fe  la  spada  che  acuta  e grande  e forte 
Dal  fianco  gli  pendea.  Con  questa  in  pugno 
Drizza  II  viso  al  nemico,  e si  disserra 
Com’  aquila  che  d’  alto  per  le  fosche 
Nubi  a piombo  sul  campo  si  precipita 
A ghermir  una  lepre  o un’  agnelletta. 

Tale,  agitando  1’ affilato  acciaro, 

SI  scaglia  EUorre.  Scagliasi  del  pari. 

Gonfio  il  cor  di  feroce  ira,  il  Pelide 
Impetuoso.  Gli  ricopre  il  petto 
L’  ammirando  brocchiere  sovra  il  guemito 
Di  quattro  coni  fulgid’elmo  ondeggia 
L’aureo  pennacchio  che  Vulcan  v’  avea 
Sulla  cima  difiuso.  £ qual  sfavilla 
Nei  notturni  sereni  in  fra  le  stelle 
Espero,  il  più  leggiadro  astro  del  cielo^ 

Tale  1’  acuta  cuspide  lampeggia 
Nella  destra  d’Achille  che  l’estremo 
Danno  in  cor  volge  dell’illustre  Ettorre, 

E tutto  con  attenti  occhi  spiando 
Il  bel  corpo,  pon  mente  ove  al  ferire 
Più  spedita  è la  via.  Chiuso  il  nemico 
Era  tutto  nell’  armi  luminose 
Che  all’  ucciso  Patroclo  avea  rapite. 

Sol,  dove  il  collo  all’  òmero  s’ innesta , 

Nuda  una  parte  della  gola  appare. 

Mortalissima  parte.  A questa  Achille 
L’  asta  diresse  con  furor  : la  punta 
Il  collo  trapassò;  ma  non  offese 
Della  voce  le  vie  si,  che  precluso 
Fosse  del  tutto  alle  parole  il  varco. 

Cadde  il  ferito  nella  sabbia,  e altero 
Sciamò  sovr’  esso  il  feritor  divino  : 


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4;8 


ILIADE 


¥.  4 31 '4^) 


Ettore,  il  giorno  che  spogliasti  il  morto 
Patroclo,  in  salvo  ti  credesti,  e nullo 
Terror  ti  prese  del  lontano  Achille. 

Stolto!  restava  sulle  navi  al  mio 
Trafitto  amico  un  vindice,  di  molto 
Più  gagliardo  di  lui  : io  vi  restava. 

Io,  che  qui  ti  distesi.  Or  cani  e corvi 
Te  strazieranno  turpemente,  e quegli 
Avrà  pomposa  dagli  Achei  la  tomba. 

E a lui  cosi  l’eroe  languente:  Achille, 

Per  la  tua  vita,  per  le  tue  ginocchia. 

Per  li  tuoi  genitori  io  ti  scongiuro. 

Deh!  non  far  che  di  belve  io  aia  pastura 
Alla  presenza  degli  Achei  : ti  piaccia 
L’ oro  e il  bronzo  accettar  che  il  padre  mio 
E la  mia  veneranda  genitrice 
Ti  daranno  in  gran  copia:  e tu  lor  rendi 
Questo  mio  corpo , onde  1’  onor  del  rogo 
Dai  Teucri  io  m’abbia  c dalle  teucre  donne. 

Con  atroce  cipiglio  gli  rispose 
11  fiero  Achille  : Non  pregarmi , iniquo  ^ 

Non  supplicarmi  nè  pe’  miei  ginocchi , 

Ne’  pe’  miei  genitor.  Potessi  io , preso 
Dal  mio  furore , minuzzar  le  tue 
Carni,  ed  io  stesso,  per  l’immensa  offesa 
Che  mi  facesti,  divorarle  crude. 

No,  nessun  la  tua  testa  al  fero  morso 
De’  cani  involerà  : uè  s’ anco  dieci 
£ venti  volte  mi  s’  addoppii  il  prezzo 
Del  tuo  riscatto^  nè  se  d'  altri  doni 
Mi  si  faccia  promessa^  nè  se  Priamo 
A peso  d’ oro  il  corpo  tuo  redima  : 

No,  mai  non  fia  che  sul  funereo  letto 
La  tua  madre  ti  pianga.  Io  vo’  che  tutto 
Ti  squarcino  le  belve  a brano  a brano. 

Ben  lo  previdi  che  pregato  indarno 
T’avrei,  riprese  il  moribondo  Ettorre. 

Hai  cor  di  ferro,  e lo  sapea.  Ma  bada 
Che  di  qualche  celeste  ira  cagione 
lo  non  ti  sia  quel  dì  che  Febo  Apollo 


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LlliRO  XXII 


•5oo 

E Paride,  malgrado  il  tuo  valore, 

'P  anciderauDO  sulle  porte  Scee. 

Cosi  detto,  spirò.  Sciolta  dal  corpo 
Prese  1’  alma  il  suo  voi  verso  1’  abisso , 
Lamentando  il  suo  fato  ed  il  perduto 
Fior  della  forte  gioventude.  E a lui. 

Già  fredda  spoglia , il  vincitor  soggiunse  : 

Muori ^ chè  poscia  la  mia  morte  io  pure. 
Quando  a Giove  sia  grado  e agli  altri  Eterni, 
Contento  accetterò.  Cosi  dicendo , 

Svelse  dal  morto  la  ferrata  lancia. 

In  disparte  la  pose,  e dalle  spalle 
L’ armi  gli  tolse  insanguinate.  Intanto 
D’  ogn’  intorno  v’  accorsero  gli  Achivi , 
Contemplando  d’  Ettòr  maravigliosi 
L’ ammirande  sembianze  e la  statura  ^ 

Nè  vi  fu  chi  di  fargli  una  ferita 
Non  si  godesse , al  suo  vicin  dicendo  : 

Per  gli  Dei,  che  a toccarsi  egli  s'  è fatto 
Più  tenero  ohe  quando  arse  le  navi  : 

E in  questo  dir  coll’asta  il  ripungea. 

Spoglio  ch’ei  l’ebbe,  fra  gli  astanti  Achei 
Ritto  Achille  pai'lò  queste  parole: 

Amici  e prenci  e capitani,  udite: 

Poiché  diermi  gli  Dei  che  domo  alfine 
Costui  ne  fosse  che  d’  assai  più  nocque. 

Che  gli  altri  tutti  insieme,  alla  cittade 
Volgiam  l’armi,  e vediam  se,  spento  Ettorrc, 
Fanno  i Teucri  pensier  d’ abbandonarla , 

O,  benché  privi  di  cotanto  ajuto. 

Coraggiosi  resistere  ....  Ma  quale 
Vano  consiglio  mi  ragiona  il  cure  ? 

Senza  pianto  sul  lido  e senza  tomba 
Giace  il  morto  Patroclo.  Insin  che  queste 
Mie  membra  animerà  soffio  di  vita, 

Ei  fia  presente  al  mio  pensiero  ^ e s’  anco 
Laggiù  nell’  Orco  obblivi'on  scendesse 
Della  vita  primiera,  anco  nell'  Orco 
Mi  seguirà  del  mio  diletto  amico 
La  rimembranza.  Or  via^  dunque  si  rieda 


4^0  ILIIOB  ,,  5oi-A4<i 

Alle  navi,  e costui  vi  si  strascini. 

E voi  frattanto,  giovinetti  achivi. 

Intonate  il  peana;  alto  è il  trionfo 

Che  riportammo:  il  grande  Ettór,  dai  Teucri 

Adorato  qual  nume,  è qui  disteso. 

Disse;  e,  centra  l'estinto  opra  crudele 
Meditando , de’  piè  gli  fora  i nervi 
Dal  calcagno  al  tallone,  ed  un  guinzaglio 
Insertovi  bovino,  al  cocchio  il  lega. 

Andar  lasciando  strascinato  a terra 
11  bel  capo.  Sul  carro  indi  salito 
Con  l'elevate  gloriose  spoglie, 

Stimolò  col  flagello  a tutto  corso 

I corridori  che  volàr  bramosi. 

Lo  strascinato  cadavere  un  nembo 
Sollevava  di  polve;  onde  la  sparta 
Negra  chioma  agitata  e il  volto  tutto 
Bruttavasi,  quel  volto  in  pria  sì  bello, 

Allor  da  Giove  abbandonato  all’  ira 
Degl’  inimici  nella  pati'ia  terra. 

All’  atroce  spettacolo  si  svelse 
La  genitrice  i crini;  e,  via  gittando 

II  regai  velo,  un  ululato  mise 

Che  alle  stelle  n’  andò.  Plorava  il  padre 
Miseramente,  e gemiti  e singulti 
Per  la  città  s’  udian , come  se  tutta 
Dall’  eccelse  sue  cime  arsa  cadesse. 

Rattenevano  a stento  i cittadini 

11  re  canuto  che,  di  duol  scoppiando, 

Dalle  dardanie  porte  a tutto  costo 
Fuor  voleva  gittarsi.  S’  avvolgea 
11  misero  nel  fango,  e tutti  a nome 
Chiamandoli , e pregando  : Ah  ! vi  scostate  ; 
Lasciatemi,  gridava;  è intempestivo 
Ogni  vostro  timor;  lasciate,  amici. 

Ch'io  me  n’esca,  ch’io  vada  tutto  solo 
Alle  navi  nemiche.  Io  vo’  cadere 
Supplichevole  ai  piè  di  quell’ iniquo 
Violento  uccisor.  Chi  sa  che  il  crudo 
Il  mio  crin  bianco  non  ripctti,  e senta 


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.580  LIBRO  IBI!  4^  ■ 

Pietà  di  mia  vecchiezza  ? Ei  pnre  ha  un  padre 
D'  anni  carco,  Peléo,  che  generoUo 
E de'  Teucri  nudrillo  alla  mina, 

Soprattutto  alla  mia,  tanti  uccidendo 

Giovinetti  miei  figli:  nè  mi  dolgo 

Si  di  lor  tutti,  ohimè!  quanto  d' un  solo. 

Quanto  d’  Ettór,  di  cui  trarrammi  in  breve 
L' empia  doglia  alla  tomba.  Oh  fosse  ei  morto 
Tra  le  mie  braccia  almen!  Cosi  la  madre. 

Che  sventurata  partorillo,  e io  stesso 
Sfogo  avremmo  di  pianti  e di  sospiri. 

Questo  ei  dicea , piangendo  ; e co'  lamenti 
Facean  eco  al  suo  pianto  i cittadini. 

Dalle  Troadi  intanto  circondata. 

In  alti  lai  rompea  la  madre:  Oh  figlio! 

Tu  se'  morto,  ed  io  vivo  ? io  giunta  ai  sommo 
Delle  sventure  te  perdendo,  ahi  lassa! 

Te  che  in  ogni  momento  eri  la  mia 
Gloria  e il  sostegno  della  patria  tutta. 

Che  t'  accogliea  qual  nume.  Ahi!  ne  saresti. 

Vivo,  il  decoro^  e ne  sei,  morto,  il  lutto. 

Seguia  questo  parlar  di  pianto  un  fiume. 

Ma  del  fato  d'  Ettór  nulla  per  anco 
Andromaca  sapea;  chè  nullo  a lei 
Del  marito  rimasto  anzi  alle  porte 
Recato  avea  1'  avviso.  Nell'  interne 
Regie  stanze  tessendo  ella  si  stava 
A doppie  (ila  una  lucente  tela 
Di  diverso  rabesco  j e per  suo  cenno 
Avean  frattanto  le  leggiadre  ancelle 
Posto  un  tripode  al  fuoco,  onde  al  consorte 
Pronto  fosse,  al  tornar  dalla  battaglia, 

Caldo  un  lavacro.  Non  sapea,  demente! 

Che  da'  lavacri  assai  lungi  domato 
L'  avea  Minerva  per  la  man  d'Achille. 

Ma  come  dalla  torre  un  suon  confuso 
D'  ululi  intese  e di  lamenti,  tutte 
Le  tremaro  le  membra  j al  suol  le  cadde 
La  spola*,  e,  vòlta  aUc  donzelle,  disse: 

Accorrete  sollecite,  seguitemi 

Mosti.  Iliade.  3 1 


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4«a 


ILIADE 


¥'  58i*63«i 


Due  di  voi  tosto  ; vo'  veder  che  avvenne. 
Dell’onoranda  suocera  la  voce 
Mi  percuote  1’  orecchio , e il  cor  mi  balza 
Con  sussulto  nel  petto,  e manca  il  piede. 
Certo,  qualche  gran  danno,  ohimè!  sovrasta 
Di  Priamo  ai  £gli.  Allontanate,  o numi. 
Questo  presagio;  ma  ben  forte  io  temo 
Che  il  divo  Achille  all’  animoso  Ettoire 
Non  abbia  del  salvarsi  entro  le  mura 
Già  tagliata  la  strada,  ed  or  pel  campo 
Lo  m’ insegna  da  tutti  abbandonato , 

E la  bravura  esizial  non  dòmi 

Che  il  possedea:  restarsi  egli  non  seppe 

Mai  nella  folla,  e sempre  oltre  si  spinse, 

A nessun  prode  di  valor  secondo. 

Così  dicendo,  dell'  "eggia  uscio 
Qual  forsennata,  e le  tremava  il  core. 

La  seguivan  le  ancelle;  e fra  le  turbe 
Giunta  alla  torre,  s’arrestò,  girando 
Lo  sguardo  intorno  dalle  mura.  Il  vide; 

11  riconobbe  da  corsier  veloci 
Strascinato  davanti  alla  cittade 
Verso  le  navi  indegnamente.  Oscura 
Notte  i rai  le  coperse,  ed  ella  cadde 
All’  indietro  svenuta.  Si  scomposero 
I leggiadri  del  capo  adornamenti 
E nastri  e bende  e l’ intrecciata  mitra 
E la  rete  ed  il  vel  che  dielle  in  dono 
L’  aurea  Venere  il  dì  che  dalle  case 
D’  Eezìòne  Ettór  la  si  condusse 
Di  molti  doni  nuziali  ornata. 

Afibllàrsi  pietose  a lei  dintorno 
Le  cognate  che  smorta  tra  le  braccia 
Reggeau  1’  afflitta  di  morir  bramosa 
Per  immenso  dolor.  Come  in  sè  stessa 
Alfiu  rivenne,  e l’alma  al  cor  s’accolse, 

Fe  degli  occhi  due  fonti,  e così  disse: 

Oh  me  deserta  ! oh  sposo  mio  ! noi  dunque 
Nascemmo  entrambi  col  medesmo  fato: 

Tu  nella  reggia  del  tuo  padre;  ed  io 


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O.  6ii-66o  1-»K0  XXII  4^3 

Nella  tcbaua  Ipdplaco  selvosa, 

Seggio  d’  Eeuón  che  psvgoletta 
Àllevommi,  meschino  una  meschina! 

Oh  non  m’  avesse  generata!  Ai  regni 

Tu  di  Plato  discendi  entro  il  profondo 

Sen  della  terra,  e me  qui  lasci  al  lutto 

Vedova  in  reggia  desolata.  Intanto 

Del  figlio,  ohimè!  che  fia?  Figlio  infelice 

Di  miserandi  genitor,  bambino 

Egli  è del  tutto  ancor^  nè  tn  puoi,  morto. 

Più  farti  suo  sostegno,  Ettore  mio. 

Ned  egli  il  padre  vendicar^  chè  dove 
Pur  sia  che  degli  Achei  la  lagrimosa 
Guerra  egli  sfugga;  nondimen  dolenti 
Trarrà  sempre  i suoi  giorni,  e a lui  l’avaro 
Vicin  mutando  i termini  del  campo, 

Spoglierallo  di  questo.  Abbandonato 
Da’ suoi  compagni  è 1’ orfanello;  ei  porta 
Ogtior  dimesso  il  volto,  e lagrimosa 
La  smunta  guancia.  Supplice  indigente 
Va  del  padre  agli  amici,  e all’  uno  il  sajo, 

Tocca  all’altro  la  veste.  11  più  pietoso 

Gli  accosta  alquanto  il  nappo,  e il  labbro  bagna. 

Non  il  palato.  Ed  altro  tal  che  lieto 
Va  di  padre  e di  madre,  alteramente 
Dalla  mensa  il  ributta,  e lo  percote, 

E villano  gli  grida;  Sciagurato! 

Esci:  il  tuo  padre  qui  non  siede  al  desco. 

Torna  allor,  lagrimando,  Astianatte 
Alla  vedova  madre,  egli  che  dianzi 
D’  eletti  cibi  si  nudria,  scherzando 
Sul  paterno  ginocchio.  E quando  ei , stanco 
D’innocenti  trastulli,  al  dolce  sonno 
Ghiudea  le  luci  alla  nudi'ice  iu  grembo. 

Dentro  il  suo  letticciuol  su  molli  piume. 

Sazio  di  gioia  il  cor,  s’  addormentava. 

E quanti  or  privo  dell’  amato  padre. 

Ahi  quanti  affanni  soffrirà  ! nè  punto 
D’ Astianatte  gioveragli  il  nome 
Che  gli  posero  i Troi;  perchè  le  porte 


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484  tLUDE,  Lnmo  XXII  v.  66i-<;;t 

Tu  sol  ne  difenderi  e F ardue  mura. 

Or  te  sul  lido  fra  le  navi,  e lungi 
Da  chi  vita  ti  dii,  lubrici  i vermi 
Roderan , come  sazio  avrai  de’  veltri 
Nudo  le  gole;  ahi  nudo!  e nella  reggia 
Tante  avevi  leggiadre  ed  esqnisite 
Vesti,  lavoro  dell’ esperte  ancelle. 

Or  poiché  vane  a te  son  fatte,  e tolto 
N'  è il  coprirti  di  queste  in  sul  feretro , 

Tutte  alle  fiamme  gitterolle  io  stessa; 

Onde  al  cospetto  de’  Trojani  almeno 
Questo  segno  d’ onor  ti  sia  rcnduto. 

Così  dicea,  piangendo;  ed  al  suo  pianto 
Co'  sospiri  facean  eco  le  donne. 


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LIBRO  VENTESIMOTERZO 


iRGOMENTO 


LaoMnlu  «fei  Minnidoot  »ul  corpo  di  Pilroclu.  Achili#  vicino  d mirto 

rwbvert  di  Ellurc.  1 Minuidoui  looo  • Lonrbetto  wilL  nave  d’AcbiUe.  Questi  sccoi 
•edere  a meua  twlU  tenda  d’Aitamenuone.  Du|m>  il  eravitu  idrajast  sulla  (piaggia  dd 
vùiofM  dell*  eroe  addonatolato.  Ilogo  di  PatroUo  • ceriinuola  fuuelh.  Giuochi  io  ooo 
nxirtOf 


Mentre  in  Troja  si  piange , all’  Ellesponto 
Giungon  gli  Àchivi,  e spargesi  ciascuno 
Alla  sua  nave.  Ma  l’ andar  dispersi 
Non  permise  il  Pelide  ai  bellicosi 
Suoi  Mirmidóni,  da  cui  cinto  disse: 

Mici  diletti  compagni  e cavalieri, 

Non  distacchiamo  per  ancor  dai  cocchi 

I corridori:  procediam  con  qnesti 
A piangere  Patrdclo,  a tribntargli 

L’  onor  dovuto  ai  trapassati.  E quando 
Avrcm  del  pianto  al  cor  dato’ il  diletto, 
Sciolti  i destrieri,  apprcsterem  le  cene. 
Disse  ^ e tutti  innalzàr  ristretti  insieme 

II  fùnebre  lamento,  Achille  il  primo. 

Corser  tre  volte  colle  bighe  intorno 
All’estinto,  ululando,  e ne’ lor  petti 
Destò  Tcti  di  pianto  alto  desio. 

Si  bagnava  di  lagrime  1’  arena , 

Di  lagrime  gli  usberghi  : cotant’  era 
11  desiderio  dell’  eroe  perduto. 


486 


ILIADE 


¥.  21-60 


Ma  fra  tutti  piagnea  dirottamente 
Achille;  c poste  le  omicide  mani 
Dell’amico  sul  cor:  Salve,  dicea; 

Salve,  caro  Patróclo,  anco  sotterra. 

Tutto  io  voglio  compir  che  ti  promisi. 
D’Ettore  il  corpo  al  tuo  piè  strascinato 
Farò  pasto  de’ cani,  e alla  tua  pira 
Dodici  capi  troncherò  d’eletti 
Figli  de’ Teucri,  di  tua  morte  irato. 

Disse;  ed  opra  crudel  contea  il  divino 
Ettor  volgendo  iu  suo  pensiero,  il  trasse 
Per  la  polve  boecon  presso  al  lerétro 
Del  (ìgliuol  di  Menézio:  e gli  altri  intanto 
Scinsero  le  corrusche  armi,  c,  staccati 
Gli  annitreuti  corsicr,  folti  sull’alta 
Capitana  d’Achille  a lauto  desco 
S’  assiscro.  Muggian  sotto  la  scure 
Molti  candidi  buoi;  molte,  belando, 
Cadean  capre  scannate  e pecorelle; 

E molti  di  pinguedine  fiorenti 
Cinghiai  sannuti  alle  vulcanie  vampe 
Venian  distesi  a brustolarsi.  Il  sangue 
Senrrea  dintorno  al  morto  in  larghi  rivi. 

Al  sommo  Atride  intanto  i prenci  achei 
Scortar,  vinto  da’ preghi  c per  l’amico 
Sempre  d’ira  infiammato,  il  re  Pelide. 
Giunti  i duci  alla  tenda,  immantinente 
Ai  pronti  araldi  Agamennòn  comanda 
Che  alle  fiamme  un  gran  trìpode  si  metta. 
Onde  il  Pelide  indnr,  se  gli  riesca, 

A lavarsi  del  sangue  ogni  sozzura. 
Recusollo  il  feroce,  c fermamente 
Giurò  : Non  sia  per  Giove  ottimo  c sommo 
Che  lavacro  mi  tocchi  anzi  eh’  io  ponga 
L’amico  mio  sul  rogo,  e gli  consacri 
Sull’eretto  sepolcro  il  crin  reciso. 

Ah!  mai  pari  dolor,  fin  ch’io  mi  viva, 

In  questo  petto  non  cadrà,  giammai. 
Nondimeno  si  segga  all’abborrita 
Mensa;  ma  tu,  supremo  Atride,  imponi 


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¥.  6i-ion 


LIBRO  xxm 


487 


Alla  tua  gente  che  doman  per  tempo 
Molta  selva  qua  porti  \ e qual  conviensi 
Ad  illustre  defunto  che  nell’atra 
Notte  discende,  le  cataste  appresti, 

Onde  rapido  il  foco  lo  consumi; 

E tolto  agli  occhi  il  doloroso  obbietto, 
Tornio  le  schiere  ai  consueti  ofBci. 

Obbedir  tutti  al  detto;  e prontamente 
Poste  le  mense,  a convivar  si  diero, 

E vivandò  ciascuno  a suo  talento. 

Del  cibarsi  e del  ber  spenta  la  voglia. 
Tolti  sbandarsi  alle  lor  tende,  e al  sonno 
Gesser  le  membra.  Ma  del  mar  sonante 
Lungo  il  lido  si  stese  in  mezzo  ai  folti 
Tessali  Achille  su  la  nuda  arena. 

Di  cui  l’onda  gli  estremi  orli  lambia. 

Ivi  stanco  di  gemili  e sospiri 
E della  molta  in  perseguendo  Ettorre 
Sostenuta  fatica,  il  dolce  sonno 
Alleggiator  dell’ aspre  cure  il  prese. 
Soavemente  circonfuso.  Ed  ecco 
Comparirgli  del  misero  Patroclo 
In  vis'ion  lo  spettro,  a lui  del  tutto 
Ne’ begli  occhi  simile  e nella  voce. 

Nella  statura,  nelle  vesti;  e tale 
Sovra  il  capo  gli  stette,  e così  disse: 

Tu  dormi,  Achille,  nè  di  me  più  pensi: 
Vivo  m'amasti,  e morto  m’abbandoni. 

Deh  ! tosto  mi  sotterra , onde  mi  sia 
Dato  nell'Orco  penetrar.  Respinto 
Io  ne  son  dalle  vane  ombre  defunte. 

Nè  meschiarmi  con  lor  di  là  dal  fiume 
Mi  si  concede.  Vagabondo  io  quindi 
NP  aggiro  intorno  alla  magion  di  Pluto. 

Or  deh!  porgi  la  man;  chè  teco  io  pianga 
Anco  una  volta;  perocché  consunto 
Dalle  fiamme  del  rogo  a te  dall'Orco 
Non  tornerò  più  mai.  Più  non  potremo 
Vivi  entrambi,  e lontan  dagli  altri  amici. 
Seduti  in  dolci  parlamenti  aprire  ' 


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ILUDE 


iei-i4o 


I segreti  del  cor^  chè  preda  io  sono 
Della  Parca  crudele,  a me  nascente 

Un  dì  sortita.  E a te  pur  anco,  AchUIe, 

A te  che  un  Dio  somigli,  è destinato 

II  perir  sotto  le  dardanie  mura. 

Ben  ti  prego,  o mio  caro,  e raccomando 
Che  tu  non  voglia,  se  mi  sei  cortese. 

Dal  tuo  disgiunto  il  cener  mio.  Noi  fummo 
Nella  tua  reggia  allor  nudriti  insieme 
Che  Menezio  d’Opunte  a Ftia  menommi 
Giovinetto  quel  dì  che  per  la  lite 
Degli  astragali  irato  e fuor  di  senno 
D'Anfidamante  a morte  misi  il  figlio. 

Mio  malgrado.  M’accobe  il  re  Peléo 
Ne'  suoi  palagi  umanamente,  e posta 
Nell' educarmi  diligente  cura, 

Mi  nomò  tuo  donzello.  Una  sol' urna 
Chiuda  adunque  le  nostre  ossa,  quell' urna 
Che  d'ór  ti  diè  la  tua  madre  divina. 

A che  ne  vieni,  o anima  diletta? 

Gli  rispose  il  Pelidc^  e a che  m'ingiungi 
Partitamente  queste  cose?  Io  tutto 
Che  comandi,  farò;  ma  deh!  t'appressa; 

Ch'  io  t'abbracci,  che  stretti  almen  per  poco 
Gustiam  la  trista  voluttà  del  pianto. 

Così  dicendo,  coll' aperte  braccia 
Amoroso  avventossi,  e nulla  strinse; 

Chè,  stridendo  calò  F ombra  sotterra, 

E svanì  come  fumo.  In  piè  rizzossi 
Sbalordito  il  Pelide;  c,  palma  a palma 
Battendo,  in  suono  di  lamento  disse: 

Oh  ciel!  dell'Orco  gli  abitanti  han  dunque 
Spirito  ed  ombra,  ma  non  corpo  alcuno? 

Del  misero  Patroclo  in  questa  notte 
Sovra  il  capo  mi  stette  il  sospiroso 
Spettro  piangente,  tutto  desso  al  vivo, 

E più  cose  m'ingiunse  ad  una  ad  una. 

Ridestar  delle  lagrime  la  brama 
Queste  parole;  raddoppiossi  il  lutto 
Sul  miserando  corpo:  c l'Alba  intanto 


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UBftO  XXlll 


489 


V. 

Co)  roseo  dito  P Oriente  apria. 

Da  tutte  parti  allor  fece  l’Àtride 
Dalle  trabacche  uscir  giumenti  e turbe 
Per  lo  trasporto  del  funereo  bosco, 

Duce  il  valente  Meri'on,  del  prode 
Idomenéo  scudier.  Givan  costoro, 

Di  corde  armati  e di  taglienti  scuri, 

Co’  giumenti  dinanzi.  E per  distorti 
Aspri  greppi  montando  e discendendo 
E rimontando,  agli  erti  boschi  alfine 
Giunser  dell’ Ida  che  di  fonti  abbonda. 

Qui  dier  subita  man  con  affilate 
Bipenni  al  taglio  dell’ aeree  querce 
Che  strepitose  al  suol  cadeano,  c poscia 
Legavansi  spaccate  in  sulla  schiena 
De’ giumenti,  che,  ratte  orme  stampando, 
Scendean,  bramosi  d’arrivar  pe’ folti 
Roveti  alla  pianura:  e li  seguiéno 
Carchi  il  dosso  di  ciocchi  i tagliatori^ 

Chè  tal  di  Merion  era  il  precetto. 

Giunti  sul  lido,  scarlcér  le  some, 

Ne  fèr  catasta  al  luogo  ove  il  Pelide 
Un  tumulo  sublime  al  morto  amico 
Ed  a sè  stesso  disegnato  avea. 

E tutta  apparecchiata  in  questa  guisa 
L’immensa  selva,  riposar  seduti. 

Nuovi  cenni  aspettando.  Intanto  Achille 
Ai  bellicosi  Mirmldòn  comanda 
Di  porsi  in  armi,  ed  aggiogar  ciascuno 
Alle  bighe  i destrier.  Sorsero  quelli 
Frettolosi,  e fur  tutti  in  tutto  punto. 
Montan  su  i cocchi  aurighi  e duci,  e danno 
Alla  pompa  principio.  Immenso  un  nembo 
Di  pedoni  li  segue,  e,  a questi  in  mezzo. 
Di  Pàtroclo  procede  il  cataletto 
Da’  compagni  portato , che  sul  morto 
Vem'an  gittando  le  recise  chiome, 

Di  che  tutto  il  coprian.  Di  retro  Achille 
Colla  man  gli  reggea  la  tremolante 
Testa,  e plorava  sui  funébri  onori, 


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49°  ILIADE  18,.,*, 

Con  che  all’Orco  spcdia  l’illustre  amieo. 

Giunti  al  luogo  lor  detto,  il  mesto  incarco 
Deposero,  e a ribocco  intorno  a quello 
Adunàr  pronti  la  funerea  selva. 

Recatosi  In  sé  stesso,  un  altro  avviso 
Fece  allora  il  Pelide:  allontanossi 
Dal  rogo  alquanto,  e il  biondo  si  recise. 

Che  allo  Sperebió  nudria,  florido  crine; 

E,  al  mar  guardando  con  dolor,  sì  disse: 

Sperebio,  Invan  ti  promise  II  padre  mio. 

Che,  tornando  al  natio  dolce  terreno, 

Io  t’avrei  tronco  la  mia  chioma,  e oiferto 
Una  sacra  ecatombe,  ed  Immolato 
Cinquanta  agnelli  accanto  alla  tua  fonte 
Ov’hai  delubro  ed  odorati  altari. 

Del  canuto  Peléo  fu  questo  il  voto: 

Tu  noi  compiesti.  Poiché  dunque  or  tolto 
N'  è alla  patria  il  ritorno,  abbia  il  mio  crine 
L’eroe  Patroclo,  e lo  si  porti  seco. 

Così  detto,  alla  man  del  caro  amico 
Pose  la  chioma,  e rinnovossi  il  pianto 
De’  circostanti  : e tra  gli  omei  gli  avria 
Còlti  II  cader  della  diurna  luce. 

Se  non  si  fea  davanti  al  grande  Atride 
n figlio  di  Peléo  con  questi  accenti: 

Agamennón,  di  lagrime  potremo 
Satollarci  altra  volta.  Or  tu,  cui  tutti 
Obbcdiscon  gli  Achei,  tu  li  congeda 
Da  questa  pira,  e a ristorar  li  manda 
Colla  mensa  le  membra.  Avvera  del  resto 
Noi  la  cura;  chè  nostro  innanzi  a tutti 
Dell’ esequie  è II  pensiero,  e rimarranno 
Nosco,  a tal  uopo  di  pletade,  i duci. 

Udito  questo,  Agamennón  disperse 
Tosto  le  schiere  per  le  tende,  e soli 
Vi  restaro  i deletti  al  ministero 
Dell' esequie  c del  rogo.  Essi  uua  pira. 

Cento  piedi  sublime  In  ogni  lato. 

Innalzar  primamente,  e sovra  il  sommo. 
D’angoscia  oppressi,  collocAr  l’estinto. 


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r.  ll|.>6a  LIDRO  XXIII  49> 

Poi  davanti  alla  pira  una  gran  torma 
Scuojàr  di  pingui  agnelle  e di  giovenchi; 

E,  traendone  l'adipe,  il  Peli'de 
Copn’ane  il  morto  dalla  fronte  al  piede, 

E le  scuojate  vittime  dintorno 
Gli  accumulò.  Da  canto  indi  gli  pose 
Colle  bocche  sul  feretro  inclinate 
Due  di  miele  e d’unguento  urne  ricolme. 
Precipitoso  ei  poscia  e sospiroso 
Sulla  pira  gittò  quattro  corsieri 
D’alta  cervice,  e due  smembrati  cani 
Di  nove  che  del  sir  nudrìa  la  mensa. 

Preso  al6n  da  spielata  ira,  le  gole 
Di  dodici  segò  prestanti  6gli 
De’ magnanimi  Teucri,  e,  sulla  pira 
Scagliandoli,  destò  del  fuoco  in  quella 
L’invitto  spirto  struggitor,  che  il  tutto 
Divorasse,  e chiamò  con  dolorosi 
Gridi  l’amico:  Addio,  Patroclo,  addio 
Ne’  regni  anche  di  Pluto.  Ecco  adempite 
Le  mie  promesse:  dodici  d’illustre 
Sangue  Trojani  si  consuman  teco 
In  queste  fiamme;  ed  Ettore  fia  pasto 
Delle  fiamme  non  già,  ma  delle  belve. 

Queste  minacce  ei  fea;  ma  gl’ incitati 
Mastin  la  salma  non  toccàr  d’Ettorre; 

Chù  notte  e dì  sollecita  la  figlia 
Di  Giove,  Citerea,  gli  alinntànava, 

E il  cadavere  ugnea  d’una  celeste 
Rosata  essenza  che  impedia  del  corpo 
Strascinato  l’offesa.  Intanto  Apollo 
Sul  campo  indusse  una  cerulea  nube 
Che  tutto  intorno  ricoprìa  lo  spazio 
Dal  cadavere  ingombro;  onde  alle  membra 
E de’ nervi  al  tessuto  innocua  fosse 
Dell’igneo  Sole  la  virtute  attiva. 

Ma  del  morto  Patroclo  il  rogo  ancora 
Non  avvampa.  Allor  prende  altro  consiglio 
Il  divo  Achille.  Trattosi  in  disparte. 

Ai  due  venti  Ponente  c Tramontana 


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49» 


ILIADE 


V.  26t*3oo 


Supplicando,  solenni  ostie  promette^ 

E in  aurea  eoppa  ad  ambedue  libando, 

Di  venirne  li  préga,  e intorno  al  morto 
Sì  le  fiamme  animar,  che  in  un  momento 
Lo  si  struggano  tutto,  esso  e la  pira. 

Udito  la  veloce  Iride  il  prego. 

Ai  venti  lo  recò,  che,  accolti  insieme 
Nella  reggia  di  Zefiro,  un  festivo 
Tcncan  convito.  S'arrestò  la  Diva 
Su  la  marmorea  soglia,  e alla  sua  vista 
Sursero  tutti  frettolosi:  ognuno 
A sè  chiamoUa,  ognun  le  offerse  il  seggio, 
Ma  ricusollo  la  Taumanzia,  e disse: 

Di  seder  non  è tempo:  alle  correnti 
Dell'  Oceano  ritornar  mi  deggio 
Nell’etiope  terreno  ove  s’appresta 
Agl’Immortali  un’ecatombe,  e bramo 
Ne’  sacrifici  aver  mia  parte  io  pura. 

Ma  il  Pelide  te.  Borea,  e te,  sonora 
Zefiro,  prega  di  solfiar  nel  rogo. 

Su  cui  giace  di  Patroclo  la  spoglia 
Dagli  Achei  tutti  deplorata,  e molte 
Vittime  ei  v’ offre,  se  avvampar  lo  fatc< 
Cosi  detto,  disparve ^ e <piei  leràrsi 
Con  immenso  strider,  densate  innanzi 
A sè  le  nubi.  Si  sfrenàr,  soffiando 
Sulla  marina,  sollevaro  i flutti, 

E di  Troja  arrivati  alla  pianura, 

Ruinàr  su  la  pira:  e strepitoso 
Immane  incendio  si  destò.  Dai  forti 
Soli)  agitata  divampò  sublime 
Tutta  notte  la  fiamma,  c tutta  notte 
U Pelide  da  vasto  am'co  cratere 
Il  vino  attinse  con  rìtonda  coppa, 

E spargendolo  al  suol  devotamente, 
N’iiTÌgava  la  terra,  e l’infelice 
Ombra  invocava  dell’estinto  amico. 

Come  un  padre  talor  piange,  bruciando 
L’ossa  d’un  figlio  che  morì  già  sposo, 

E,  morendo,  lasciò  gli  sventurati 


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r.  3o  1-340  Lmo  XXIil 

Suoi  genitori  di  cordoglio  oppressi  4 
Cosi  dando  alle  fiamme  il  suo  compagno, 
Geme  il  Pelide,  e crebri  alti  sospiri 
Traendo,  intorno  al  rogo  si  strascina. 
Come  poi  nunzio  della  luce  al  mondo 
Lucifero  brillò,  dopo  cui  stende 
Sul  pelago  l’Aurora  il  croceo  velo, 

Mori  la  vampa  sul  consunto  rogo, 

E per  lo  tracio  mar,  che  rabbuifato 
Muggia,  tomaro  alle  lor  case  i venti. 

Stanco  allora  il  PeUde,  e dalla  pira 
Scostatosi,  sdrajossi,  e dolce  il  sonno 
L’occupò.  Ma  il  tumulto  e il  calpestio 
De’ capitani,  che  alI’Atride  in  folla 
Si  raccogliean,  destollo  4 el  surse,  e assiso 
Cosi  loro  parlò:  Supremo  Atrìde, 

E voi  primati  degli  Achei,  spegnete 
Voi  tutti  or  meco  con  purpureo  vino 
Di  tutto  il  rogo  in  pria  le  brage4  e poscia 
Raccogliam  di  Patroclo  attentamente 
Le  sacrate  ossa:  e scemerle  fia  lieve 4 
Imperocché  nel  mezzo  ei  si  giacca 
Della  catasta,  e gli  altri  all’orlo  estremo 
Separati,  fur  arsi  alla  rinfusa 
E nomini  e cavalli.  Indi  d’ opimo 
Doppio  zirbo  ravvolte,  in  urna  d’oro 
Le  riporremo,  finché  vegna  il  giorno 
Ch’io  pur  di  Pluto  alla  magion  discenda. 
Non  vo’  gli  s’  erga  una  superba  tomba , 

Ma  modesta.  Potrete  ampia  e sublime 
Voi  poscia  alzarla,  o duci  achei,  che -vivi 
Dopo  me  rimarrete  a questa  riva. 

Del  Pelide  al  comando  obbedienti 
Con  larghi  sprazzi  di  vermiglio  bacco 
Di  tutto  il  rogo  ei  spensero  alla  prima 
Le  vive  brage,  e giù  cadde  profonda 
La  cenere.  Adunar  quindi,  piangendo, 
Del  mansueto  eroe  le  candid’ ossa  4 
Le  eomposer  nell’urna  avvolte  in  doppio 
Adipe,  e,  dentro  il  padiglion  deposte, 


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<94 


lUADE 


r. 


Di  sottil  lino  le  coprir.  Ciò  fatto, 

Disegnàr  presti  in  tondo  il  monumento^ 

Ne  gittaro  dintorno  all’arsa  pira 

I fondamenti^  v’anunassàr  di  sopra 
Lo  scavato  terreno*,  e a fin  condotta 
La  tomba,  si  partian.  Ma  li  rattenne 

II  Pelide^  e li  fatto  in  ampio  agone 
11  popolo  seder,  de’  ludi  i prem] 

Fe  dai  legni  recar:  tripodi  e vasi 
E destrieri  e giumenti  e generosi 
Tauri  e captive  di  gentil  cintiglio 
E forbite  armature.  E primamente 
Alla  corsa  de’ cocchi  il  premio  pose: 

Una  leggiadra  in  bei  lavori  esperia 
Donzella  a chi  primier  tocca  la  meta. 

Con  un  tripode  a doppia  ansa,  e capace 
Di  ventldue  misure.  Uua  giumenta 

Che  al  sest’ anno  già  venne,  ancor  non  doma, 

E il  sen  già  grave  di  bastarda  prole. 

Al  secondo.  Un  lebete  intatto  e bello 
E di  quattro  misure,  al  terzo  auriga^ 

Al  quarto,  un  doppio  aureo  talento;  e al  quinto, 
Una  coppa  dal  foco  ancor  non  tocca. 

Surto  in  piedi  allor  disse:  Atride,  Argivi, 
Gioventù  bellicosa,  a voi  dinanzi 
Bieco  i premj  che  attendono  nel  circo 
Degli  aurighi  il  valor.  S’ altra  cagione 
Questi  ludi  eccitasse,  i primi  onori 
Miei  per  certo  sarian;  chè  la  prestezza 
De’ miei  destrieri  non  ha  pari,  e voi 
Lo  vi  sapete;  perocché  son  essi 
Immortali,  e donolli  il  re  Nettunno 
Al  mio  padre  Peléo,  che  a me  li  cesse. 

Queto  io  dunque  starommi,  e queti  insieme 
I miei  cavalli.  1 miseri  perduto 
Hanno  il  lor  forte  condottiero  c mite. 

Che  lavarne  solca  le  belle  chiome 
Alla  chiara  corrente,  ed  irrorarle 
Di  liquid’oliu  rilucente;  cd  ora 
Piangunlo  immoti,  colle  meste  giubbe 


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LIBRO  XXIII 


4g5 


9. 

Al  suol  dilliise,  e il  cor  di  doglia  oppresso. 
Chiunque  degli  Achei  pertanto  ha  speme 
Ne’  cocchi  e ne’  destrier,  si  metta  in  punto. 

Ciò  disse  appena,  che  animosi  e pronti 
Presentarsi  gli  aunghi  ; Eumelo  il  primo, 
Regai  germe  d’Admeto,  e delle  bighe 
Perito  agitator.  Mosse  secondo 
11  gagliardo  Tidide  Diomede 
Co’  destrieri  di  Troe  tolti  ad  Enea, 

Cui  da  morte  campò  l’opra  d’ Apollo. 

Il  biondo  Menelao,  sangue  di  Giove, 

Levossi  il  terzo;  e sotto  al  giogo  addusse 
Due  veloci  cavalli,  il  suo  Podargo, 

Ed  Età,  del  fratello  una  puledra. 

Dell’aringo  bramosa  a meraviglia. 

Donata  al  rege  Agamennon  l’avea 
L’Anchisiade  Echepólo,  onde  francarsi 
Dal  seguitarlo  a Troja,  e neghittoso 
Nell’opulenta  Sicion,  sua  stanza. 

Rimanersi  a fruir  le  concedute 
Dal  saturnio  Signor  molte  ricchezze. 

Del  magnanimo  Nèstore  buon  figlio. 

Antiloco,  aggiogò  quarto  i criniti 
Suoi  cavalli  di  Pilo,  ancor  del  cocchio 
Buoni  al  tiro.  Si  trasse  il  vecchio  padre 
A lui  già  saggio  per  sé  stesso,  e un  saggio 
Utile  avviso  gli  porgea,  dicendo: 

Antiloco,  te  amar  Giove  e Nettunno 
Giovane  ancora,  e t’erudìr  di  tutta 
L’arte  equestre;  perciò  poco  fia  l’uopo 
D’ ammaestrarti;  perocché  sai  destro 
Girar  la  meta;  ma  son  tardi  al  corso 
I tuoi  destrieri,  e qualche  danno  io  temo. 
Destrier  più  ratti  han  gli  altri,  ma  non  arte 
Nè  scienza  maggior.  Dunque,  o mio  caro. 
Tutti  richiama  al  cor  gli  accorgimenti, 

Se  vuoi  che  il  premio  da  tue  man  non  fugga. 
L’arte,  più  che  la  forza,  al  fabbro  è buona; 
Coll’arte  in  mar  da  venti  combattuto 
Regge  il  piloto  la  sua  presta  nave. 


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ILIADE  9,  ^ai-4^ 

» E coll'arte  il  coeebief  passa  il  cocckiero. 

Chi  sol  del  coechio  e de'  corsier  si  fida, 

Qua  e là  s'aggira  senza  senno;  incerti 
Divagano  i cavalli,  ed  ei  non  puote 
Più  governarli.  Ma  l'esperto  auriga, 

Bcnchà  meno  valenti  i suoi  sospinga. 

Sempre  ha  l'occhio  alla  meta,  e vòlta  stretto, 

E sa  come  lentar,  sa  come  a tempo 
Con  fermi  polsi  rattener  le  briglie, 

Ed  osserva  il  rivai  che  lo  precede. 

Or  la  meta,  perchè  tu  senza  errore 
La  distingua,  dirò:  sorge  da  teira 
Alto  sei  piedi  un  tronco  di  larice 
O di  quercia  che  sia,  secco  e da  pioggia 
Non  putrefatto  ancor.  Stan  quinci  e quindi. 

Dove  sbocca  la  via,  due  bianche  pietre, 

Da  cui  si  stende  tutto  piano  in  giro 
De'  cavalli  lo  stadio.  O che  sepolcro 
Questo  si  fosse  d'nn  illustre  estinto, 

O confln  posto  dalla  prisca  gente, 

Meta  al  corso  lo  fece  oggi  il  Pelide. 

Tu  fa  di  rasentarla,  e vi  sospingi 
Vicin  vicino  il  cocchio  c i corridori. 

Alcun  poco  piegando  alla  sinistra 
La  persona,  e flagella  e incalza  e sgrida 
n cavallo  alla  dritta,  c gli  abbandona 
Tutta  la  briglia;  e fa  che  l'altra  intanto 
Rada  la  meta  si,  che  paja  il  mozzo 
Della  mota  volubile  toccarla; 

Ma  vedi,  ve',  che  non  la  tocchi;  infranto 
N'  andrebbe  il  carro , offesi  i corridori , 

E tu  deriso  e di  disnor  coperto. 

Sii  dunque  saggio  e cauto.  Ove  la  meta 
Trascorrer  netto  ti  riesca,  alcuno 
Non  fìa  che  poi  t'aggiunga  o ti  trapassi. 

No,  s'anco  a tergo  ti  venisse  a volo 
Quel  d' Adrasto  corsier  nato  d'un  Dio, 

11  veloce  Arione,  o qnei  famosi 
Che  qui  Laumedonte  un  dì  nudria. 

Divisate  al  figliuol  distintamente 


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LIBRO  1X111 


497 


V.  46i>5<x> 

Queste  avvertenze,  si  raccolse  il  veglio 
Nell'erboso  suo  seggio.  Ultimo  intanto 
Con  bella  coppia  di  corsier  superbi 
Merìon  nella  lizza  era  venuto. 

Montati  i carri,  si  gittàr  le  sorti. 
Àgitolle  il  Peb'de,  e usci  primiero 
Antiloco  ^ indi  Eumelo;  indi  l’Àtride; 

Fu  quarto  Merìon^  quinto,  il  fortissimo 
Diomede.  Locàrsi  in  ordinanza 
Tutti;  ed  Achille  mostrò  lor  lontana 
Nel  pian  la  meta,  a cui  giudice  avea 
Posto  del  padre  lo  scudier.  Fenice, 
Venerando  vegliardo;  onde  notasse 
Le  corse  attento,  c riferisse  il  vero. 

Stavano  tutti  colle  sferze  alzate 
Su  gli  ardenti  destrieri;  e,  dato  il  segno, 
Lentòr  tutti  le  briglie,  e co’  flagelli 
E co’  gridi  animare  i generosi 
Corsier  che  ratti  si  lanciàr  nel  campo, 

E dal  lido  sparirò  in  un  baleno. 

Sorge  sotto  i lor  petti  alta  la  polve. 

Che,  di  nugolo  a guisa  o di  procella. 

Si  condensa,  ed  al  vento  abbandonate 
Svolazzano  le  giubbe.  Or  vedi  i cocchi 
Rader  bassi  la  terra,  ed  or  sublimi 
Balzarti;  nè  perciò  perde  mai  piede 
Degli  aurighi  veruno,  e batte  a tutti 
Per  desiderio  della  palma  il  core; 

E in  un  nembo  di  polve  ognun  dà  spirto 
A’  suoi  volanti  alipedi.  Varcata 
La  meta,  c preso  il  rimanente  corso 
Di  ritorno  alle  mosse,  allor  rifube 
Di  ciascun  la  prodezza,  allor  si  stese 
Nello  stadio  ogni  cocchio.  Innanzi,  a tutti 
Le  puledre  volavano  veloci 
Del  Fereziade  Eumelo;  e dopo  queste, 

Ma  di  poco  intervallo,  i corridori 
Di  Troe,  guidati  dal  Tidide,  e tanto 
Imminenti,  che  ognor  parean  sul  carro 
Montar  d’Elumelo,  a cui  co’ fiati  ardenti 
Moitl  Iliade.  5’i 


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4f>8  ILIADE  , Soi.Vio 

Già  scaldano  le  spalle,  e già  le  toccano 
Colle  fervide  teste.  E oltrepassato 
Forse  l’avrebbe,  o pareggiato  almeno, 

Se,  al  figlio  di  Tidéo  Febo  la  palma 
Invidiando,  non  gli  fea  sdegnoso 
Balzar  dal  pugno  la  lucente  sferza. 

Lagrime  d’ira  e di  dolor  le  gote 
Inondàr  dell'eroe,  vista  d’Eumelo 
Lontanarsi  più  rapida  la  biga, 

E per  difetto  di  ilagel  più  lenta 
Correr  la  sua.  Ma  Pallade,  d’Àpollo 
Scòrta  la  frode,  e del  Tidide  il  danno. 

Presta  a lui  corse ^ e,  alla  sua  man  rimessa 
La  sferza,  aggiunse  ai  corridor  la  lena. 

Indi  al  figlio  d’Admeto  avvicinossi 
Irata,  e il  giogo  gli  spezzò.  Turbate 
Si  sviar  le  cavalle^  andò  per  terra 
11  timon;  riversossi  il  cavaliero 
Presso  alla  ruota,  e il  cubito  e la  bocca 
Lacerossi  e le  nari,  e su  le  ciglia 
N’  ebbe  pesta  la  fronte:  le  pupille 
S’ empir  di  pianto,  s’arrestò  la  voce; 

£ Diomede  il  trapassò,  sferzando 
Gli  animosi  destrier,  che  innanzi  a tutti 
Scappan  di  molto;  perocché  Minerva 
Gli  afforza,  e vincitor  vuole  il  Tidide. 

Vien  dopo  questi  Menelao,  cui  preme 
Di  Nestore  il  figliuol  che,  confortando 
I patemi  destrier,  grida:  Correte, 

Stendetevi  prestissimi:  non  io 
Già  vi  comando  gareggiar  con  quelli 
Del  forte  Diomede , a’  quai  Minerva 
Diè  l’ali  al  piede,  e a lui  la  palma:  solo 
Raggiungete  l’Atride,  e non  soffrite. 

Restando  addietro,  eh’ Età,  una  giumenta, 

Vi  sorpassi  di  corso  e disonòri. 

Che  lentezza  s’è  questa?  ov’ è l’antica 
Vostra  prestanza?  lo  lo  vi  giuro,  e il  giuro 
S'adempirà:  se  pigri  un  premio  vile 
Riporterem,  negletti,  anzi  trafitti 


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LIBRO  XXUI 


499 


Da  Nèstore  sarete.  Or  via  , volate  ^ 

Ch’io,  di  astuzia  giovandomi,  senz’erro 
Trapasserò  l’Àtride  nello  stretto. 

Àntiloco  si  disse ^ e quei,  temendo 
Le  sue  minacce,  rinforzare  il  corso: 

Ed  ecco  dopo  poco  il  passo  angusto 
Del  concavo  cammin.  Vera  una  frana 
Ove  l’acqua  invernai,  raccolta  in  copia, 
Dirotta  avea  la  strada,  c tutto  intorno 
Affondato  il  terren.  Per  quella  parte 
Si  drizzava  l’Àtride  j onde  il  concorso 
Iscliivar  delle  bighe.  Ivi  si  spinse 
Antiloco  pur  esso^  e,  deviando 
Dalla  carriera  un  cotal  poco,  e forte 
Flagellando  i corsier,  lo  stringe,  e tenta 
Prevenirlo.  Temettene  l’Atride, 

E gridò:  Dove  vai,  pazzo?  rattieni, 

Antiloco,  i destrier:  stretta  è la  via. 

Aspetta  che  s’allarghi,  e trapassarmi 
Potrai:  qui  entrambi  romperemo  i cocchi. 

Àntiloco  non  l’odej  e,  stimolando 
Più  veemente  i corridor,  s’avanza. 

Quanto  è il  tratto  d’un  disco  da  robusto 
Giovin  scagliato  per  provar  sue  forze, 

Tanto  trascorse  la  nestórea  biga. 

Iscansossi  l’Atride,  e volontario 

I suoi  destrieri  rallentò,  temendo 

Che  da  quegli  altri  urtati  in  quello  stretto 
Non  gli  versino  il  cocchio , e al  suol  stramazzino 
Bissi  medesmi  nel  voler  per  troppo 
Amor  di  lode  accelerarsi.  Intanto 
Dietro  al  figlio  di  Nestore  l'Àtride 
Gridar  s’udiva:  Antiloco,  non  avvi 

II  più  tristo  di  te^  va  pure:  a torto 
Noi  saggio  ti  tenemmo;  ma  tu  premio 
Non  toccherai,  per  dio!  se  pria  non  giuri. 

Quindi,  animando  i suoi  corsier,  dicea: 

Non  v’impigrite,  non  mi  state  afflitti; 

Pria  di  voi  perderan  quelli  la  lena; 

Ch’ei  son  vecchi  ambidue. — Cosi  lor  grida; 


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5oo 


ILIADE 


I*.  58i>^io 


E docili  i destrieri  alla  soa  voce 
Doppiare  il  corso,  e tosto  li  raggiunsero. 

Nel  circo  assisi  intanto  i prenci  achei 
Staransi  attenti  ad  osserrar  da  lungi 

I volanti  cavalli  che  nel  campo 
Sollevavan  la  polve.  Idomenéo, 

Re  de’ Cretesi,  gli  avvisò  primiero. 

Che  fuor  del  circo  si  sedea  sublime 
A una  vedetta.  E di  lontano  udita 
Del  primo  auriga,  che  venia,  la  voce. 

Lo  conobbe,  e distinse  il  precorrente 
Destrier  che  tutto  sauro  in  fronte  avea 
Bianca  una  macchia,  tonda  come  luna. 
Rizsossi  in  piedi,  e disse:  O degli  Achei 
Prenci  amici,  m’inganno,  o ravvisate 
Quei  cavalli  voi  pure?  Altri  mi  sembrano 
Da  quei  di  prima,  ed  altro  il  condottiero. 

Le  puledre,  che  dianzi  eran  davanti. 

Forse  sofferto  han  qualche  sconcio.  Al  certo 
Girar  primiere  le  vid’ io  la  meta^ 

Or  come  che  pel  campo  il  guardo  io  volga. 
Più  non  le  scorgo.  O che  scappar  di  mano 
All’auriga  le  briglie^  o ch’ei  non  seppe 
Rattcneme  la  foga,  e non  fe  netto 

II  giro  della  meta.  Ei  forse  quivi 
Cadde,  e infranse  la  biga,  e le  cavalle 
Dev'iàr  furliose.  Or  voi  pur  anco 
Alzatevi,  e guardate:  io  non  discerno 
Abbastanza^  ma  parmi  esser  quel  primo 
L’òtolo  prence  argivo,  Diomede. 

Che  vai  tu  vaneggiando?  aspro  riprese 
Ajace  d’Oiléo.  Quelle,  che  miri 
Da  lungi  a noi  volar,  son  le  puledre. 

Più  non  sei  giovinetto,  o Idomenéo: 

La  vista  hai  corta,  e ciance  assai;  nè  il  farne 
Multe  t’è  bello  ov’ altri  è più  prestante. 
Quelle  davanti  son,  qual  pria,  d’Eumelo 
Le  puledre,  e ne  regge  esso  le  briglie. 

E a lui  cruccioso  de’  Cretesi  il  sire  ; 
Maledico  rissoso,  in  questo  solo 


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F.  «1I-S60  t-IBRO  XXIIl  So  I 

Tra  noi  valente,  ed  ultimo  nel  resto, 

Villano  Ajace,  deponiam,  su  via, 

Cn  tripode  o un  lebetc,  e Agamennóne 
Giudichi  e dica  che  corsier  sian  primi  ^ 

E,  pagando,  il  saprai.  Sorgea  parato 
A far  risposta  con  acerbi  detti 
Lo  stizzito  Oilide,  e la  contesa 
Crescea^  ma  grave  la  precise  Achille: 

Fine,  o duci,  a un  ontoso  ed  indecoro 
Parlar  che  in  altri  biasmereste.  In  pace 
Sedetevi,  e guardate:  i gareggianti 
Corridori  son  presso,  e voi  ben  tosto 
Chi  sia  primo  saprete,  e chi  secondo. 

Fra  questo  dire,  a furia  ecco  il  Tididc 
Avanzarsi,  e le  groppe  senza  posa 
Tempestar  de'  cavalli  che  sublimi 
Divorano  la  via.  Schizzi  di  polve 
Incessanti  percuotono  l’auriga. 

D’òr  raggiante  e di  stagno  si  rivolve 
Dietro  i ratti  corsier  si  lieve  il  cocchio. 

Che  appena  vedi  della  ruota  il  solco 
Nella  sabbia  sottil.  Giunto  alle  mosse. 

Fra  le  plaudenti  turbe  il  vincitore 
Fermossi.  Un  rivo  di  sudor  sul  collo 
E dal  petto  scorrea  degli  anelanti 
Corsieri;  ed  esso  dal  lucente  carro 
Leggier  d’un  salto  al  suol  gittossi,  e al  giogo 
Lo  scudiscio  appoggiò.  Nè  stette  a bada 
Sténelo,  il  forte  suo  scudier,  che  pronto 
11  tripode  si  tolse  e la  donzella 
Premio  del  corso;  e,  consegnato  il  tutto 
Ai  prodi  amici , i corridor  disciolse. 

Secondo  giunse  Antiloco  che  avea 
Non  per  rattezza  di  destrier  precorso 
Menelao,  ma  per  arte;  e nondimeno 
Questi  a tergo  gli  è si,  che  quasi  il  tocca. 

Quanto  si  scosta  dalla  ruota  il  piede 
Di  corsier  che  pel  campo  alla  distesa 
Tragge  sul  cocchio  il  suo  signor,  lambendo 
Co’  crini  estremi  della  coda  il  cerchio 


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5oa  ILIADE  fifi|.,00 

Del  volubile  giro  che  diviso 
Da  minimo  intervallo  ognor  si  volvc 
Dietro  i rapidi  passi  ^ iva  l'Àtridc 
Sol  di  tanto  discosto  allor  dal  figlio 
Di  Nestore,  quantunque  egli  da  prima 
Fosse  rimasto  un  trar  di  disco  indietro. 

Ma  deiragameononia  Età  fu  tale 
La  prestezza  e il  valor,  che  tosto  il  giunse: 

E Tavria  pure  oltrepassato,  e fatta 
Non  dubbia  la  vittoria,  ove  più  lunga 
Stata  si  fosse  d' ambedue  la  corsa. 

Seguia  l’Atride  Merion,  preclaro 
Scudier  d'Idomcnéo,  distante  il  tiro 
D'una  lancia,  perchè  belli,  ma  pigri 
I corridori  egli  ebbe,  e perchè  desso 
Era  il  men  destro  nel  guidar  la  biga. 

Ultimo  ne  venia  d' Admeto  il  figlio, 

A stento  il  cocchio  traendo,  e dinanzi 
Cacciandosi  i destrieri.  Lo  compianse. 

Come  lo  vide,  Achille;  e,  circondato 
Dagli  Achei,  proflcrì  queste  parole: 

Ultimo  giunge  il  più  valente.  Or  via, 

Diamgli  il  premio  secondo;  egli  n'è  degno; 

Ma  il  primo  al  figlio  di  Tidéo  si  rèsti. 

Lodàr  tutti  il  decreto;  e fra  gli  applausi 
Degli  Achei  sull’istante  egli  donata 
La  giumenta  gli  avria,  se,  posta  in  campo 
La  sua  ragione.  Antiloco  al  Pelide 
Non  si  volgea,  dicendo:  Achille,  io  teco 
Mi  corruccio  davver,  se  il  tuo  disegno 
Metti  ad  effetto.  Perchè  un  Dio  gli  oficse 

I cavalli  ed  il  cocchio,  e non  gli  valse 
La  sua  prodezza,  mi  vorrai  tu  dunque 

II  mio  premio  rapir  ? Chè  non  pors’  egli 
Prima  ai  numi  i suoi  voti?  Ei  non  saria 
Ultimo  giunto  nell’illustre  aringo. 

Che  se  di  lui  pietà  ti  move,  e questo 
Al  cor  t’  è grato , nella  tenda  hai  molte 
D’auro  c bronzo  conserve,  bai  molto  gregge. 

Hai  fanciulle  c cavalli.  E tu  il  presenta 


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LIBKO  XXIII 


40 

Di  queste  cose,  e sian  maggiori  ancora, 

Ma  in  altro  tempo,  o,  se  il  vuoi,  pure  adesso. 
Onde  ten  veglia  degli  Achei  la  lode. 

Ma  questa  io  non  vo'  darla , e dovrà  meco 
.Sperimentarsi  ogni  uom  che  la  pretenda. 

Delle  franche  d'Antiloco  parole 
Compiaciuto,  sorrise  il  divo  Achille, 

Cui  caro  amico  egli  era;  e gli  rispose: 
AnUloco,  tu  vuoi  che  s'abbia  Eumelo 
Di  ciò,  che  in  serbo  io  tengo , altro  presente  ; 
E l’avrà.  Gli  darò  d’Asteropco 
La  di  bronzo  lorica,  a cui  dintorno 
Scorre  un  bell’orlo  di  fulgente  stagno; 

Lavoro  di  gran  pregio.  — E,  cosi  detto, 

Al  suo  fedele  Automedonte  impose 
Di  recar  dalla  tenda  la  lorica. 

Volò  quegli,  e recolla  al  suo  signore, 

Che  in  man  la  pose  dell’allegro  Eumelo. 

Contro  Antiloco  allor  surse,  il  cor  pieno 
Di  doglia  e d’ira,  Menelao.  L’araldo 
Misegli  tosto  nelle  man  lo  scettro, 

E silenzio  intimò.  Quindi  l’eroe 
Cosi  a dir  prese;  O tu,  che  per  l’ innanzi 
Grido  avevi  di  saggio,  che  facesti? 
Disonestasti,  0 Antiloco,  la  mia 
Gloria,  e cacciati  per  inganno  avanti 
Li  tuoi  corsieri  assai  da  meno,  i miei 
Sconciamente  offendesti.  Or  voi  qui  fate. 
Prenci  achivi,  ragione  ad  ambedue 
Senza  rispetti;  ch’io  non  vo’  che  poi 
Dica  qualcuno  degli  Achei:  L’Atride 
Colle  menzogne  Antiloco  aggravando. 

Via  la  giumenta  si  menò,  vincendo 
Di  cavalli  non  già,  ma  di  possanza 
E di  forza.  Ma  che?  Senza  paura 
Di  biasmo  io  stesso  finirò  la  lite, 

E fia  retto  il  giudizio.  Orsù;  t’accosta. 

Prode  alunno  di  Giove,  e,  giusta  il  rito, 
Statti  innanzi  alla  biga,  e,  d’una  mano 
Impugnando  la  sferza  agitatrice, 


5o4 


aUDE 


V.  ;4i-78o 


E sì  coll’altra  ì corrìdor  toccando, 

Giura  a Nettunno,  non  aver,  rolente 
Nè  con  frode,  impedito  il  cocchio  mio. 

Re  Menelao,  mi  compatisci,  accorto 
L’altro  rispose:  giovinetto  ancora 
Son  io:  tn  d’anni  e di  virtù  mi  vinci, 

E dcll’etade  giovanil  ben  sai 
I difetti:  cnor  caldo  e poco  senno. 

Siimi  dunque  benigno.  Ecco,  a te  cedo 
L’ottenuta  giumenta;  e s’allro  brami 
Del  mio,  darollo  di  cuor  pronto,  e tosto. 
Anzi  che  l’amor  tuo  per  sempre,  o prence, 
Perdere,  e farmi  ai  sommi  iddii  spergiuro. 

Sì  dicendo,  di  Nestore  il  buon  6glio 
La  giumenta  condusse,  ed  alle  mani 
La  ponea  dell’Atride,  a cui  di  gioja 
Intenerissi  il  cor.  Siccome  quando 
Su  i sitibondi  culti  la  rugiada 
Spargesi  e avviva  le  crescenti  spighe: 

A te  del  pari,  o Menelao,  nel  petto 
Si  sparse  la  letizia,  e dolcemente 
Gli  rispondesti:  Antiloco,  a te  cedo. 

Deposta  l’ira,  io  stesso.  Unqna  non  fosti 
Nè  leggier  nè  bizzarro.  Oggi  fu  vinto 
Da  sconsigliata  giovinezza  il  senno. 

Ma  il  ben  guardarsi  dagl’inganni,  è bello 
Co’ maggiori.  Nessun  m’avria  placato 
Sì  facilmente  degli  Achei;  ma  molto 
Coll’egregio  tuo  padre  e col  fratello 
Per  mia  cagion  tu  soffri,  e molto  sudi; 
Perciò  m’arrendo  al  tuo  pregare:  e questa, 
Cb’è  mia,  ti  dono,  a On  che  ognun  si  vegga 
Che  nè  6er  nè  superbo  ho  il  cor  nel  petto. 

Diè,  ciò  detto,  d’Anliloco  al  compagno, 
Noemón,  la  giumenta;  indi  si  tolse 
n fulgido  lebete;  e Merìone, 

Che  quarto  giunse,  i due  talenti  d’oro. 
Restava  il  quinto  guiderdon,  la  coppa. 

La  prese  Achille;  c,  traversando  il  pieno 
Circo,  accostossi  al  buon  Ncstorrc,  e lieto 


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8i4m  Limo  ZSIII 

PreccntoUa  all'eroe  con  questi  accenti: 
Tieni,  illustre  vegliardo,  e questo  dono 
Ricordanza  ti  sia  delle  funebri 
Pompe  del  nostro  Patroclo,  cui,  lasso! 

Non  rivedrem  più  mai.  Qnesto  vogl'io 
Che  gratuito  sia,  poiché  del  cesto, 

E dell'arco  il  certame  e della  lotta, 

E del  corso  pedestre  a te  si  vieta 
Dalla  triste  vecehiezza  che  ti  grava. 

Tacque^  e la  coppa  fra  le  man  gli  mise. 
Lieto  il  veglio  accettolla,  e sì  rispose: 

Ben  parli,  o figlio:  le  mie  forze  tutte 
Sono  inferme,  o mio  caro;  il  piè  va  lento; 
Dispossato  mi  pende  dalle  spalle 
L'un  braccio  e l'altro.  Oh!  giovine  foss'io 
E intero  di  vigor,  siccome  il  giorno 
Che  in  Buprasio  gli  Epéi  diero  al  sepolcro 
Il  rege  Amarincéo,  proposti  i ludi 
Dai  regali  suoi  figli!  Ivi  nessuno 
Nè  degli  Epéi  nè  de'medesmi  Pilj 
Pari  mi  stette  di  valor,  nè  manco 
De'  magnanimi  Etòli.  Io  vinsi  al  cesto 
Il  figliuolo  d'Endpe  Clitoméde, 

Alceo  Pleuronio,  nella  lotta,  a cui 
NTavea  sfidato:  superai  nel  corso 
L'agile  indo,  e nel  vibrar  dell'asta 
Polidoro  e Filéo.  Soli  all'equestre 
Lizza  innanzi  m'andàr  d' Attore  i figli. 

Che  due  contr'un  gelosi  invid'iàrmi 
Una  vittoria  d'infinito  prezzo. 

Indivisi  gemelli,  uno  reggeva 
Sempre  sempre  i destrier,  l'altro  di  sferza 
Li  percotea.  Tal  fui  già  tempo:  or  lascio 
Siffatte  imprese  ai  giovinetti,  e forza 
M'  è l' obbedire  alla  feral  vecchiezza. 

Ma  tra  gli  eroi  fui  chiaro  anch'io.  Tu  segui 
Del  morto  amico  ad  onorar  la  tomba 
Co'  fùnebri  certami.  Il  tuo  bel  dono 
M'è  caro,  e il  prendo.  Mi  gioisce  il  core 
Al  veder  che  di  me,  che  t'amo,  ognora 


5o6 


ILIADE 


9.  9>i*86o 


Sei  memore,  e sai  quale  al  mio  canato 
Crine  si  debba  dagli  Achivi  onore  : 

Di  ciò  ti  dien  gli  Dei  larga  mercede. 

Tutta  udita  di  Nèstore  la  lode, 

Entrò  il  Pelide  nella  calca,  e il  duro 
Pugilato  propose.  Àddur  si  fece 
Ed  annodar  nel  circo  una  gagliarda 
Infaticabil  mula,  a cui  già  il  sesto 
Anno  fiorìa,  non  doma,  ed  a domarsi 
Malagevole:  premio  al  vincitore. 

Pel  vinto  pose  una  ritonda  coppa. 

Indi  sorse,  e parlava:  Atridi,  Achei, 

E^co  i premj  alli  due  che  valorosi 
Vorranno  al  cesto  perigliarsi.  Quegli, 

Cui  dóni  amico  la  vittoria  il  figlio 
Di  Latona,  e l’affermino  gli  Achei, 

S’abbia  la  mula,  e il  perditor  la  coppa. 

Disse;  e un  uom  si  levò  forte,  membruto, 
Pugilatore  assai  perito,  Epéo, 

Di  Panope  figliuol.  Stese  alla  mula 
Costui  la  mano,  e favellò:  S’accosti 
Chi  vuol  la  coppa;  chè  la  mula  è mia. 

Niun  degli  Achivi  vincerammi , io  spero. 

Nel  certame  de’  cesto,  in  che  mi  vanto 
Prestantissimo.  E che?  forse  non  basta 
Che  agli  altri  io  ceda  in  battagliar?  Non  puotc 
A vcrun  patto  un  solo  esser  di  tutte 
Arti  maestro.  Io  vel  dichiaro,  e il  fatto 
Proverà  ciò  che  dico:  al  mio  rivale 
Spezzerò  il  corpo  e Possa.  Abbia  vicino 
Molti  assistenti  a trasportarlo  pronti 
Fuor  della  lizza  da  mie  forze  domo. 

Taeque;  e tutti  ammutirò.  Eravi  un  figlio 
Del  Taleònio  Mecistèo,  di  quello 
Cbe  un  di  nell’alta  Tebe  ai  sepolcrali 
Ludi  venuto  del  defunto  Edippo, 

Tutti  vinse  i Cadmei.  Costui  di  nome 
Euri'alo,  e guerrier  di  divo  aspetto, 

Fu  il  solo  che  s’alzò.  Molto  d’ intorno 
Gli  si  adoprava  il  grande  Diomede , 


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S6i-9ao  LIBRO  XXIII 

E co' detti  il  pungca,  lui  desiando 
Vincitore.  Figli  stesso  al  fianco  il  cinto 
Gli  avvinse,  e il  ^anto  gli  forni  di  doro 
Cuojo,  già  spoglia  di  selvaggio  bue. 

Come  in  punto  si  fùro,  ambi  nel  mexzo 
Presentarsi  gli  atleti;  e,  sollevate 
L'un  contra  l'altro  le  robuste  pugna, 

Si  mischiàr  fieramente.  Odesi  orrendo 
Sotto  i colpi  il  crosciar  delle  mascelle, 

E da  tutte  le  membra  il  sudor  piove, 
n terribile  Epéo  con  improvvisa 
Furia  si  scaglia  all'avversario;  e mentre 
Questi  bada  a mirar  dove  ferire, 

Epéo  la  guancia  gli  tempèsta  in  guisa,  * 

Che  il  mcschin  piìi  non  regge,  e,  balenando. 
Con  tutto  il  corpo  si  rovescia  in  terra. 

Qual  di  Borea  al  soffiar  l'onda  sul  lido 
Citta  il  pesce  talvolta,  e lo  risorbe; 

Tale  l'invitto  Epèo  stese  al  terreno 
Il  suo  rivale,  e tosto  generosa 
La  man  gli  porse,  e il  rialzò.  Pietosi 
Accorsero  del  vinto  i fidi  amici. 

Che  fuor  del  circo  lo  menàr  gittante 
Atro  sangue,  e i ginocchi  egri  traente 
Col  capo  spenzolato;  ed  in  disparte 
Condottolo,  il  posàr  de' sensi  uscito; 

Ed  altri  intorno  gli  restaro,  ed  altri 
A tor  ne  giro  la  ritonda  coppa. 

Tronco  ogn' indugio,  Achille  il  terzo  giuoco 
Propose,  il  giuoco  della  dura  lotta, 

E de' premj  (e  mostra:  al  vincitore 
Un  tripode  da  fuoco,  a cui  di  dodici 
Tauri  il  valore  dagli  Achei  si  dava; 

Ed  al  perdente  una  leggiadra  ancella, 
Quattro  tauri  estimata,  e che  di  molti 
Bei  lavori  donneschi  era  perita. 

Rizzossi  Achille;  e a quegli  eroi  rivolto: 
Sorga,  disse,  chi  vuole  in  questo  ludo 
Del  suo  valor  far  prova.  Immantinente 
Surse  l'immane  Telamonio  Ajace, 


5o8 


ILIADE 


90I-94<> 


E il  saggio  mastro  delle  frodi  Ulisse. 

Nel  mezzo  della  lizza  entrambi  accinti 
Presentarsi  ; e,  stringendosi  a vicenda , 

Colle  man  forti  s'afferràr,  siccome 
Due  travi  che  valente  architettore 
Congegna  insieme  a sostener  d’eccelso 
Edificio  il  colmigno,  agli  urti  invitto 
Degli  aquiloni.  Allo  stirar  de’ validi 
Polsi  intrecciati  scricchiolar  si  sentono 
Le  spalle,  il  sudor  gronda,  e spessi  appajono 
Pe’  larghi  dossi  e per  le  coste  i lividi 
Rosseggianti  di  sangue.  Àmbi  del  tripode 
A tutta  prova  la  conquista  agognano; 

Ma  nè  Ulisse  può  mai  l’altro  dismnovere 
E atterrarlo,  nè  il  puote  il  Telamonio; 

Chè  del  rivale  la  gran  forza  il  vieta. 

Gli  Achei  nojando  ornai  la  zufia,  Ajace 
All’emolo  guerrier  fe  questo  invito: 

Nobile  figlio  di  Laerte , in  alto 
Sollevami,  o sollevo  io  te:  del  resto 
Abbia  Giove  la  cura.  E cosi  detto. 
L’abbranca,  e l’alza.  Ma,  di  sue  malizie 
Memore  Ulisse,  col  tallon  gli  sferra. 

Al  ginocchio  di  retro  ove  si  piega. 

Tale  un  subito  colpo,  che  le  forze 
Scioglie  ad  Ajace,  e resnpino  il  gitta 
Con  Ulisse  sul  petto.  Alto  levossi 
De’  riguardanti  stupefatti  il  grido. 

Tentò  secondo  il  sofferente  Ulisse 
Alzar  da  terra  l’avversario;  e alquanto 
Lo  mosse  ei,  sì,  ma  non  alzollo.  Intanto 
L’altro  gl’ impaccia  le  ginocchia  in  guisa. 
Che  sossopra  ambedue  si  riversaro 
E lordarsi  di  polve.  E già  risnrti 
Sariano  al  terzo  paragon  venuti , 

Se  il  figlio  di  Peléo,  levato  in  piedi. 

Non  l’impedia,  dicendo:  Oltre  non  vada 
La  tenzon,  nè  vi  state,  o valorosi, 

A consumar  le  forze.  Ambo  vinceste, 

E v’  avrete  cgual  premio.  Itene;  e rèsti 


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LOSO  XXIII 


941-980 


Agli  altri  AchWi  libero  l' aringo. 

Obbedir  qnegli  al  detto;  e,  dalle  membra 
Tersa  la  polve,  ripigliàr  le  vesti. 

Pose,  ciò  fatto,  i prem)  alla  pedestre 
Corsa:  al  primo  un  cratère  ampio  d’argento. 
Messo  a rilievi,  contenea  sei  metri. 

Nè  al  mondo  si  vedea  vaso  più  bello. 

Era  d’ industri  artefici  sidonj 
Ammirando  lavoro,  e per  l’ azzurre 
Onde  ai  porti  di  Lenno  trasportato 
L’avean  fenic)  mercatanti,  e in  dono 
Cesso  a Toante.  A Pàtroclo  poi  diello 
11  Giasònide  Eunéo,  prezzo  del  figlio 
Di  Priamo,  Licaone:  ed  or  l’espose 
Premio  il  Pelide  al  vincitor  del  corso 
In  onor  dell’amico.  Un  grande  e pingue 
Tauro,  al  secondo;  all’ultimo,  d’òr  mette 
Mezzo  talento,  e ritto  alza  la  voce: 

Sorga  chi  al  premio  delle  corse  aspira. 

E sursero  di  sùbito  il  veloce 
Ajace  d’Odèo,  lo  scaltro  Ulisse, 

E il  Nestóride  Antiloco,  il  più  ratto 
De’  giovinetti  achei.  Posti  in  diritta 
Riga  alle  mosse,  additò  lor  la  meta 
n Pelide,  e diè  il  segno.  In  un  baleno 
S’avvenUr  dalla  sbarra,  e innanzi  a tutti 
L’Oib'de  spiccossi:  Ulisse  a lui 
Vicino  si  spingea  quanto  di  snella 
Tessitrice  al  sen  candido  la  spola, 

Quando  presta  dall’ una  all’altra  mano 
La  gitta,  e svolge  per  la  trama  il  filo, 

E sull’opra  gentil  pende  col  petto. 

Così  l’incalza  Ulisse,  e col  seguace 
Piè  ne  preme  i vestigi  anzi  che  s’alzi 
Il  polverio  d’intorno;  e,  sì  correndo, 

Gli  manda  il  fiato  nella  nuca.  Un  grido 
Sorge  di  plauso  d’ogni  parte,  e tutti 
Gli  fan  cuore  alla  palma,  a cui  sospira. 

Eran  del  corso  ornai  presso  alla  fine; 
Quando  a Minerva  l’itaco  dal  core 


509 


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5io 


lUADB 


V 98t*i02o 


Mandò  questa  preghiera:  Odimi,  o Dea, 

E soccurri  al  mio  piè. — La  Dea  P intese; 
Gli  fe  lievi  le  membra,  i piè,  le  braccia; 

E come  Tur  per  avventarsi  entrambi 
Ad  un  tempo  sul  premio,  POilide, 

Da  Minerva  sospinto,  sdrucciolò 
In  lubrico  terren  sparso  del  fimo 
De'  buoi  muggbianti , dal  Peb'de  uccisi 
Di  Patroclo  alla  pira.  Ivi  il  caduto 
Nari  e bocca  insozzossi.  Il  precorrente 
Divo  Ulisse  il  cratere  ampio  si  prese, 

E POilide  il  bue.  Della  selvaggia 
Fera  il  corno  impugnò  l'eroe  doglioso, 

La  lordura  sputando,  e fra  la  turba 
Ruppe  in  questo  lamento:  Empio  destino! 
Per  certo  i piedi  mi  rubò  la  Dea 
Cbe  da  gran  tempo  va  d’ Ulisse  al  fianco, 

E qual  madre  sei  guarda.  — Accompagnaro 
Tutti  il  suo  cruccio  con  un  dolce  riso. 

Ultimo  giunto  Antiloco,  si  tolse 
L'ultimo  premio;  e,  sorridendo,  disse: 
Amici,  i numi.  Io  vedete,  onorano 
I provetti  mortali.  Ajace  innanzi 
Mi  va  di  poca  etade:  Ulisse  al  tempo 
De'  nostri  padri  è nato  ; e nondimeno 
Egli  è rubizzo  e verde,  e nullo  al  corso 
Superarlo  potria,  tranne  il  Peb'de. 

Questo  sol  disse;  e l'esaltato  Achille 
Così  rispose:  Antiloco,  non  fia 
Detta  invan  la  tua  lode:  eccoti  d'oro 
Altro  mezzo  talento.  — E,  sì  dicendo. 

Olici  porse;  e quegli,  giubilando,  il  prese. 

Dopo  ciò,  fe  recarsi,  e nell'arena 
Depose  Achille  una  lunghissim' asta , 

Uno  scudo  ed  un  elmo,  armi  rapite 
Già  da  Patroclo  a Sarpedontc;  e,  ritto 
Nel  mezzo  degli  Achei:  Vogliamo,  ei  disse. 
Che  per  l'esposto  guiderdone  armali 
Due  guerrier  de'  più  forti  con  acuto 
Tagliente  acciar  davanti  all'  adunanza 


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».  1011-1060  LIBRO  XXIII  5 1 I 

Combattano.  Chi  pria  punga  la  pelle 
Dell’ avversario,  e,  rotte  Tarmi,  il  sangue 
Ne  tragga,  avrassi  questo  brando  in  dono 
Di  tracia  lama,  e bello  e tempestato 
D’argentei  chiovi.  Di  quest’arme  io  stesso 
Àsteropéo  spogliai.  L’ altre  saranno 
Premio  comune.  Ài  combattenti  io  poscia 
Nelle  tende  farò  lauto  banchetto. 

Surse  subitamente  al  fiero  invito 
Lo  smisurato  Telamonio  Ajace^ 

Surse  del  par  l’invitto  Diomede^ 

E,  armatisi  in  disparte,  ambo  nel  campo 
Pronti  alla  pugna  s’avanzàr  gli  eroi 
Con  terribili  sguardi.  Alto  stupore 
Tutti  occupava  i circostanti  Achei. 

L’uno  all’altro  appressati,  a fiero  assalto 
Si  disserràr  tre  volte,  e tre  alla  vita 
Impetuosi  s’investir.  Primiero 
Ajace  traforò  di  Diomede 
11  rotondo  hrocchier,  ma  non  la  pelle 
Dall’usbergo  difesa.  Indi  il  Tidide 
Sopra  la  penna  dello  scudo  all’altro 
Spinse  rapido  l’asta,  e nella  strozza 
Gliel’ appuntò.  D’ Ajace  al  fier  periglio 
Spaventarsi  gli  Àchivi,  e della  pugna 
Gridàr  la  fine,  e premio  ugual.  Ma  il  brando 
Col  bel  cinto  l’eroe  diello  al  Tidide. 

Grezzo,  qual  già  dalla  fornace  uscio. 

Un  gran  disco  il  Pelide  allor  nel  mezzo 
Collocò.  Lo  solea  l’ immensa  forza 
Scagliar  d’Eezione;  a costui  morte 
Diè  poscia  il  divo  Achille,  e nelle  navi 
Con  altre  spoglie  si  portò  quel  peso. 

Ritto  alzossi,  c gridò:  Sorga  chi  brama 
Cosi  bel  premio  meritarsi.  In  questo 
Il  vincitor  s’avrà  per  cincpie  interi 
Giri  di  Sole  di  che  all’uopo  tutto 
Provveder  de’  suoi  campi  anche  remoti  : 

Nè  suoi  bifolchi  nè  pastori  andranno 
Per  bisogno  di  ferro  alla  ciltade^ 


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ILIADE 


9.  io6i«iioo 


5i» 

Chè  quello  ne  darà  quanto  i mestiero. 

Levossi  il  bellicoso  Polipete^ 

Levossi  Leontéo,  forza  divina^ 

Levossi  Àjace  Telamonio,  e seco 
Il  mnscoloso  Epéo.  Locàrsi  in  fila; 

E primo  Epéo  scagliò  l’orbe  rotato, 

Ma  si  mal  destro,  che  ne  rise  ognuno. 

Il  rampollo  di  Marte,  Leontéo, 

Fu  secondo  a lanciar;  terzo,  il  gran  figlio 
Di  Telamone,  che  con  man  robusta 
Ogni  segno  passò;  quarto  alla  fine, 

Con  fermo  polso  Polipete  il  disco 
Àfierrò.  Quanto  lungi  un  pastorello 
Citta  il  vincastro,  che,  rotato  in  alto, 
Vola  sopra  l’armento;  andò  di  tanto 
Fuor  del  circo  il  suo  tiro.  Àppiause  tutto 
Il  consesso:  affollàrsi  i fidi  amici 
Del  forte  Polipete,  e alla  sua  nave 
Portar  del  disco  la  pesante  massa. 

Invitò  quindi  i saettieri,  e in  mezzo 
Dieci  bipenni  espose  e dieci  accette: 

E piantato  lontano  nell’arena 
Un  albero  navale,  avvinse  a questo 
Con  sottil  fune  al  piede  una  colomba. 
Segno  alle  frecce.  Le  bipenni  prenda 
Chi  l’augel  coglie,  e le  si  porti.  Quello 
Che  il  fallisca,  e a toccar  vada  la  fune, 
Essendo  inferior,  s’abbia  l’ accette. 

Ciò  detto  appena , presentossi  il  forte 
Re  Teucro,  e Meii'on,  d’Idomenéo 
Prode  sergente;  e,  in  un  sonoro  elmetto 
Agitate  le  sorti,  usci  primiero 
Teucro,  e tosto  lo  strai  tirò  di  forza. 

Ma  perchè  non  avea  votata  a Febo 
Di  primo-nati  agnelli  un’ecatombe. 

Sfalli  l’augello  (chè  tal  lode  il  Dio 
Gl’ invidiò);  sol  colse  al  piè  la  fune, 

Che  legato  il  tenca.  Tagliolla  il  dardo; 
Libera  la  colomba  a volo  alzossi 
Per  lo  ciclo,  e fuggi;  cadde  la  fune, 


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¥.  iioi*ii3a 


LIBRO  XXlll 


5i3 


E di  plausi  sonar  s’udi'a  l’arena. 

Ratto  allora  di  mano  a Teucro  tolse 
Mer!on  l’arco;  e ben  presa  la  mira 
Colla  cocca  sul  nenro,  al  saettante 
Nume  promise  un’ecatombe;  e in  alto 
Adocchiata  la  timida  colomba, 

Che  in  vario  giro  s’avvolgea , la  colse 
Sotto  l’ala.  Passolla  il  dardo  acuto, 

E ricadde,  e s’infisse  alto  nel  suolo 
Di  Merione  al  piè.  Ma  la  ferita 
Colomba  si  posò  sovra  l’antenna; 

Stese  il  collo,  abbassò  l’ali  diffiise; 

E dal  corpo  volata  la  veloce 
Alma,  dal  tronco  piombò.  Stupefatte 
Guardavano  le  turbe.  Allor  si  tolse 
Le  scuri  Merion,  Teucro  l’ accette. 

Produsse  Achille  all’ultimo  nel  mezzo 
Una  lunga  lunga  asta,  ed  un  lebete 
Non  violato  dalle  fiamme  ancora. 

Del  valore  d’un  tauro,  e sculto  a fiori. 
Premio  alla  prova  delle  lance.  Alzossi 
L’ampio-regnante  Atride  Agamennone 
E il  compagno  fcdel  del  re  cretese 
Merion.  Ma  levatosi  il  Pelide, 

Trasse  innanzi,  e parlò:  Figlio  d’Atrèo, 
Sappiam  noi  tutti  come  tutti  avanzi 
E nel  vibrar  dell’asta  e nella  possa. 
Prenditi  dunque  questo  premio,  c il  manda 
Alla  tua  nave.  A Merion  daremo. 

Se  il  consenti,  la  lancia:  ed  io  tcn  prego. 

Acconsenti  l’ Atride.  A Merione 
Diede  Achille  la  lancia,  ed  all’araldo 
D'Agamennón  lo  splendido  lebete. 


Mosti.  liùtilc. 


53 


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LIBRO  VENTESIMOQUARTO 


ARGOMENTO 


ArkìOf»  pfo>*|ue  • (art  itratio  del  corpn  di  Eitort.  Parole  dei  Numi.  Teti  ^ mandata  da 
Giore,  perché  ùnpooga  aireroe  di  acromcntire  la  rcsliluaiooe  del  eadavirr*.  Iride,  ipediU  da 
Giort  madeaimo,  aceode  in  Tnija  e comanda  a Pruimo  che  fi  rechi  alle  navi  de*  Greci  a ri* 
acalli  da  Achille  coi  doni  il  corpo  del  fi(|lio.  Pnamo,  non  curaiado  le  rìmmtranae  della  tno||]ief 
ti  acnoge  alla  partesaa.  Mercurio,  prete  la  figura  di  un  giovaftetlo,  gli  lì  (a  iocoolro  fnori  dì 
Trnja,  e lalilo  tul  tuo  carro  gli  è di  teoria  fioo  airaUoggiamrato  d'Achille.  Priamo  c al  coapetto 
dell*  eroe.  Loro  colloqaio  II  corpo  di  Ettore  è con  legnato  al  padre.  Riltmo  dì  Priamo.  La* 
menti  di  Aodniroara,  di  Ectilta  e di  Elena.  Funerali  di  Ettore. 


Finiti  i ludi,  s’ avviar  le  sciolte 
Turbe  alle  navi  per  diverse  vie^ 

E,  preso  il  cibo,  a placido  riposo 
S'abbandonar.  Ma  memore  il  Pelidc 
Dell'amato  compagno,  in  nuovo  pianto 
Scioglieasi,  nè  serrar  poteagli  il  sonno. 

Di  tutte  cure  domator,  le  ciglia. 

Di  qua,  di  là  si  rivolgca,  membrando 
Il  valor  di  Patroclo,  e la  grand'alma, 

E le  comuni  imprese,  c i tollerati 
Guerrieri  alTanni  insieme,  e i perigliosi 
Trascorsi  flutti.  E in  queste  ricordanze 
Dirottamente  lagrimava  , ed  ora 
Giacca  su  i fianchi,  or  prono,  ora  supino; 
Poi  di  repente  in  piè  balzato  errava 
Mesto  sul  lido.  E quando  i campi  c Tonde 
Illumina  l' Aurora,  egli  di  nuovo. 

Aggiogati  i corsicr,  di  retro  al  cocchio 
Ettore  avvince;  e,  trattolo  tre  volte 
Di  Patroclo  dintorno  al  monumento. 


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¥.  Il-Co 


ILIADE,  LIBHO  XXIV  5 I 5 

A riposar  si  torna  entro  la  tenda, 

Boccon  lasciando  nella  polve  steso 
L’esangue  corpo.  Ma  del  morto  eroe 
Impietosito  Apollo,  ogni  bruttura 
Ne  tien  rimossa,  c tutto  coll’aurata 
Eigida  il  copre  ^ perchè  nulla  offesa 
Lo  strascinato  corpo  ne  riceva. 

Visto  del  divo  Ettór  lo  strazio  indegno. 

Pietà  ne  venne  ai  fortunati  Eterni, 

E il  vegliante  Argicida  ad  involarlo 
Incitando  venian.  Questo  di  tutti 
Era  il  vivo  desio,  ma  non  di  Giuno, 

Nè  di  Nettunno,  nè  dell’aspra  vergine 
Dall’ azzurre  pupille.  Alto  riposta 
Nella  mente  sedea  di  queste  Dive 
Di  Paride  l’ingiuria,  e la  sprezzata 
Lor  beltade  quel  dì  che  a lui  venute 
Nel  suo  tugurio,  ei  preferì  lor  quella 
Che  di  funesto  amor  contento  il  fece. 

Quindi  l’odio  immortai  delle  superbe 
Contro  le  sacre  iliache  mura,  e Priamo  , 

E tutta  insieme  la  dardania  gente. 

Ma  il  duodecimo  Sole  apparso  al  mondo, 

Febo  agli  Eterni  così  prese  a dire: 

Numi  crudeli,  che  vi  fece  Ettorre? 

Forse  che  su  gli  altari  a voi  non  àrse 
E di  mugghianti  e di  lanosi  armenti 
Vittime  elette  ei  sempre?  Ed  or  che  fiera 
Morte  lo  spense,  che  furor  s’ è questo 
Di  non  renderne  il  colpo  alla  consorte. 

Alla  madre,  al  figliuolo,  al  genitore. 

Al